Viterbo IL RACCONTO “Non si permetta di contraddire! È tutto prenotato. Se ne vada.”
di Agostino G. Pasquali

 

Terenzio

     La cosa che più ti colpiva quando entravi nel ristorante “Terri’s” e incontravi per la prima volta il proprietario, signor Terenzio, era il suo sguardo: severo e un po’ luciferino, penetrante come un fascio di raggi X.

     Al di sotto di una folta capigliatura corvina, protetti da sopraccigli altrettanto folti e scuri, stavano, come incastrati a forza, due grandi occhi con le iridi scure anch’esse. Tipo: Diego Abatantuono non ancora ingrigito, ma senza barba né baffi.

     Terenzio ti esaminava dalla testa ai piedi, senza muoverli quegli occhi, ma inclinando lentamente dall’alto verso il basso il capo che poi, compiuto l’esame, rialzava di scatto e, mirando le tue pupille, ti dava il responso.

     Che poteva essere: “Prego, si accomodi...” e allora accennava appena un inchino e chiamava il cameriere:

     “Andrea? Fai accomodare il ‘dottore’ (oppure il “signore”) al tavolo numero…”

     Come facesse ad azzeccare il titolo: ‘dottore’ o in alternativa ‘signore’, non l’ho mai capito, ma indovinava sempre, con precisa astuzia, come se sentisse l’odore della laurea allo stesso modo che un lupo sente l’odore della preda.

     Oppure il responso poteva essere: “Mi dispiace, signore, ma non ho un tavolo libero, per lei.” In caso di risposta negativa diceva sempre ‘signore’, mai ‘dottore’.

     E se il cliente respinto, avendo notato che la sala era pressoché vuota, insisteva e obiettava:      “Mah? Vedo tavoli liberi…” allora gli occhi di Terenzio sembravano infuocarsi come un laser e arrivava l’espulsione senza appello:

     “Non si permetta di contraddire! È tutto prenotato. Se ne vada.”

     Ovviamente i posti liberi c’erano, ma Terenzio era un ristoratore selettivo, il più selettivo che sia mai esistito, e la sua selezione si basava esclusivamente sulla simpatia. Era capace di respingere freddamente un ricco industriale con il Rolex a brillantini, o una celebre diva con bodyguard, o un potente politico con portaborse al seguito; così come poteva invece accogliere gentilmente un modesto signore con la ventiquattrore un po’ logora. E una coppia di Hippy? No, quella mai!

Comunque l’accettazione dipendeva solo da quel primo esame con il suo scanner psicosomatico.

     Circa venti anni fa, quando trovandomi nelle Marche ci andai per la prima volta, il ristorante Terri’s stava, e credo stia ancora, al numero 5 del  lungomare Vespucci della città di***, al piano rialzato di una palazzina degli anni ’30, costruita in uno stile vagamente liberty, come se ne vedono spesso nelle località della riviera adriatica.

     Ristorante luminoso, vista mare, arredato con discreta eleganza, tende e mobili in tinte pastello dal bianco al lillà chiaro, pochi tavoli da due, quattro, sei posti, giustamente distanti tra loro per dare relax e riservatezza.

     Ero appena arrivato in quella città con l’incarico di ispezionare una filiale dell’Istituto*** per un controllo disposto dalla Direzione Centrale. La mia permanenza era quindi temporanea, al massimo un mese, il tempo di verificare l’efficienza del gruppo dirigente, la regolarità delle procedure e l’aggiornamento del lavoro. Era perciò naturale che io prendessi domicilio in albergo. La Direzione Centrale me ne aveva prenotato uno serio, tranquillo, ma senza ristorante. Il portiere mi suggerì per il pasto serale di andare da Terri’s, ottimo e non troppo caro (poteva ben rientrare nel budget del mio rimborso spese).  Si preoccupò però di descrivermi chi e come era il signor Terenzio, avvisandomi che potevo essere accolto con garbo e cordialità oppure respinto come sgradito. Ricordo bene che, pur essendo preparato, anzi forse proprio per questo, mi sottoposi a quell’esame simpatia con una certa agitazione.

    “Andrea? Accompagna il dottore al tavolo 6. Prego, si accomodi, vengo subito da lei.”

    Ero stato ammesso!

     Appena fui seduto venne e mi parlò con deferenza professionale, ma con qualche piccola scivolata nel dialetto:

     “Dunque dotòr! Non mi chieda il menù. Ce l’ho il menù, quella orribile lista d’ plastica, ce l’ho perché è obbligatorio, ma ai miei ospiti dico io che cosa c’è di bon per loro. Se lei, glielo dico subito, e non si offenda… se lei viene da me con l’idea di mangiare un primo e un secondo con contorno, io le dico: “Signore! Vada al selfservice”. Invece si lasci consigliare e vedrà che sarà soddisfatto. Se no, doman no tornerà. E se non torna io ci resto male, perché vol dì che ho sbaglià tütt.”

     Si girò con un dietrofront tanto perfetto che avrebbe fatto la gioia di un sergente istruttore, e andò in cucina a ordinare.

     Tornò ancora per consigliarmi il vino e, quando gli dissi, con un po’ di apprensione, che avrei bevuto solo acqua, i suoi occhi neri si illuminarono, sorrise ed esclamò:

     “Ho capìt subito, appena l’ho visto, che lei è un vero signùr. Il vino va bene per divenire allegri e far baldoria, ma maschera e altera il sapore dei cibi. A m’ cumplimento con lei.”

     Non ebbi il coraggio di dirgli che, pasteggiando, a me il vino piace, ma, dato che qualche volta esagero, mi impongo poi un periodo analcolico, come cura e penitenza. Ed ero appunto in uno di quei periodi.

     La cena fu un’esperienza indimenticabile: una serie di assaggi, tutti di pesce: arrosto, fritto, al vapore, con salse varie…, tutto perfettamente cucinato e nettato: non una spina, un guscio, un valva, una pellicina. Non avevo mai assaggiato cose tanto buone, così ben preparate e assortite.

*     *     *

     Il ristorante Terri’s non era noto solo per il pesce, eccezionale e freschissimo, che veniva fornito direttamente dai pescatori del luogo, ma offriva specialità di carne a cadenza regolare (ricordo, per esempio, che il lunedì c’era il bollito piemontese e il mercoledì l’osso buco alla milanese) oppure imprevedibilmente c’era quello che passava a caso nella testa stramba, per non dire pazza, del signor Terenzio.

     E sì, il signor Terenzio era un po’ pazzo, e lo ammetteva lui stesso.

     Ricordo una sera. Cominciò a percorrere silenzioso la sala da pranzo, andando avanti e indietro, testa bassa e mani intrecciate dietro la schiena. Mentre passava sbirciava i clienti seduti ai tavoli.

     Quando si accorse che tutti avevano notato il suo strano comportamento, che avevano sospeso di mangiare e di chiacchierare, ma seguivano attenti e curiosi la sua spola, allora si fermò nel mezzo della sala, alzò la testa e le braccia come un predicatore, e proclamò:

     “Oggi sono proprio felice. Ho un ottimo ristorante. Il migliore della città. Ho l’onore di avere clienti graditi, veri signori, alcuni affezionati…” 

     Fece una pausa per guardare significativamente verso i tavoli degli affezionati, tra cui il mio, sorridendo e facendo un leggero inchino di omaggio, poi riprese:

     “Che cosa posso chiedere di più alla vita?...”

     Altra pausa, durante la quale si guardò attorno per verificare di avere l’attenzione di tutti, poi concluse:

     “… peccato che il proprietario, cioè io, sia pazzo come un cavallo!”

     E si ritirò in cucina sorridendo soddisfatto come un grande attore che ha recitato tanto bene la scena madre che il pubblico neppure applaude, perché sul momento è restato immobile e affascinato.

     Purtroppo un pizzico di follia poteva manifestarsi all’improvviso in qualsiasi momento, perché il suo comportamento non era problematico soltanto in occasione dell’esame di ammissione. Infatti chi veniva ammesso non stava poi del tutto tranquillo né era al sicuro da critiche pepate, roventi, talvolta da sfuriate, che gli arrivavano se ordinava qualcosa che a Terenzio non garbava o se si comportava in un modo che lui considerava errato o sconveniente.

     Non ammetteva, per esempio, che si spruzzasse il succo di limone sulla frittura di pesce. Chi lo faceva doveva sorbirsi una severa reprimenda, era trattato come uno studente che a scuola sbaglia l’uso del congiuntivo.

     Altro esempio: non gradiva che si ordinasse la zuppa di pesce. Se qualcuno insisteva, gliela serviva (ed era eccellente, io l’ho assaggiata una volta), ma prima gli faceva la predica:

     “Mangiare la zuppa di pesce è un’attività molto volgare. Ci si imbratta le mani e le labbra, ci si schizza di sugo e si sporca la tovaglia… Per cui adesso, mi permetta! la devo imbavagliare!”

     Quindi gli metteva un bavaglione enorme, girato attorno al collo, così che il cliente sembrava avvolto nel lenzuolo del barbiere.

     Né erano al sicuro i suoi collaboratori. Di tanto in tanto si sentivano le sue sfuriate in cucina dove però comandava la moglie che gli rispondeva senza soggezione, alla pari, per cui le grida erano bitonali e le voci si sovrapponevano incomprensibili come nei moderni talkshow televisivi. In sala, il cameriere Andrea, che ho già citato, e la cameriera Lucia subivano in silenzio i suoi rimproveri, ed erano frequenti perché era un perfezionista, ma almeno qui erano detti sottovoce.

     Non tutti i clienti erano però disposti ad accettare con un sorriso le sue osservazioni, che formalmente parevano lezioni, ma in realtà erano critiche pungenti, se non veri e propri rimproveri. Qualcuno reagiva e il risultato poteva essere imprevedibile. Come avvenne una sera che…

*     *     *

      … ad un tavolo c’era una piccola comitiva: due industriali del luogo che avevano invitato e portato a cena un loro importante cliente americano accompagnato dalla segretaria che faceva da interprete. L’americano era un omone molto somigliante a John Wayne sia nel fisico sia nel modo di fare, cioè intendo il John Wayne come si vede nei film: alto grosso rustico e deciso. Ordinarono spaghetti con le vongole.

     Terenzio, per fare bella figura, finì personalmente la preparazione in sala, portando proprio davanti all’americano un carrello con fornello a gas. Ed era veramente uno spettacolo vedere come  passava in padella gli spaghetti e li faceva saltare con abili mosse. Un delizioso profumo di mare arrivava fino a me e faceva sembrare insipida la mia pregiatissima sogliola cotta al vapore.

     Preparati e distribuiti i piatti, gli italiani del gruppo assaggiarono e si guardarono compiaciuti, quindi fecero i complimenti al cuoco. Ma il sosia di John Wayne, dopo il primo assaggio, disse qualcosa alla segretaria che tradusse:

    “Signor Terenzio, mister Frank Biggun vorrebbe del formaggio, parmigiano, per favore!”

     “Il parmigiano sulle vongole? È un’idiozia. Glielo dica.”

     “Frank? He said that parmesan on spaghetti and clams is idiotic.”

     L’americano sussurrò qualcosa all’orecchio della segretaria che riferì traducendo in italiano alla lettera, correttamente,  ma purtroppo senza diplomazia:

     “Mister Biggun insiste che ci vuole il parmigiano e chiede che gli sia dato immediatamente e senza storie, e dice che idiota sarà lei!”

     “Non se ne parla nemmeno, anzi gli tolgo il piatto di spaghetti e al massimo, proprio per gentilezza, gli faccio portare un pezzo di parmigiano, che se lo mangi così, questo bestione ignorante…”

     Così dicendo lanciò a John Wayne uno sguardo di sfida e gli tolse il piatto di spaghetti.

     O che il gesto fosse di per sé più che eloquente, o che avesse capito il significato di ‘bestione ignorante’, ma Mr. Biggun si alzò in tutto il suo metro e novantacinque e senza una parola mollò un pugno al naso di Terenzio. Non fu un pugno molto violento, non come quelli che si vedono al cinema che mandano il malcapitato a sfasciare un paio di tavoli e a capitombolare in fondo alla stanza, però senza farsi male. Fu poco più che una spinta, ma sufficiente a sbilanciare Terenzio, che inciampò arretrando e fini lungo disteso sul pavimento. Ci rimase sbalordito, mentre il sangue cominciava a colargli dal naso.

     “Waitress, please, spaghetti and clams, with parmesan, a lot of parmesan!” disse tranquillamente l’americano alla cameriera Lucia che aveva assistito senza fiatare.

     “Mah, non saprei, il signor Ter…”

     “Lugia? Non sdare a disgude. Dagli guello che buole” bofonchiò Terenzio che si era rialzato, però parlava male avendo il naso sanguinante tamponato con un tovagliolo.

     Quindi si ritirò subito in cucina e per quella sera non si fece più vedere in sala.

Agostino G. Pasquali

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