Viterbo IL RACCONTO Sorseggiavamo un vin brulé e intanto Walter mi ricordava gli anni delle settimane bianche
Un racconto di Agostino G. Pasquali

     Al mio amico Walter piace la neve, la adora. Piace anche a me per cui, quando ci incontriamo, ne parliamo con nostalgia e diamo sfogo ai ricordi dei vecchi tempi in cui andavamo a sciare.

     È vero che qui, a Viterbo, la neve cade raramente e crea più che altro disagi. Quest’anno poi non s’è vista affatto e non ne sono dispiaciuto, perché la neve che amo non è quella poltiglia umida e sporca che imbratta le nostre strade cittadine, e neppure quel manto effimero che negli anni passati trovavo fuori casa in qualche rara mattina d’inverno. Apprezzo invece la candida, spessa, durevole, soffice neve. Quella delle montagne.

     Un po’ di tempo fa, in una serata fredda, una di quelle ormai rare serate con la tramontana che invogliano a chiudersi in casa, stavo insieme a Roberto, un altro amico, appunto a casa di Walter. Ci aveva ricevuti nel seminterrato, in un locale originariamente adibito a garage, che lui aveva attrezzato con camino e trasformato abusivamente in taverna, ma legalizzato poi con uno dei  soliti condoni edilizi. Ah, i condoni di una volta! Che concessioni moralmente ignobili, ma politicamente utili e privatamente gradite!

     Walter seguiva con attenzione la cottura allo spiedo delle salsicce che sfrigolavano nel caminetto ed emanavano quell’aroma che dispiace tanto ai vegetariani ma fa impazzire di desiderio il carnivoro di casa, il gatto… e non solo lui.

     Sorseggiavamo un vin brulé e intanto Walter mi ricordava gli anni delle settimane bianche.

     Roberto ascoltava con aria assente, con lo sguardo stolido che ha il cane quando il padrone gli parla dimenticandosi che non è un uomo e perciò non capisce un discorso umano. Allo stesso modo Roberto ascoltava, ma non capiva il fascino dello sci perché non l’ha mai praticato: alla montagna preferisce il mare, e agli sci la barca da pesca.

     Però Walter e io non andiamo più a sciare già da qualche anno. Io per motivi anagrafici. Quanti anni ho? Beh! diciamo che fra poco “sottanti”. Ma Walter è relativamente giovane. E allora perché non scia più? Non ne ho mai saputo il motivo e allora ho approfittato dell’occasione per chiedere:

     “Ma com’è che hai smesso di sciare?”

     Walter ha dato un ultimo controllo alle salsicce che cuocevano tranquillamente, e ci ha fatti accomodare nell’angolo salotto. Poi ha preso un’aria ispirata per cominciare a spiegare. È un ottimo narratore, un affabulatore dotato di verve ed umorismo, che si compiace di raccontare, anzi di recitare come un attore di teatro, ed è un piacere ascoltarlo. Ha chiesto:

     “Anche tu, Robbè, vuoi sapere perché non vado più a sciare?”

     Roberto ha risposto con un sorriso di circostanza e un ambiguo cenno con la testa (in realtà non gliene importava niente), ma Walter lo ha interpretato come risposta positiva e ha cominciato la recita.

*     *     *

     La spiegazione non è semplice. Devo tornare con il ricordo a una decina di anni fa…

     Io, mia moglie e un gruppetto di amici, tu Agostino quell’anno non c’eri, eravamo a Sesto nell’Alta Val Pusteria.

     Era la mattina di venerdì, dunque l’ultimo giorno di sci della settimana bianca, e stavamo facendo la prima salita a monte, tutti stipati nella cabina della funivia che dal paese sale quasi in cima al Monte Elmo.

     La cabina era piena di gente, quasi tutti sciatori, uno accanto all’altro, a stretto contatto, come le nostre salsicce infilate nello spiedo… A proposito, fatemele controllare. Sì, stanno prendendo l’abbronzatura. Quasi pronte.

    Dunque, stavamo in piedi, tutti in piedi in un accostamento stretto e alquanto rumoroso: sci tenuti verticali che sbattevano, scarponi strisciati e pestati sul pavimento, bambini che strillavano, sciatori che chiacchieravano ad alta voce per soverchiare il rumore ambientale…

     Vi chiedete perché vi dico questi particolari? Lo faccio per te, Robbè, per te che non sei mai venuto in montagna e non ha mai voluto provare l’emozione dello sci; e per questo motivo cerco di renderti l’atmosfera allegra, eccitata, che c’è sempre dove ci sono sciatori, ed è particolarmente vivace il venerdì che è, come t’ho detto, l’ultimo giorno di sci della settimana bianca. Il sabato si rientra a casa e resta la nostalgia della montagna e di quella pazza attività che è lo sciare: salire per scendere, risalire per riscendere, tornare a salire per tornare a scendere, e così via... Come la tela di Penelope.   

     Nella cabina c’era un fantasmagoria di colori: tute blu, nere, gialle, verdi, multicolori, alcune fosforescenti; copricapo di tutte le fogge, le più strane: colbacchi di pelo, berretti nordici a due punte, a cono da puffo, pluricorni da giullare con immancabili sonagli; qualche testa maschile, calva di natura o accuratamente rasata, stava invece nuda a luccicare sfidando il freddo.

     Corpi, teste, sci, tutto oscillava leggermente secondo l’ondeggiare della cabina, e quel movimento provocava un flusso e riflusso di forme e di colori come in un caleidoscopio. L’insieme sapeva di eccitazione festosa, di preparazione per un divertimento emozionante.

     All’improvviso, a circa metà del percorso, la cabina si arrestò con uno scossone. La frenata improvvisa ci sbilanciò e ci fece ondeggiare. Per qualche attimo ci fu silenzio, un irreale silenzio di attesa.  Poi, come sempre, dopo pochi secondi, si sentì un ronzio che era il segno della ripartenza. Gli sciatori ripresero il loro chiacchiericcio, qualcuno commentava il piccolo contrattempo scherzandoci su, nessuno gli dava importanza perché queste fermate di tanto in tanto succedevano.

     Neanch’io me ne ero mai preoccupato, ma quella volta no, fu diverso. Quando la cabina si era fermata avevo  perso l’equilibrio, sarei caduto se non ci fosse stato quell’affollamento e non mi fossi appoggiato ai vicini. Ma sentii anche un tuffo al cuore ed ebbi un presentimento: quel giorno non dovevo sciare, se no mi sarebbe capitato qualche guaio. Non avevo alcun motivo di preoccuparmi, però non avevo provato mai, prima di quel giorno, quella strana, oppressiva sensazione di pericolo, e quel pensiero mi allarmò.

     Arrivati in cima, usciti dalla stazione della funivia, ne parlai con Lucia, mia moglie, che si mise a ridere e ci scherzò:

     “Ma come! Tu, il razionale, il positivista, lo scettico… ti fai venire queste ubbie? Che mi sei diventato superstizioso? Dai, dai, mettiti gli sci e andiamo.”

 

     Roberto, tu non mi conosci come sciatore. Dunque devi sapere che non sono uno sciatore perfetto. Non ho fatto corsi né ho mai praticato lo sci agonistico. Ho imparato tardi, dopo i trent’anni, da autodidatta, ma me la cavavo bene su ogni tipo di pista, anche su quelle nere. Il mio stile non sarà stato perfetto, ma era quello standard, efficace e sciolto, più che sufficiente per il divertimento del dilettante. Non conoscevo la paura della discesa, ma praticavo la prudenza.

     Cominciai dunque a scendere, dapprima con circospezione, poi con più scioltezza, lasciandomi prendere dal gradevole ritmo delle curve, dall’emozione che danno i così detti ‘muri’, cioè quegli improvvisi aumenti di pendenza che fanno staccare gli sci dalla pista e danno l’impressione di volare.

     Sciando, capita spesso di vedere i principianti che scendono rattrappiti, incerti e di tanto in tanto perdono l’equilibrio e cadono. Ma chi è sufficientemente esperto non si impressiona, gli gira alla larga, però se è evidente che qualcuno è in difficoltà, si ferma per offrirgli un aiuto e un consiglio. Raramente ottiene un grazie gentile, normalmente riceve un “No, grazie. È tutto a posto”, ma qualche volta anche un “Fatti i c… tuoi!”, detto rusticamente.

     Quel giorno, invece, la vista di chi cadeva mi dava paura, mi provocava il dubbio che anche io potevo cadere e farmi male, rompermi una gamba, forse la testa… mi vedevo già a terra, dolorante, immaginavo la gente che chiedeva aiuto, il toboga di soccorso che non arrivava mai… e poi l’ospedale, l’intervento chirurgico e il medico che scuoteva la testa e sentenziava: “Mi dispiace, ma lei non potrà più camminare bene come prima, però non si disperi perché con quella brutta caduta lei poteva essere morto.”

     Passò così la giornata, agrodolce, mai rilassata, e venne l’ora di smettere. Durante il giorno gli amici del gruppo avevano sciato frazionati, ognuno secondo i suoi gusti e le sue capacità. Ma sul tardi ci ritrovammo insieme per il ritorno in funivia. Uno propose: “Invece di ammucchiarci in cabina, scendiamo con gli sci e così chiudiamo in bellezza.”

    Devo precisare per te, Robbè, che si può scendere dal Monte Elmo fino al paese di Sesto per una pista fatta con i sentieri e le strade che in estate servono come collegamento carrabile. Non è difficile scendere là, ma è noioso. Però permette di arrivare direttamente, sempre sciando, fino ad alcuni alberghi, tra i quali c’era il nostro.

     Accettarono tutti con entusiasmo, anche io. Ma subito dopo mi pentii perché ebbi il presentimento che l’incidente che non s’era verificato prima, sarebbe accaduto ora. Dissi, dunque, che io sarei sceso con la funivia. Risatine, prese in giro, insistenze. Quando ci si mise pure Lucia, mia moglie, a darmi del fifone, fui costretto a cedere. E ci avviammo.

     Feci quella discesa con una prudenza e un’attenzione particolare, rallentando ad ogni curva, evitando accuratamente ogni ostacolo o difficoltà, ma sempre con il batticuore e il presentimento dell’incidente. Lo sentivo che stava per succedere.

     Ma non successe. Andò tutto bene e arrivai proprio all’albergo. Mi tolsi gli sci con un respiro di sollievo. Lucia mi guardò beffarda e commentò:

     “Visto? Se davi retta al tuo presentimento avresti perso una magnifica giornata di sci.”

     “Hai ragione...” risposi e mi avviai con gli sci portati a mano, uno nella destra e uno nella sinistra, lungo la corsia del deposito-sci. Ero felice e rilassato, tanto rilassato che non notai una lastra di ghiaccio, ci misi uno scarpone sopra, scivolai e caddi rovinosamente all’indietro. Impacciato dagli sci non riuscii ad attenuare il colpo. Mi ritrovai a terra, schienato, sicuro di essermi rotto almeno metà delle ossa.

     Invece mi rialzai senza difficoltà pensando: “Lo sentivo che doveva succedere, meno male che è andata comunque bene”. Però cominciai ad avvertire subito un dolore lancinante nel fondo schiena.

     Nel nostro gruppo c’era anche un medico che mi visitò sommariamente e fece la diagnosi:

     “Contusione e possibile frattura del còccige. Non ci si può far niente. Mica si può ingessare il culo. Te lo tieni così. Prenditi un analgesico e cerca di muoverti il meno possibile. Siediti di traverso, usa un cuscino a ciambella, in modo da non premere sul coccige. Un paio di giorni e il dolore si attenuerà e poi scomparirà progressivamente del tutto. Quanti giorni? Difficile dirlo. Se il coccige è solo contuso: pochi. Se è fratturato ce ne vorranno di più, anche un mese o due…

     Dopo quel giorno ho sciato solo una volta, l’anno successivo, ma senza entusiasmo, con tensione e preoccupazione, perché m’era rimasto il presentimento che l’incidente, quello grave, mi doveva ancora capitare, che la caduta da fermo era stata soltanto un secondo avvertimento.

*     *     *

     Finito il racconto ci siamo messi a discutere sul ‘presentimento’. Walter, che lo aveva avuto, sosteneva che è una percezione extrasensoriale, una premonizione da non trascurare.

     Roberto ha commentato:

     “Io, al presentimento non ci credo, ma ti capisco. Voi sapete che a me piace l’acqua, mi piace il mare e soprattutto il lago. Sapete che vado in barca a pescare, con la barca a remi e a motore… Una volta un amico mi fece salire sulla sua barca a vela, una di quelle barchette che, per tenerle dritte senza che si rovescino, bisogna bilanciarle con il peso del corpo, anche spenzolandosi fuori bordo appesi ad un cavetto… Bene! vi assicuro che non è stata affatto un’esperienza piacevole per la continua paura di finire in acqua e affogare. Ma non era presentimento, era proprio una maledetta fifa.”

      Avrei dovuto dar ragione a Roberto, ma non volevo essere scortese dando del fifone a Walter, che era il padrone di casa. Da quell’imbarazzo mi ha salvato Lucia che è entrata nella stanza ed è intervenuta così:

     “Stavo di là, in cucina, preparavo l’insalata e ho avuto un ‘presentimento’, che le salsicce  stessero per bruciarsi. Ma non era proprio un presentimento, era un odore... quello delle salsicce cotte quasi troppo. Tu, chiacchierone, ti diverti a recitare e così trascuri tutto il resto. Ho la sensazione che hai pure parlato male di me. Anche questo si può definire ‘‘presentimento?”

     “No, questa è malignità femminile” ha concluso Walter.

FINE

Agostino G. Pasquini

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