Viterbo NUOVI RACCONTI DI SOVRANA L’arrivo di un artista di città, bene avviato alla gloria del palcoscenico, suscitò tensione
Un racconto di Agostino G. Pasquali

 Leggi la prima parte NUOVI RACCONTI DI SOVRANA: Don Bucononsò (Prima parte)

  1. Don Bucononsò (Parte seconda, finale)

     Fino agli anni cinquanta tra gli abitanti di Civita Romana e quelli di Sovrana non c’era mai stata una vera e propria rivalità ma solo qualche sporadico contrasto di interessi.

    Come ho scritto nel racconto ‘Piccolo mondo a Sovrana’, le due comunità erano separate, avevano solo rapporti burocratici, perché Sovrana era una frazione del comune di Civita Romana e amministrativamente ne faceva parte. La frazione aveva infatti vivacchiato in autonomia fino alla seconda guerra mondiale, con un’economia curtense poco più che medioevale, mentre il capoluogo era già aperto al progresso e alla modernità.    

 

   Ma negli anni cinquanta, e maggiormente nei sessanta, i giovani delle due comunità erano cresciuti in un modo diverso da quello dei loro genitori; erano più mobili, più intraprendenti e avevano contatti tra di loro. Infatti si incontravano a scuola, poiché frequentavano gli stessi istituti medi e superiori, e si scontravano nello sport. Erano incontri e scontri che inevitabilmente creavano un certo campanilismo. Si era ancora lontanissimi dalla globalizzazione e perciò il progresso avanzava ma non eliminava le gelosie locali, addirittura le accentuava.

     La famiglia Rossini abitava dunque nella frazione, ma aveva interessi e rapporti soprattutto nel capoluogo comunale e perciò non dava confidenza ai sovranesi anzi li trattava con freddezza, così che ne derivò una reciproca antipatia. Quando arrivò il giovane Nabucodonosor ci fu l’episodio del soprannome Don Bucononsò che aggravò il contrasto generando un forte risentimento dei Rossini contro la comunità locale.

     I sovranesi anziani non si sentivano particolarmente infastiditi da questa avversione, facevano spallucce e continuavano ad occuparsi dei loro affari come prima, ma i giovani, guardati con rancore e disprezzo da Don Bucononsò, cioè Nabucodonosor-Rino, ricambiavano il malanimo. Inoltre erano gelosi dei loro coetanei civitesi che, guidati sapientemente da don Gabriele Mille-sì, apprezzavano il giovane cantante, gli portavano rispetto anche nell’uso del nome, lo invitavano alle loro festicciole, lo trattavano con riguardo ed erano ricambiati con la cordialità e la concessione di esibizioni canore.

     Insomma l’arrivo di un artista di città, bene avviato alla gloria del palcoscenico, suscitò tensione tra quelle due comunità e indusse un desiderio di rivalsa nei giovani sovranesi.

*     *     *

     Ogni anno per il ferragosto c’era grande festa a Sovrana.

     La celebrazione cominciava la sera prima con sparo di mortaretti e sfilata della Banda Musicale Sovranese. La banda era una novità istituita di recente per iniziativa di Vittorio Neri. Chissà se qualche lettore si ricorda del giovane Neri? Quello pieno di iniziative che più avanti istituirà il Museo dei vecchi mestieri e delle tradizioni popolari?

     Si chiamava ‘Banda’ con un po’ di presuntuosa esagerazione, perché si trattava di un numero minimo di musicanti, proporzionale alla dimensione di Sovrana, e consisteva infatti di sei elementi, sei quando erano tutti presenti, e cioè: due clarini, due trombe, un bassotuba e una grancassa. Quando i musicanti marciavano erano preceduti da un giovanissimo tamburino che aveva dieci anni e nessuna attitudine musicale, ma era figlio del suonatore di grancassa che ci teneva a trasmettergli, anche se con scarsissimi risultati, la sua passione. Il bambino percuoteva volonterosamente un piccolo tamburo, ma solo quando c’era da fare un ‘rullato’, perché non avendo orecchio, se si azzardava a segnare il ritmo, disorientava e mandava tutti fuori tempo.

     Era un’altra epoca, semplice e ingenua, ma la gente si entusiasmava con poco e per divertirsi bastava una marcetta militare o una canzonetta allegra. Per esempio il pezzo forte della banda era ‘È mezzanotte’, una canzoncina del Sanremo 1960 che ancora piaceva per il ritmo allegro e l’orecchiabilità.

     Per i sovranesi ascoltare la loro banda era un divertimento sano, naturale, faceva bene all’umore, gli dava allegria e ottimismo. Non come oggi che si va ad un concerto rock o in discoteca per eccitarsi con qualche grammo di droga e per istupidirsi con un milione di decibel.

     La mattina del 15 agosto si apriva sempre con un nuovo passaggio della banda, poi c’era una messa solenne nella chiesa del patrono sant’Antonio, quello degli animali, quindi il pranzo festivo e nel pomeriggio giochi in piazza e concertino della banda, che si arrischiava, con incoscienza e preparazione approssimativa, a suonare ‘La donna è mobile’ ‘Libiamo ne’ lieti calici’ e altre arie tratte dalle opere liriche; quindi dava il gran finale con l’immancabile ‘Marcia trionfale dell’Aida’.

     Chiudeva il pomeriggio una ‘Grande Tombola con ricchi premi’. E la sera fuochi artificiali.

     *     *     *

    Per quel ferragosto del 1963 Vittorio Neri, che era il principale organizzatore degli eventi, pensò di riconciliare Sovrana con il tenore Rino Rossini invitandolo ad esibirsi in piazza durante il concerto della banda.

     Vittorio era ben consapevole che una sua personale richiesta non sarebbe stata accolta dal giovane tenore, ancora assai maldisposto verso tutti i sovranesi per il soprannome che conosciamo.

     Ma anche Vittorio, pur non essendo andreottiano, aveva una sua abilità diplomatica e conosceva i sentieri e i sotterfugi della politica. Si lavorò il parroco don Gabriele che era considerato (ed era veramente) una specie di padrino del tenore.

     A Don Gabriele, che aveva l’incarico di officiare la messa solenne nella chiesa di sant’Antonio, chiese il favore di presentare al cantante la richiesta, di appoggiarla, e promise in cambio un congruo aumento del compenso per la messa. Per quanto gradita, questa proposta ottenne solo un ‘Forse si può fare’ che nella semantica di don Mille-sì equivaleva ad un ‘no’. Vittorio aggiunse allora l’impegno a procurargli un buon numero di voti per le prossime elezioni, secondo i desideri del patrono. Cosa avete capito! Non intendo sant’Antonio, ma il patrono politico. Questa offerta convinse don Gabriele e l’accordo, ovviamente segreto, fu concluso.

     E venne il 15 agosto, il giorno della festa, che cominciò e andò avanti regolarmente come da programma. Il tempo magnifico e la giornata soleggiata e calda il giusto per l’estate avanzata, avevano richiamato visitatori da Civita Romana e dai paesi vicini.

     Una folla multicolore, allegra e rumorosa, venuta soprattutto perché attirata dall’esibizione dell’ormai noto tenore Rino Rossini, si aggirava per le vie di Sovrana comprando dolciumi e prodotti locali, con grande soddisfazione dei sovranesi che facevano ottimi affari.

     Alle sei del pomeriggio venne il momento del concerto della Banda Musicale Sovranese, nel corso del quale era prevista l’esibizione del tenore nella celebre romanza ‘Celeste Aida’.

   Nella piazza centrale era stato preparato un palco alla buona; l’aveva montato Peppino Lo Facocchio con tavole e cavalletti presi in un cantiere, e l’aveva addobbato Italia Neri, la maestra, che aveva utilizzato le tovaglie a quadretti rossi dell’Osteria, drappeggiate come coccarde. In prima fila, davanti al palco erano sedute le autorità: sindaco e consorte, maresciallo dei carabinieri e comandante dei vigili urbani, parroco e segretario comunale, c’erano pure Vittorio Neri con la madre Agata (Vittorio come presidente del Comitato organizzatore e Agata come nota esperta di canto e discreta cantante essa stessa). Dietro, in piedi, tutto il pubblico.

     La banda iniziò il concerto suonando molto bene perché per l’occasione, cioè per non sfigurare con il tenore, si era preparata meglio del solito. I suonatori avevano passato serate intere, fin oltre la mezzanotte, a provare e riprovare marce militari e arie operistiche, avevano selezionato quelle che venivano meglio e ora esibivano orgogliosamente la loro abilità ricevendo applausi ripetuti, forse pure esagerati, ma sicuramente meritati per l’impegno che ci mettevano. Anche il tamburino partecipava, però batteva delicatamente in modo che i suoi ‘fuori tempo’ passassero inosservati.

     Arrivò il momento del tenore. Il tamburino, che aveva anche il compito di esporre i cartelli con il titolo del brano da eseguire, issò ben evidente quello di ‘Celeste Aida – canta il M/o Rino Rossini’ e rullò con decisione. Il M/o si presentò con un inchino in risposta ad un rumoroso applauso e assunse un’aria ispirata. Il primo clarino introdusse la melodia e accompagnò il tenore con insolita delicatezza.

     Rino cantò stupendamente commuovendo tutti i presenti e ricevendo alla fine un applauso così lungo e convinto che avrebbe inorgoglito perfino Pavarotti.

     Mentre era ancora in corso l’applauso la banda cominciò a suonare la marcia trionfale dell’Aida e contemporaneamente entrò in piazza un piccolo corteo di giovani, mascherati per imitare i guerrieri egiziani. I giovani erano preceduti da uno di loro truccato come Nabucodonosor e reggevano uno striscione con la scritta: ‘Omaggio a Don Bucononsò. Gli vogliamo bene.”

     Nabucodonosor, cioè Rino, non gradì quell’omaggio che era indubbiamente di cattivo gusto, ma forse anche volutamente sfottente. Si allontanò scuro in volto e nessuno lo vide più, né a Sovrana né a Civita Romana.

     Qualche tempo dopo, Don Gabriele, che era rimasto in contatto epistolare con Rino, fece sapere che l’amico tenore era emigrato negli Stati Uniti e aveva un grande successo. Poi, trascurando per una volta la sua abituale diplomazia, sentenziò duramente:

   “Perché, in quella lontana parte del mondo, la gente non fa caso ai nomi, anche se strani, e non usa un atteggiamento stupido e provinciale come quello dei giovani di Sovrana, rozzi trogloditi dell’età delle caverne, tanto ignoranti da confondere il Radamès egiziano con il Nabucodonosor babilonese.”

Fine

Agostino G. Pasquali 

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