Viterbo NUOVI RACCONTI DI SOVRANA Quarto racconto
Un racconto di Agostino G. Pasquali

Premessa

     Già nei precedenti ‘Nuovi racconti…’ ci sono stati riferimenti a ‘Piccolo mondo a Sovrana’. Altri, più numerosi e più significativi, si trovano nel racconto di oggi. Chi è interessato a saperne di più o a rinfrescare i ricordi, nel caso che il tempo li abbia - come succede spesso - sbiaditi, può cercare fatti e personaggi al seguente indirizzo:

http://www.lacitta.eu/images/stories/pdf/Piccolo-mondo-a-Sovrana-R.pdf

Buon compleanno, Agata

     14 maggio 1983, primo pomeriggio.

     Agata Neri se ne stava sistemata comodamente nella sua poltrona, nella sua stanza, nella sua vecchia casa, e dormicchiava con davanti il televisore acceso ma senza audio; tanto il suo udito, reso debole dall’età, non era più in grado di decifrare i suoni in modo sufficiente e perciò lei preferiva seguire i sottotitoli piuttosto che tenere il volume altissimo. Intanto qualche metro più in là, nella sala grande, tre persone erano indaffarate a preparare la festa del suo compleanno: era nata il 14 maggio 1903 e perciò compiva esattamente 80 anni.

 

     La casa di Agata era la vecchia casa che lei e Giustino avevano comperato negli anni venti, appena sposati. Era stata in origine una modesta costruzione, un semplice parallelepipedo a due piani con una ripida scala esterna sul lato sinistro, un tetto a due spioventi, un balconcino al primo piano, come quelle casette che si vedono ancora oggi qua e là in campagna, alcune abbandonate come dimostrato dai buchi neri al posto degli infissi delle finestre, altre in condizioni non molto migliori, ma abitate ora, più o meno legalmente, da extracomunitari.

   Italia, la figlia nubile e convivente, che era maestra elementare e aveva acquisito buon gusto sia con gli studi sia con un intelligente uso dell’osservazione e dell’esperienza, aveva però ristrutturato, negli anni sessanta, la casetta e l’aveva resa più gradevole eliminando la scala esterna, rifacendo il tetto a padiglione mansardato, rivestendo alcune sezioni delle pareti con lastrine di pietra e aggiungendo un paio di tettoie, una delle quali, chiusa con vetrate, era un grande bovindo a cinque ante che aveva la funzione di soggiorno-salotto. L’interno era stato ristrutturato in stile rustico elegante, con un equilibrato accostamento di pareti intonacate bianche, archi in mattoni e inserti in pietra viva. Era dunque divenuta una villetta, piccola ma confortevole e pure piuttosto raffinata.

     Al piano superiore, originariamente zona notte, c’era ora una camera da letto, servizi privati e un salotto studio, il tutto a disposizione della figlia Italia. Agata invece aveva la sua camera al piano terra, comoda per lei che pativa l’usura degli anni soprattutto nelle ossa e aveva grande difficoltà a salire e scendere le scale. In effetti, fino a pochi anni prima, la stanza al piano terra era stata lo studio di Italia e anche Agata aveva la sua camera al piano superiore. Poi era avvenuto lo scambio per facilitare Agata le cui condizioni di salute erano peggiorate.

     Al piano terreno c’erano, oltre la camera di Agata, i servizi e un disimpegno che dava su un soggiorno il quale si apriva sul bovindo con cui, all’occorrenza, si poteva fare ambiente unico: la così detta sala grande. In questo ambiente fervevano i preparativi per la festa di compleanno.

     L’organizzazione della cerimonia era diretta da Italia che, esperta di festicciole scolastiche, ne replicava in casa la scenografia e il ritmo; era aiutata dal fratello Vittorio, docilmente succubo agli ordini delle donne in materia di organizzazione casalinga, anche se era poco convinto dell’opportunità di tutta quella messinscena; un altro aiuto le veniva dalla cognata Cristina che invece era eccitata e collaborativa come una scolaretta. Avevano messo fiori freschi nei vasi e fiori artificiali qua e là a vivacizzare l’ambiente, appeso festoni multicolori, esposto vassoi di dolci, di rustici, di panini, e bevande a profusione, e appeso un grande cartello con scritto ‘BUON 80° COMPLEANNO, AGATA’.

     Per convincere Vittorio, che aveva provato all’inizio a scoraggiare la sorella o quanto meno a limitarne l’entusiasmo, Italia aveva sentenziato:

     “Voi uomini di queste cose capite poco o niente. Badate solo all’essenziale, al materiale, ma noi donne amiamo ciò che è apparenza, che è vistoso, che è ornamento, perché questo è un modo giusto di manifestare il sentimento. E poi 80 è un bel traguardo che arriva una volta sola. Vedi, Vittorio? 81 82 83… se e quando arrivano, sono meno significativi. È come a Natale, quando si gioca: la tombola è il premio importante; poi vengono pure il tombolino, il tombolicchio, e altri premi di consolazione, ma ci si fa poco caso. Se nostra madre arriverà a 90 anni, quella sarà proprio una super tombola, ma ora festeggiamo come si deve questo traguardo di 80.”

     Verso le cinque del pomeriggio la festa era già iniziata. Parenti e amici erano arrivati alla spicciolata portando i regaletti scelti nei giorni precedenti tra dubbi e indecisioni. Si erano consultati e chiesti l’uno con l’altro:

     “Ma che si regala ad una vecchia di ottanta anni, pure un po’ rimbambita?”

   E ora stavano accomodati su divani sedie sgabelli, chiacchierando e spettegolando, e intanto divoravano cibi e scolavano bibite come se fossero digiuni dal giorno prima, e probabilmente qualcuno aveva saltato davvero il pranzo confidando nella generosità alimentare della famiglia Neri.

     Alle cinque in punto, come prevedeva il programma, Vittorio e Italia introdussero mamma Agata accompagnandola sottobraccio e la fecero sedere a capotavola. Era una vecchina dall’aspetto tenero e delicato: capelli bianchi resi appena un po’ azzurrini da Cristina, che s’intendeva di maquillage e tinture, e li aveva pure cotonati per l’occasione, vestiva un lungo nero con lustrini, quasi da sera, era ravvivata da labbra e unghie accuratamente dipinte di rosso corallo e da un leggero ombretto agli occhi. Se ne stava lì sorridente, ma con l’aria perplessa di chi ode poco e si sente isolato, troppo in vista e un po’ fuori posto.

     Per chi l’aveva conosciuta durante le sua lunga vita come donna forte e dinamica, e lì quasi tutti la conoscevano da tanti anni, appariva ora quasi un fantasma di se stessa. Gli anziani, specie le donne, osservavano l’Agata di oggi, così ridotta e debole rispetto a quella di un tempo, e vi vedevano la propria immagine (così saremo?) riflessa da uno specchio del futuro. Ma non era poi un’immagine triste: magari arrivarci tutti!

     Tra un applauso e l’altro ci furono i discorsetti, per fortuna brevi perché lì nessuno era un buon oratore, ma soprattutto perché nessuno gradiva ascoltare le solite lodi, dolciastre e ipocrite.

   Italia, l’intellettuale del gruppo, diede sfogo al sentimento parlando dell’amore materno, proprio lei che, essendo nubile, non lo conosceva se non indirettamente per il contatto con le madri dei suoi alunni.

     Vittorio, capo famiglia riconosciuto e apprezzato per i suoi successi commerciali, ricordò con verve e spirito alcuni episodi della vita della madre (a cominciare dal ‘porchetto Nino’), citò la passione per il canto, e pose in rilievo la sua grande energia, rustica e saggia. Parlò di quell’energia che era la dote principale delle donne nel ‘mondo de na vorta’, quando le donne non avevano parità, non votavano, non vestivano con i pantaloni, ma erano loro a governare la famiglia e a farne la base della società. Allora le separazioni erano rare e il divorzio non c’era, ma non se ne sentiva il bisogno perché in casa comandavano loro, le donne.

     Con una poesiola recitata da Vittorio jr, che aveva solo tre anni e non più di quelli dimostrava cantilenando e mangiandosi metà delle parole, si chiuse la fase formale dei discorsi.

     Mentre quegli oratori improvvisati avevano recitato le loro sciocchezze, Agata, che udiva poco e quindi difficilmente capiva il senso dei complimenti che le erano dedicati, aveva seguito certi suoi pensieri che, da parecchio tempo, le giravano per la testa. Non era affatto rimbambita come qualcuno pensava nel notare la sua difficoltà auditiva. Si stava però lentamente distaccando dal mondo per l’indebolimento del suo fisico, indebolimento inevitabile a causa della sua sempre più ridotta capacità di muoversi e del suo essere quasi sempre sola in casa.

     Infatti, quando la figlia stava a scuola, lei non aveva altra compagnia che i libri, ottimi compagni per passare il tempo, ma stranianti. La vista era ancora buona, con le lenti ovviamente, e lei leggeva leggeva, le era sempre piaciuto leggere.

    Negli anni quaranta e negli anni cinquanta erano stati i settimanali popolari, come La Domenica del Corriere e Grand Hotel, che l’avevano proiettata nel mondo fantastico della narrativa di parole e fumetti. Poi gli sceneggiati televisivi di Anton Giulio Majano le avevano fatto scoprire i grandi romanzi, e da allora leggeva e rileggeva i classici italiani: Verga Pirandello Deledda… anche Liala, ma soprattutto Manzoni, anzi in particolare ‘I promessi sposi’, perché la riportavano in un mondo piccolo, simile a quello che aveva conosciuto e abitato insieme al suo caro Giustino (che Dio l’abbia in pace). Leggeva anche un po’ di narrativa contemporanea, ma le piaceva poco perché a lei appariva come la testimonianza di una società decadente, egoista, amorale e violenta. Il mondo contemporaneo, confusionario e tecnologico, le era poco comprensibile e comunque non le dava calore umano.

   Rifletteva in quel momento sull’incongruità di quella festa. Che era formalmente per lei, ma era realmente la festa per gli altri: per i bambini che si ingozzavano di dolci, per gli uomini che avevano un’occasione per chiacchierare e scherzare, per le donne che spettegolavano senza alcun ritegno. Le veniva però anche un ricordo dolce e affettuoso del suo Giustino, che era morto già da otto anni e che presentiva di poter raggiungere presto. Questo pensiero le provocò una stretta al cuore, proprio una stretta fisica, e provò, più acuto del solito, un senso di estraniamento, come se il suo stare in quel luogo fosse soltanto una presenza corporea e il suo spirito fosse lontano.

     Venne il momento della torta. Applausi, brindisi, e un gran vociare in cui si fondevano e confondevano auguri e battute scherzose.

     Tutto pronto per le candeline e il taglio. Un amico di famiglia che faceva il fotografo aveva portato la sua attrezzatura per filmare l’avvenimento. Accese quindi lo spot luminoso puntato sul soffitto e lo ruotò gradatamente su Agata per farla adattare a quella luce molto forte.

     E quella luce apparve ad Agata come una manifestazione innaturale, ma non sgradevole. La guardava ad occhi spalancati e voleva distogliere lo sguardo ma non ci riusciva. Sentì che il cuore le pulsava forte, ma irregolare… che si fermava.

     Chi le era vicino notò la sua strana immobilità, gli occhi fissi, un’espressione dolce, sorridente, ma statica, come congelata.

     “Che cos’ha?”

    “È svenuta?”

     “Sta male… ma no… sorride.”

     “Oddio! Forse sta…” e la parola ‘morendo’ non venne pronunciata ma fu intuita.

     La visione, attraverso le pupille dilatate, si era sfocata. Ad Agata sembrò che la luce si trasformasse in una scia azzurra che puntava verso l’alto e attraversava un tunnel di nuvole luminose. Sentì che una forza soprannaturale la sollevava e la aspirava delicatamente nel tunnel. Volava e provava un piacere assoluto, una gioia infinita, perché sapeva con certezza assoluta che stava salendo al cospetto di Dio, che presto avrebbe avuto la soluzione dei grandi dubbi e la spiegazione dei perché della vita. E avrebbe ritrovato il suo Giustino.

Agostino G. Pasquali

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