Viterbo NUOVI RACCONTI DI SOVRANA Quinto racconto (Seconda e ultima parte)
Un racconto di Agostino G. Pasquali

 

     Nel giro di poche settimane, tra chiacchierate passeggiate e picnic, la frequentazione era divenuta assidua.

     Italia trovava divertente la conversazione di quest’uomo venuto dalla metropoli; era un buon parlatore, dotato del fascino dell’esperienza, e lei accettava volentieri questa frequentazione.

È vero che sapeva bene che l’uomo era sposato e che perciò non avrebbe potuto costruire con lui un rapporto familiare regolare. Il divorzio non c’era ancora, anzi era sconveniente solo il pensarci, né d’altra parte lei avrebbe mai acconsentito ad una convivenza illegale, peccaminosa. Però diceva a se stessa:

     “Ma una breve avventura senza implicazioni profonde… perché no? Signorina, ehi! - dico a te cioè a me - che cosa aspetti? Hai quarant’anni e pure abbondanti…”

 

     D’altra parte sentiva per il ‘flirt’ una certa diffidenza istintiva che ogni tanto affiorava dal suo subcosciente, ma lei si sforzava di considerarla una sciocca prevenzione, residuo di un’educazione all’antica.

     Passavano i giorni ed Ettore manovrava affinché il rapporto di amicizia divenisse più affettuoso. Comunque i due erano prudenti ed evitavano accuratamente che la gente potesse avere qualche motivo concreto per spettegolare. I sovranesi notavano ovviamente quell’amicizia, ma non vi trovavano nulla di male, perché effettivamente nulla di sconveniente si era mai visto, però alcuni, un po’ più maliziosi, intuivano che quel rapporto non poteva restare innocente all’infinito, ma facevano spallucce e pensavano: “Che male c’è se anche la signorina maestra si concede qualche piacere?” e aspettavano con curiosità maliziosa di vedere lo svolgersi degli eventi.

     Intanto Ettore procedeva nella sua tattica fatta di piccoli gesti: trattenere la mano di lei al momento del saluto, prenderla sottobraccio, accarezzarle come per caso i capelli, donarle dei fiori, fare discorsi insinuanti, regalarle un fotoromanzo che raccontava una storia romantica simile alla loro, ovviamente con finale appassionato… Italia capiva e lasciava fare. Si diceva: “Non è forse, questo, il corteggiamento che ho sempre sognato?”

   Però, a poco a poco, si presentò alla sua mente l’idea che prima o poi avrebbe dovuto concedere … qualche cosa. E restò in attesa passiva che l’evento succedesse. L’occasione si presentò durante una passeggiata.

     Una sera, nel fresco particolarmente gradevole dopo la calura di una lunga e soleggiata giornata di luglio, e con il concorso di uno spicchio di luna crescente, romanticamente occhieggiante in cielo, i due si erano appartati e dedicati ad effusioni affettuose in un luogo tranquillo e molto discreto, appunto nel boschetto di cui ho detto all’inizio del racconto. Ettore, con abili movimenti delle mani e del corpo fece capire a Italia che era venuto il momento.

     Lei non provava un autentico e sensuale desiderio, ma più che altro sentiva la curiosità di sperimentare quelle sensazioni, quei sublimi piaceri, che aveva immaginato leggendo romanzi e poemi. In quel momento, distesa sul plaid, con le stelle che punteggiavano romanticamente il cielo oltre le cime degli alberi, con la vicinanza fisica un po’ animalesca di Ettore, le venivano in mente le parole di Francesca (Divina Commedia: Inferno, canto V, 103-105)

               Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
              mi prese del costui piacer sì forte,
              che, come vedi, ancor non m'abbandona.

     Ma lei, in quel momento, era disorientata per un contrasto di pensieri ed emozioni. Intanto non si sentiva affatto una Francesca in estasi amorosa e non era ‘presa da sì forte piacer di costui’; d’altra parte considerava pure che, arrivata a quarantadue anni, non poteva trascurare questa possibilità né fare la difficile nella scelta di un partner tanto più se occasionale. La cosa più strana è che, mentre il cuore le batteva forte e un po’ di ansia l’agitava, le veniva pure da ridere, ma il riso era nervoso, nasceva dall’incertezza e da un certo timore di quello che stava per succedere. I decenni di mancata esperienza la rendevano impreparata al rapporto intimo. Si irrigidì.

     Ettore se ne accorse. Gli era già successo in altre occasioni e aveva sempre risolto quel momento critico con un atteggiamento da maschio, sicuro di sé, forte, ma anche delicato. Ripeté la domanda con voce più dolce e gentile:

     “Te le togli ‘ste mutandine o, se mi permetti, te le posso levare io?”

     E cominciò con movimenti lievi come carezze, a denudare Italia.

     Lei cominciò a sentire che le montava dentro un senso di rifiuto, una crescente repulsione fisica, che aveva cercato dapprima di ignorare e poi di reprimere. Avvertiva il contatto dell’ispido volto di Ettore, quel volto che sembrava onnipresente sul suo corpo, ora qua ora là a dar baci che erano fasci di fastidiose punture. Capì che quello non era l’amante giusto per lei, e tuttavia non trovava la forza di opporsi, ma rimaneva passiva e rassegnata; anzi adesso desiderava che lui facesse in fretta. Aveva quel misto di ansia e di desiderio di far presto che si prova nell’imminenza di un intervento chirurgico, sgradevole, ma inevitabile per stare poi meglio.

     Il momento era venuto e si propose di non opporre resistenza. Cercò di estraniarsi mentalmente da ciò che stava avvenendo e concentrò l’attenzione sull’ambiente: guardò verso il cielo e vide la falce della luna, muta e passiva testimone dei fatti e misfatti umani, aspirò l’odore fungino delle foglie marcescenti, un odore naturale che contrastava e attenuava il profumo aromatico e insieme un po’ ferino dell’uomo, notò il frinire dei grilli impegnati nei loro richiami d’amore nella tranquillità indifferente della campagna, una tranquillità disturbata appena dall’ansimare leggero dell’uomo accanto a lei…

… ma quella tranquillità e il suo divagare mentale vennero interrotti improvvisamente da due spari di fucile e, un attimo dopo, si sentì un leggero crepitio di qualcosa che colpiva le fronde degli alberi. Era come quando all’improvviso cadono inaspettate le prime gocce di un acquazzone. Ma non erano gocce d’acqua, erano pallini di piombo.

     “Ci sparano addosso!” esclamò Ettore, con voce esitante e preoccupata. Non cercò di capire da chi, da dove e perché. Raccolse svelto i suoi indumenti e scappò nel fitto del bosco a ripararsi, egoista e indifferente per le sorti della sua compagna.

     Italia rimase ferma, sdraiata e appiattita a terra, come aveva visto fare nei film quando c’era una sparatoria. Esplosero altre fucilate ripetitive e regolari, a due per volta con un intervallo di alcuni secondi. Guardando cautamente attraverso il cespuglio che la proteggeva dalla vista di chi stava fuori della radura, vide le fiammate degli spari. Venivano dalla villetta vicina, che prima era stata buia e silenziosa, ma adesso all’improvviso si era riempita di vita: alcune persone, uomini donne e ragazzi, erano usciti sulla terrazza, ballavano e gridavano allegramente come per una grande gioia. Uno del gruppo, che stava un po’ discosto dagli altri, sparava con una doppietta, ricaricava e sparava di nuovo, ma verso l’alto, verso la luna, e i pallini ricadevano qua e là come gocce di pioggia.

     Erano da poco passate le ore 22 del 20 luglio 1969 e il giornalista Tito Stagno aveva appena pronunciato in televisione le storiche parole “Ha toccato!” con le quali gli italiani seppero che il LEM con due uomini a bordo era allunato, cioè si era posato sulla luna.

     La gente, che in tutto il mondo aveva seguito con ansia la cronaca televisiva della fase finale dell’allunaggio, dava sfogo alla gioia suonando trombe campane e campanacci, e pure sparando in aria con i fucili da caccia.

*     *     *

     Se, una sera di luglio, proprio la fatidica sera del 20 luglio 1969, la luna fu violata da esseri umani per la prima e unica volta, quello fu un grande avvenimento che interessò tutto il mondo e divenne storia.  

     La signorina Italia invece non fu violata. Le restò un piccolo rimpianto di non aver completato quell’esperienza che le mancava, ma si disse che c’era ancora tempo e che prima doveva trovare la persona giusta. Si chiedeva infatti: “Possibile che non riesco a trovare il mio Alan Ladd?”

     Ettore tornò a casa mogio mogio, rassegnato ad aumentare di uno il numero di quelle che ‘non gliela avevano data’, e finì la serata dedicandosi ad una interessata e succosa contemplazione dell’ultimo numero di Playboy.

Agostino G. Pasquali  

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