Viterbo SE MI DAI LA MANO TI PORTO CON ME Il Leone ricorda e suggerisce
Enzo Bentivoglio

 

Il percorrere una città di notte, a notte alta, quando si spengono i rumori e le strade son deserte e silenziose, rinnova e suscita sensazioni, evoca memorie, invita a riflessioni.

Ci si pongono delle domande circa i tempi trascorsi e le attualità, e talvolta – cosa che accade ai più emozionabili e percettivi – si ha il convincimento di sentire delle voci che provengono dalla città di pietra, dal passato e di percepire delle “presenze”.

Ciò mi è accaduto in tempi recenti, nel percorrere quel probabile diverticolo dell’antica Via Cassia – incidente al margine delle rupi già profondanti nell’alveo del torrente Urcionio – rappresentato oggi dall’attuale percorso Corso d’Italia-Piazza delle Erbe-Via Roma-Piazza del Plebiscito-Via San Lorenzo-Piazza della Morte-Piazza del Duomo, che nella continuità dei tempi ha rappresentato, e ancor oggi costituisce, uno dei principali assi stradali della struttura urbana di Viterbo. Poco dopo aver iniziato quel percorso, percepii che non ero più solo, qualcosa mi accompagnava. Prima un rumore cadenzato e soffice che si abbinava a quello aspro dei mie passi scrutatori, senza ritmo, quindi la sensazione di una presenza, poi la certezza: un’ombra si proiettava, di volta in volta al mio fianco, scompariva, quindi appariva di nuovo, avanti definendosi quale sagoma, più orizzontale che verticale, non umana.

Poi il suono e l’ombra si sostanziarono in una immagine e questa cominciò a parlare, con voce profonda e pacata, talvolta con tono lamentevole, presentandosi con queste parole: «il mio nome è Leone e sono affine a quel feroce leone che Ercole – dopo una notte passata con cinquanta vergini – stordì e poi strangolò e quindi si ammantò della sua pelle e la testa divenne il suo cimiero. Il mio quasi zio ebbe pietà di me, cucciolo, e mi permise di seguirlo nel suo lungo peregrinare fino a quando, giunto da queste vostre parti, dopo aver creato un lago conficcando la sua clava nel terreno, venne onorato dalle sparse genti del luogo, che gli innalzarono un tempio là ove le acque torrentizie definiscono un luogo, prora di un retrostante territorio, da questo disgiunto e quindi, con mirabile artificio, di nuovo collegato con un ponte realizzato in opus quadratum (scusami il mio antico parlare! volevo dire una costruzione realizzata con grandi blocchi di pietra squadrati e connessi tra loro senza malta). Quelle genti mi vollero qui e la mia ferina immagine, assunta a loro signum, fu collocata ovunque per la città e nel luogo ove le rappresentanze della comunità cittadina e delle varie antiche magistrature si radunavano e risiedevano fui doppiamente scolpito in statua e collocato su due antiche colonne (come i santi anacoreti stiliti), sentinelle di quella piazza a tutela delle libertà cittadine e garante di un buon governo».

Terminato questo suo parlare, Leone si piegò verso il mio incedere e così lo interruppe; si era giunti nel luogo un tempo detto piazza de’ Fajani, poi di S. Stefano (per la chiesa già lì esistente) e oggi delle Erbe, e di nuovo cominciò a parlare, questa volta con un tonto “lamentevole”: «Hai visto! abbiamo appena superato quel luogo un tempo “salotto buono” per tutte le età, dai giovani liceali, ai professionisti, agli impiegati, ai professori, ai pensionati, lì a fissare un appuntamento per fare “la corte”, per un aperitivo di lavoro, un caffè e cappuccino tra una mossa e l’altra di scacchi, la domenica in fila, a comperare le paste. Oggi, seppur è vero che i tempi sono cambiati e la vita presuppone, anzi impone altre dinamiche, altre modalità d’incontro, ciò non più avviene; ma è anche vero che non ci sono più gli illuminati, forse meglio dire sagaci, imprenditori che congiungevano la propria attività con inneschi di varia natura “culturali”, amanti della qualità e promotori di socializzazione».

E mentre il mio sguardo istintivamente roteava indietro indirizzandosi verso il ricordato luogo, mi uscì dalla bocca quell’espressione di sgomento che vien pronunciata dall’avvenente signora nei riguardi di un tipo d’auto, quando gli occhi videro quel palazzetto che tramanda la memoria CONCORDIA CIVIUM INSTAURATA MDIII realizzata da papa Giulio II. Ma in esso non vidi più gli estesi lacerti della decorazione (un secolo or sono quasi tutta esistente) a finto bugnato a punta di diamante e quant’altro: un attualissimo beverone di un colore ormai avvolgeva tutto, estrema e violenta soluzione all’aggressione del tempo e all’incuria degli uomini.

Poi una soffice e decisa carezza della zampa di Leone mi invitò a guardare altrove, verso la fontana, mentre questi riprese a parlare rammaricandosi che quei quattro suoi simili in marmo, lì presenti, non godessero della giusta considerazione da parte dei cittadini, non tanto perché appartenenti alla sua razza e non così carichi di mito e storia come lui, ma perché egregiamente scolpiti dal viterbese (di nascita) Pio Fedi, la cui grande scultura rappresentante il “Ratto di Polissena” i fiorentini avevano collocato nella Loggia dell’Orcagna, accanto alle opere di Benvenuto Cellini e del Giambologna; Me Superi! almeno – dico io, adeguandomi ai moderni vostri tempi – un’opportuna segnalazione che attiri di nuovo il viterbese e che esplichi al turista!

Più che mai, oggi, legare di nuovo Viterbo a Firenze, può essere d’utile attualità; infatti, nel loro passato culturale, soprattutto rinascimentale, le due città si sforzavano a collocarsi entro il solco della tradizione etrusca, come cercò di “dimostrare” il coltissimo principale “testimonial” culturale di tale volontà, il frate domenicano Annio, che l’indimenticabile André Chastel ebbe a definire, come il “più immaginoso e il più ingannevole degli archeologi del tempo”». A questo punto Leone, alzando la folta criniera, dopo aver emanato un sospiro, fissandomi con i grandi e penetranti occhi, disse: «ma non ti sembra strano che oggi la vostra pubblicità, sia commerciale che culturale, non abbia come cardini quegli anniani atteggiamenti? Infatti, il mito la “invenzione” e la sfrenata fantasia più che mai oggi è d’attualità!».

Stavamo per riprendere il cammino quando Leone si fermò di nuovo, e riprese a narrare: «scusami, dimenticavo di dirti che il luogo ove ci siamo fermati poco fa ha rappresentato nei bei tempi antichi un fulcro pulsante della città, quando era compreso in quella vasta area che i documenti e le antiche cronache appellavano “Prato Cavallucalu”, dove discendeva un percorso che dalle porte della città collocate a Est e Sud, passando per il luogo della distrutta (poco più di un secolo fa) chiesa di San Simeone, nei cui pressi si insediarono importanti famiglie come i Capocci e i Mazzatosta, quelli della cappella affrescata da Lorenzo da Viterbo e del bel profferlo, da tutto il mondo ammirato, ma che oggi presenta segni di stanchezza; infine non posso dimenticare di ricordare cosa era stato realizzato nell’imponente palazzo che il “generoso” Spreca aveva costituito poco più in là. Quest’uomo, partecipante delle più alte cariche del governo cittadino, si era fatto dipingere nel grande salone – a suo e altrui monito – tra la seconda metà e la fine del XV secolo, diciassette allegorie rappresentanti le tre “Virtù Teologali”, le quattro “Virtù Cardinali” e le così dette “Virtù Profane” (Honestas, Autoritas, Sobrietas, ecc.), ma quell’eccezionale ciclo pittorico e forse unico nel panorama artistico italiano, trascurato dalle istituzioni (era stato, il secolo scorso, autorevolmente segnalato), ha attirato un’attenzione incolta e venale che le ha strappate dall’avito luogo, predisponendole anche ad espatriare: il Magistrato, la Polizia si sono accorti in extremis del fatto da cui il sequestro, ma dopo il conseguente clamore e la pubblica esposizione ora le “Virtù” giacciono nell’oscurità e si ammalano nell’oblio».

Riprendendo il cammino, seppur la strada andasse dolcemente a scendere, lo sguardo man mano aumentava il suo angolo fino al punto che il collo non poté piegarsi più indietro; infatti, si era giunti sotto la torre di piazza del Comune, che già svettava sul palazzo del Podestà (ne era simbolica prerogativa) e che fu in parte ricostruita dopo il crollo nel 1487, elevandola per quarantaquattro metri sul suo originario impianto e fondamenta. E fu qui che Leone emise un lunghissimo sospiro e di nuovo e con tono indispettito riprese a parlare: «Ma ti pare! che dopo tanti secoli di rispetto nei miei riguardi, dopo che mi hanno collocato su due snelle colonne, pure antiche, mi hanno effigiato, tutto dorato, nel soffitto della Sala Regia del Comune, tutto ciò a significare i valori che io, signum della Città, rappresento e tutelo, possa tollerare che qualcuno la mattina si svegli con la malsana idea di volere portare processioni di turisti a guardarmi sulla testa e sul dorso! Farli ascendere lassù, a 44 metri, con ardimentosi meccanismi ancorati alle vetuste pietre che per tale violenza protesteranno scuotendosi per i “chiodi” in esse infissi e per le vibrazioni dell’infame macchina che non potrà immergersi in un vuoto della terra e che non potrà vedere la luce del sole! Ma per questi stupri tecnico-architettonico di voi contemporanei c’è sempre in agguato Poseidone!».

Leone sembrò placarsi, ma come rivolse lo sguardo verso quella via che il cardinale Alessandro Farnese jr suggerì/impose a Viterbo affinché non si giungesse al luogo più rappresentativo della città attraverso vie marginali e tortuose, borbottò fra sé e sé «ma è possibile che una così bella visuale discendente dalla piazza della fontana “bella più di altre” al bel palazzo quattrocentesco sia così urticante – come una catena di processionarie – per la presenza per una trentina di quelle scatole di metallo con le ruote che perpetua quella consuetudine lontana nei tempi quando l’uomo legava il suo cavallo, somaro o asino sotto casa, sotto il profferlo quando, oggi a poche centinaia di metri più in là v’è una bella area di stazionamento!».

Imboccata Via San Lorenzo, dopo poco Leone fece il gesto di coprirsi con la zampa gli occhi e emanò un ghigno di amarezza; a tale atteggiamento chiesi spiegazione e così mi rispose «di certo non voglio guardare quella chiesa di San Biagio ove risiedeva quell’antica “Arte” che dagli animali traeva pelli per uso degli uomini e tutto ciò mi ricorda la fine che fece il mio parente; e poi tutto quel moderno nero che avvolge il suo interno emana necrofilia, e a pensare che gli uomini d’oggi lo sentono come luogo di ristoro! ».

Dopo avere detto ciò, mi fece notare un palazzo a sinistra: «questo palazzo di sobrio aspetto settecentesco insiste su un’ampia area topograficamente molto “misteriosa” per la sua storia più antica, mentre per la più recente ricordo che ha ospitato agli inizi del XIX – un’interna iscrizione lo tramanda – il re di Spagna, l’imperatore d’Austria e Leopoldo di Toscana; ma è altresì significativa la circostanza che nella mirabile pianta del primo catasto grafico promosso da papa Pio VI, questo palazzo, allora della famiglia Zelli Pazzaglia sia segnato con il “N° 1”. Ma è stato internamente “declassato” e perfino i sottotetti, con l’immissione di perturbanti protuberanze captatrici di luce e aria, sono stati resi “abitabili”; situazione visiva che infastidiva un’Autorità tanto da fargli tenere chiuse gli scuri della finestra».

Poi Leone, indicandomi con la zampa destra una strada, mi invitò a indirizzare lo guardo verso il fondo ove scorsi, dopo un’alta torre, il fronte di un palazzo, e mi disse con tono solenne: «quello che appena percepisci è il prestigioso e immacolato grandioso palazzo rinascimentale di Viterbo già proprietà, all’epoca di papa Pio II, di chi fu socio dello scopritore del minerale d’allume nella Tolfa, evento che svincolò tutto l’Occidente dalla dipendenza dall’Impero Ottomano. Poi fu del fratello di Agostino Chigi il Magnifico e rimase, attraverso varie successioni e ramificazioni, “in possesso” della Famiglia, fin quando non fu venduta all’avv. Ferdinando Egidi, i cui discendenti ancor oggi lo posseggono, integro compreso l’antico giardino, con signorilità e rispetto».

E dato che si cominciavano a percepire i primi chiarori dell’alba, Leone mi condizionò, aumentando la sua andatura che divenne leggermente saltellante, ad accelerare il passo, poi di scatto si fermò, si girò verso me e con tono solenne disse: «stiamo per superare il ponte delle grandi pietre e giungere così sul colle ove fu già il tempio dedicato al carnefice di mio zio. Ma il tempo lo ha divorato e al suo posto una nuova religio ne ha realizzato un altro, pur questo mirabile per le sue monolitiche colonne e i pregevoli fantastici intagli, a dir il vero – io che me ne intendo – un poco “pagani”. Ma quello che mi preme farti notare e ricordare, è che a dare un senso a cose e storia sono sia le piccole cose che si presentano agli occhi e ci invitano a un “colloquio ”, così come le grandi, che stanno lì mute. Guarda là, alla tua destra - poco rispettata tant’è che mostra danni recentemente indotti - quella grande lastra di marmo bianco tutta piena di iscrizioni, che gli specialisti chiamano “carta lapidaria”; quell’epigrafe ha quasi mille anni e testimonia la misericordia di due coniugi, nel fondare e donare la loro casa e possedimenti per realizzare un ospedale per i pellegrini. A proposito, voi di questo tempo non vi trovate coinvolti in un evento straordinario chiamato “Giubileo della Misericordia”? E la particolare chiesa che aveva ospitato la benemerita antica Confraternita, poi una apprezzata sala per la banda municipale, offre oggi una “misericordia” più quotidiana, espressa da birra e pizza».

Ma subito poi Leone, aprendo e agitando le zampe anteriori a destra e sinistra (quasi vigile urbano nel traffico di un crocevia), mi guidò lo sguardo verso due scudi araldici e compiacendosi disse «è difficile che tu potrai credermi, ma quanto vedi lì scolpito io li ho visti nell’antichità più remota, poi le vostre civiltà del passato li hanno resi simboli: guarda a sinistra, là in alto il bel drago per il tesoriere del Patrimonio di San Pietro e a destra il liocorno, ormai in disfacimento, assunto a emblema della castità, che è in testa allo stemma bellicosi Farnese che lì avevano il loro palazzo, e che il divino Raffaello mise in grembo alla bella Giulia».

E come avviene di sovente l’affacciarsi dal ponte fu cosa naturale, ma Leone si affrettò a tirarmi indietro esclamando: «Non rischiare! là sotto vi sono in agguato dello sprovveduto viandante due centauri saettanti». Poi Leone, arrivato in prossimità di un arco, si fermò e con tono severamente triste mi raccontò che lì fino a non molto tempo addietro v’era lo stratificato – per oltre quattrocento anni – complesso di edifici dell’Ospedale “grande”, la cui futura proprietà e destinazione è quasi un “mistero”, aggiungendo che sarebbe cosa bella che lì si costituisse un vibrante polo culturale avente come fulcro il già pulsante di gioventù, “Museo del Duomo”.

Arrivati nella piazza del Duomo, Leone riprese il ritmo accelerato, saltellante e mi guidò su per le scale ascendenti al panoramico luogo sulla valle di Faul, valle non più luogo degli antichi tornei, degli orti urbani e delle passate lavorazioni della canapa, dove colpevolmente trascurato, vilipeso e abbandonato dalle proprietà e dalle istituzioni il già medioevale Ospedale di Santo Spirito ancor mostra tutta la sua antica dignità, tra lo scatolame ruotabile e certi inquietanti ingombri statuari.

E dopo avere osservato, unitamente a me, in una panoramica di 270 gradi su quanto Viterbo offriva e suggeriva, Leone riprese a dirmi: «Caro Enzo, ormai che il sole alle nostre spalle sta mandando le sue basse ombre io voglio “illuminarti” su quelle cose che tu e i cittadini di oggi poco conoscono o ignorano e delle quali potreste trarre “profitto”, s’intende culturale e magari con intelligenza, perché no, anche di sana economia. Osserva là quell’area fortunatamente ancora a orto adiacente e pertinente il convento agostiniano della Trinità, ricordo che nel 1720 vi furono trovati, in una proprietà privata, notevoli resti di costruzioni di epoca romana e che in vari ambienti v’erano pregevoli decorazioni a mosaico; di tutto ciò tramandarono con atti gli allora accorti amministratori della città e il gesuita Feliciano Bussi ci lasciò i disegni. Ora sarebbe bello che Viterbo rintracciasse di nuovo il sito, così quella ritrovata antichità classica tra le mura della città sarebbe una eccitante attrattiva. Ma tu mi dirai che tutto è ormai perso, ma io posso supporre che non sia così, infatti, una testimonianza dall’ultima guerra mi invita al affermarlo, basta osservare una fotografia scattata dalla RAF: quel biancore di forma regolare che si palesa là, verso l’angolo a sinistra potrebbe fare pensare alle fondamenta di quella “grande struttura”; e così quello che si vede nell’affresco, fine cinquecento, nella “Sala Regia” non sarebbe poi completamente e assolutamente fantasioso.

Ma se quella archeologia classica in città può avere un certo margine di incertezza, di sicuro vi è invece un’archeologia medioevale che potrebbe offrire molta soddisfazione agli studiosi e a un pubblico vasto per i rinvenimenti, oltre quelli murari anche ceramici e altro. Infatti, voglio ricordarti che quando il cardinale guerriero Egidio Albornoz iniziò la recuperazione dei territorî , città, rocche dello Stato Pontificio usurpati durante la “cattività avignonese” preparando il ritorno dei papi a Roma, “segnò di sua mano et puse la prima petra” il 26 luglio1354 della Rocca, pochi anni dopo, per esigenze difensive fu abbattuta tutta la stecca/stecche di case a questa fronteggianti, dando così origine a larga parte della attuale piazza della Rocca. Quanti pregevoli reperti potrebbero vedere la luce dalle profondità di quei pozzi, realizzati in quella spianata, detti dagli esperti esploratori “butti”, restati sigillati da allora fino ad oggi e riempiti per oltre i due precedenti secoli!

Ma vi sono delle bellezze e delle “preziosità” artistiche e storiche il cui pieno godimento è precluso ai viterbesi perché “segregate” in ambiti che seppur a servizio della collettività sono tenuti particolarmente esclusivi o non sufficientemente praticabili, oppure chiuse in cassaforte: Viterbo dovrebbe dire, “aprite le porte”, mettete in mostra! A meno che non si dovessero poi fare mille chilometri per vederle».

A questo punto l’atmosfera si riempì di una sorta di rombo, proveniente dal settentrione della città di cui, incanalandosi entro la valle di Faul, mi sembrò di percepire una cavernosa sequenza delle parole, ma non mi riuscì di decifrarne alcuna. Ma prima che potessi riprendermi dallo sgomento e interrogassi Leone, questi, con fare distaccato mi disse: «sereno, stai sereno; al prossimo nostro incontro ti spiegherò l’origine di questa stupefacente manifestazione che di tanto in tanto, da decenni, si origina e il suo significato».

Enzo Bentivoglio

 

 

 

 

 

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