Cellere UNA PERSONA CHE NON DIMENTICHERO' MAI Nata nel 1884 (essendo io cellerese, annoto che Domenico Tiburzi era ancora vivo e vegeto), non poteva comportarsi con me, se non come tutte le persone di un passato molto remoto
Mario Olimpieri

Cellere il mercato negli anni '40 (Archivio Mauro Galeotti)

L’idea proposta da Agostino Pasquali e subito accettata e divulgata dal nostro direttore Mauro Galeotti ha già coinvolto alcuni amici del giornale, i quali hanno presentato, attraverso la loro magica penna (ma oggigiorno è il caso di dire magica tastiera), le persone che mai dimenticheranno.

Finora sono state sottolineate proprio le figure di due professori che hanno lasciato un segno indelebile nella loro vita; anch’io ho riflettuto abbastanza, ho indagato nella mia vita per ritrovare nel ricordo qualche figura particolare che abbia inciso notevolmente nella mia crescita, e pure io mi sono soffermato su una professoressa, ma non laureata, perché semplicemente “professoressa di vita”: sto per parlare di una donna speciale, di mia nonna Maria.

Nata nel 1884 (essendo io cellerese, annoto che Domenico Tiburzi era ancora vivo e vegeto), non poteva comportarsi con me, se non come tutte le persone di un passato molto remoto e con le convinzioni di quel periodo storico.

Nonna Maria era una donna piuttosto bassa, mingherlina e aveva la testa adornata di una chioma abbastanza voluminosa e bianca; vestiva sempre di nero o di un blu molto scuro e con un idoneo grembiule a salvaguardia della veste sottostante.

Essa era molto parca nel mangiare, le bastava ben poco: per colazione aveva a disposizione un po’ di latte intero, dove affondava poco pane raffermo (in quel periodo il latte era venduto casa per casa, dopo che era stato appena munto da chi possedeva una placida mucca), in seguito, il pranzo e la cena consistevano in una leggera minestrina con appena un po’ di carne lessa.

A proposito di pasti, ricordo con simpatia una giornata invernale, nella quale mia nonna rimase notevolmente sorpresa e scandalizzata per una “gran magnata” (è proprio il caso di esprimermi in dialetto) che fu effettuata da me e dai miei due fratelli.

Era sicuramente dicembre, il mese in cui a Cellere si ammazzava il maiale (la “grascia” di casa) che poi si appendeva a una scaletta per far asciugare le sue carni e che veniva posta vicino alla porta di casa per un vigile controllo e per praticità.

In quei giorni si approfittava per accontentare uno stomaco che durante l’anno non aveva mai visto tanta abbondanza: un mio fratello tagliò con un affilato coltello il filetto del maiale che, cotto unitamente a degli invitanti fegatelli, costituì un pranzo da re; il tutto fu annaffiato da un tonico vino rosso che ci spinse al canto e a una sfrenata allegria.

E che c’entra mia nonna in tutto ciò? C’entra, eccome! Fu enormemente turbata da quella mangiata davvero smodata e da quei canti, frutto dei fumi alcolici, ai quali mai aveva assistito in vita sua, e più aumentava la nostra baldoria e più cresceva il suo stupore, il suo avvilimento, forse pensando anche che quel maiale, di quel passo, sarebbe durato ben poco.

Ma ritorniamo a mia nonna, considerando invece le sue virtù e la sua rettitudine.

Essa era molto religiosa, frequentava con gioia e con fedeltà le cerimonie che si tenevano nella chiesa parrocchiale e sapeva ben ripetere il sunto delle prediche ascoltate; ci invitava a pregare e a conquistare numerose giaculatorie che, dopo la morte, ci avrebbero consentito di soggiornare per poco tempo in Purgatorio e di arrivare presto in Paradiso.

Mi ricordo che facevamo insieme i precisi conteggi dei giorni accumulati e ne scaturivano a migliaia; ora che sono adulto, questi ricordi mi fanno sorridere, non sento più quelle certezze di una volta, ma mi fanno ritornare con piacere ai tempi dell’infanzia e dell’innocenza.

Mia nonna mi controllava anche nei giochi e nelle mie uscite di casa: desiderava che non mi allontanassi troppo e dove il suo sguardo non potesse arrivare.

Mi suggeriva anche delle pratiche furbizie, per cui, se ero molestato o iniziavo un litigio pericoloso, dovevo far finta di essere stato da lei chiamato e, per disimpegnarmi, dire forte: “Ecco, vengo subitooo!”. In questa maniera lasciavo il gruppo, la lite, gli eventuali pericoli e salvavo la complicata situazione.

Nonna Maria fu anche toccata da un profondo dolore per la morte di suo figlio che, a causa di un male incurabile, terminò il percorso terreno all’età di sessantadue anni; ne fu molto addolorata, la fede le dette conforto, ma anch’essa raggiunse il Paradiso l’anno seguente, all’età di ottantasette anni, raggiunta l’anno successivo anche dalla figlia Angelina, mia madre.

Gentili lettori, a questo punto, non ho più l’entusiasmo di dilungarmi e di chiarirvi ulteriormente la figura di nonna Maria: avrete già compreso pienamente il perché di tanto affetto verso una nonna che mi ha avviato a una vita tranquilla e all’onestà; anche voi avrete certamente dei magnifici nonni da ricordare per sempre per aver tracciato un solco profondo nella vostra vita.

“Cara nonna Maria, oggi sono particolarmente felice perché ti ho ricordato con affetto e riconoscenza e perché ti ho presentato ad amici che nulla sapevano della tua esistenza e della tua esperienza terrena”.

Mario Olimpieri

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