Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

Chi ha ucciso la bella Nadia?

PRIMO GIORNO

     Il maresciallo dei carabinieri Eugenio Filiberto Grandasso esce dalla caserma dei carabinieri di Civita Romana e si accosta alla sua auto.

Rovista nelle tasche alla ricerca della chiave, indugia perché la ricerca è complicata in quanto le tasche della divisa militare sono tante e in ognuna c’è qualcosa. Non ricorda dove ha messo la chiave perché metterla in tasca è un’operazione automatica, fatta come d’abitudine, e quindi bisogna cercare dappertutto. Trova penne a sfera (ne tiene almeno un paio perché quando gli serve con urgenza la penna, se ne ha una sola, è sicuro che quella non scrive), un blocchetto per appunti, il telefonino, un pacchetto di fazzoletti, la scatole delle mentine, e poi chiavi, troppe chiavi: di casa, della caserma, della scrivania, del computer e naturalmente quella dell’auto. Ma questa quando si fa trovare?    

     Cerca pazientemente perché è un ‘bùgia nen’ (*) che certo non si agita né si scompone per un così piccolo fastidio, anzi sorride, e questo è il secondo sorriso di una giornata di lavoro appena cominciata. Il primo sorriso l’ha dedicato alla moglie Nunziatina che si alza dal letto per prima e gli fa trovare pronto il caffè del risveglio, aromatico denso e forte come piace a lui.

     Nell’ultima tasca in cui fruga la chiave c’è, come previsto. Il maresciallo apre la portiera dell’auto, si installa al volante e si prepara ad avviare il motore, ma si ferma con la chiave in mano a mezz’aria perché vede un ragazzino di una decina di anni d’età che gli fa cenno di aprire lo sportello. Apre.

     Il ragazzo gli porge una busta e scappa via di corsa, raggiunge l’angolo del palazzo, lo gira e scompare. Il maresciallo vorrebbe chiedere una spiegazione, sapere da parte di chi e perché gli è stata mandata la lettera, ma quello è stato così svelto che non gliene ha dato il tempo. Gli è sfuggito, tuttavia non se ne preoccupa perché, da buon carabiniere, ha memorizzato il volto e la figura del ragazzo, è sicuro di conoscerlo perché ricorda di averlo già visto nella chiesa parrocchiale a servire la messa, e quindi, se sarà necessario, saprà come rintracciarlo.

     La busta, una nomale busta da lettera, non reca all’esterno alcuna scritta; il plico è sottile e sembra contenere solo un foglietto piegato forse una volta, non di più. Non è dunque una busta esplosiva, ma il maresciallo è prudente, non la apre subito. Non si sa mai che cosa può esserci e quel recapito così strano un po’ lo insospettisce.

     Esce dall’auto, la richiude e ritorna in caserma.

     Chiama il carabiniere Vandero, che ha fatto un corso specifico per il trattamento di oggetti potenzialmente pericolosi, e gli porge la busta. Vandero va nella stanza-laboratorio, la soppesa, la guarda in controluce, la fa passare in uno scanner e, tranquillizzato dall’esito dei controlli, la apre e ne estrae un piccolo foglio che porta al maresciallo.

     C’è scritto a pennarello, con grafia incerta e italiano approssimativo, il seguente messaggio anonimo:

 

     Il maresciallo di solito non prende in considerazione le lettere anonime, specialmente quando arrivano a raffica in occasione di un evento che stuzzica la fantasia dei grafomani burloni, ma questa lettera non si riferisce a fatti eclatanti né gli risulta qualcosa di anormale, tanto meno di ‘anormalissimo’, a proposito di una casa Pinzoni, che non sa quale sia e dove sia. Neppure si tratta di una denuncia contro qualcuno, ma piuttosto sembra una richiesta di aiuto scritta da un profugo, magari irregolare, cioè un clandestino che, essendo tale, non può ovviamente presentarsi con nome e cognome.

   In quanto carabiniere, Grandasso è esente per dovere e per mentalità da pregiudizi politici e sociali contro i profughi, anzi è particolarmente sensibile alle loro richieste perché essi sono la parte più debole della società, ammesso che li si possa considerare parte della società o non piuttosto: reietti, emarginati, disprezzati, però sfruttati per i peggiori lavori in nero.

     Si domanda: “Ma è veramente lo scritto di un profugo che conosce poco la lingua italiana? O potrebbe essere un messaggio volutamente scritto male da un italiano che cerca di confondere le idee circa l’identità del mittente? E quale sarà questa ‘Casa Pinzoni’? La prima cosa da fare è consultare l’elenco telefonico. Quanti potranno essere i Pinzoni in paese?”

     Sfoglia, cerca, non trova. Riprova più lentamente: Pinzi (ce ne sono diversi), Pinzelli (un paio), Pinzetta (uno solo), poi l’elenco salta a Pinzuti, Pioli, Pione, Piselli, ecc.

     Il maresciallo si dà una manata sulla fronte per significare a se stesso: “Ma che cerchi sull’elenco? Siamo nel 2017, c’è il computer…”

     Chiama il carabiniere Vandero, lo specialista in informatica, e gli ordina:

   “Neh, bòcia! (**) Cercami al computer l’ indirizzo e il numero telefonico di tutte le famiglie Pinzoni che ci sono in paese. Pinzoni si scrive: Pi - I – Enne - Zeta – O – Enne - I.”

     Dopo due minuti Vandero torna con la risposta:

     “Nient, maresiallo, mi no hai trové nient col computer. Ma a’jè trè familie Pinsoni. Pinsoni con la es, mica la zeta. Vardé si ‘nt’l’elench.”

     E mostra la pagina dell’elenco telefonico.

     “Grassie, Vandero. Puoi tornare al tuo lavoro.”  

     Il maresciallo manda mentalmente a quel paese la tecnologia. Poi chiama il carabiniere Olivone, gli spiega la questione, gli dà una fotocopia della lettera e lo incarica di prendere informazioni:

     “Per prima cosa cercami il ragazzo: senti in parrocchia… è uno di quelli che servono la messa, uno di circa dieci anni; mi ricordo che, quando mi ha consegnato la lettera, aveva capelli scuri molto ricci, indossava jeans con una cintura nera punteggiata di dischetti o bottoni cromati, e aveva un felpa grigia con su scritto ‘Amici’, come dalla Maria De Filippis, o qualcosa di simile. Ma non portarlo qui in caserma, si spaventerebbe. Chiedigli tu direttamente chi gli ha dato la lettera; fallo con delicatezza e diplomazia, doti che a te non mancano. Poi senti se in paese o nei dintorni c’è una casa Pinzoni, anzi Pinsoni, dove di recente è morto qualcuno… e tutto quello che puoi sapere.”

     “Comandi marescià! Vaco e ‘o facce subbito..”

     Come si capisce dalla risposta, il carabiniere Olivone è napoletano e della sua Napoli ha conservato lo spirito scanzonato e la simpatia molto comunicativa, doti che lo rendono adatto all’incarico che gli è stato affidato.

     Poi il maresciallo si dedica al suo lavoro di routine: carte e scartoffie, computer e burocrazia,

colloqui con gente che presenta le più strampalate richieste o chiede strani consigli; e poi incontri con autorità e infine un giretto in paese dove la presenza di un carabiniere in divisa è sempre gradita dalle persone per bene.

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(*) “Bùgia nen” è dialetto piemontese che si traduce “non muoverti”, oppure “non si muove”, ma riferito ad un uomo significa “persona calma che non si agita mai”.

     Il maresciallo Eugenio Filiberto Grandasso è un torinese d.o.c. che sta a Civita Romana per servizio. Il lettore che non conosce né il maresciallo né Civita Romana, ma vuole saperne di più, può trovare altre informazioni nel racconto ‘Mondo piccolo a Sovrana’ che è scaricabile all’indirizzo http://www.lacitta.eu/images/stories/pdf/Piccolo-mondo-a-Sovrana-R.pdf

(**) “Neh, bòcia!” significa “Senti, ragazzo!” ed è un modo burbero ma affettuoso con cui i piemontesi si rivolgono a un giovane con il quale sono in rapporto amichevole. Il carabiniere Vandero è cuneese e con lui il maresciallo usa volentieri il dialetto piemontese. Com’è ovvio, Vandero ricambia il dialetto e ai due sembra di stare per un attimo nella loro terra d’origine, con un po’ di nostalgia.

(Continua)

Agostino G. Pasquali

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