Viterbo CRONACA DESERTICA


S   come : Superbia

Ho appreso, vedendo un documentario scientifico in TV, che a Dubai (Emirati arabi) sono stati costruiti ‘superbi grattacieli’ nel deserto.  

Sì, proprio nel deserto, e questa è già una (lo posso dire?) pazzia.

I grattacieli sono convenienti dove manca lo spazio orizzontale per sfruttare in verticale lo scarso spazio disponibile. Nel deserto c’è penuria di tutto, meno che di spazio e di sabbia.

A Dubai lo spazio non manca e di sabbia ce n’è anche troppa. Quel documentario informa che lo strato sabbioso è spesso 40 metri e quindi bisogna fare palificazioni non solo profondissime, ma multiple, dieci volte più numerose di quelle dei grattacieli di  New York.

Quei ‘superbi signori’ del petrolio, del commercio e della finanza, che prosperano a Dubai, non potrebbero fare costruzioni orizzontali, che non solo risultano più economiche, ma soprattutto sono a misura umana?

Evidentemente no! Perché la formula del successo è questa :far di tutto > per apparire> per far credere > di essere.  La formula non è chiara? Certo che non è chiara, non deve essere chiara. E’ un artificio da Mago di Oz.

E neppure la biblica torre di Babele ha insegnato qualcosa alla superbia e alla presunzione di certa gente.

 

U   come : Utopia

Per  utopia s’intende un ideale di perfetta organizzazione della società umana, teorizzato dai filosofi, ma impossibile da realizzare. S’intende anche più genericamente un qualsiasi ideale pensabile, ma irrealizzabile.

Poiché la parola viene dal greco antico, non si dovrebbe dire ‘utopia’ ma ‘eutopia’ (=buon luogo) perché etimologicamente ‘utopia’ significa ‘non luogo’. L’ambiguità è nata nella lingua inglese di Tommaso Moro (in realtà si chiamava Thomas More) che usò per primo quel termine e giocò sulle parole utopia ed eutopia che in inglese si pronunciano allo stesso modo, cioè  ‘ju:toupjə’. Quindi ‘utopia’ significa contemporaneamente ‘luogo buono e luogo inesistente’.

L’utopia dunque non è realizzabile, però può essere un’aspirazione e un’ ispirazione per un  miglioramento possibile della società.

Se c’è un lettore che è arrivato fin qui a leggere, costui si starà chiedendo dove Aggì vuol arrivare con questa chiacchiere da pseudo erudito, impertinente e magari un po’ presuntuoso. E se qualche professore (so che ce ne sono che seguono questo giornale) mi sta leggendo, immagino che abbia già preparato la matita rossa e blu per punire implacabilmente qualche mio errore di citazione. Ecco allora vengo subito al dunque.

Premetto che:

-  la società sta cambiando rapidamente in conseguenza delle nuove tecnologie e il cambiamento è particolarmente evidente nella diminuzione della necessità di lavoro umano, il qual si ridurrà sempre più a pochi lavori di alta specializzazione e a servizi manuali ‘umili’.

-  è illusorio ipotizzare un futuro di piena occupazione, e non solo nei paesi ad alto costo del lavoro come in Europa, ma prima o poi anche in quelli a basso costo come in Cina e in India

-  il lavoro ben pagato sta diventando un’esclusiva di pochi più dotati.

-  da diversi decenni i sociologi parlano provocatoriamente di un futuro in cui “disoccupato è bello” (non chiariscono però che cosa ci possa essere di bello nella disoccupazione).

Allora mi sembra giusto che ci poniamo una domanda:

“Non è forse opportuno fare qualche ipotesi di cambiamento della società per evitare in futuro gravi tensioni sociali conseguenti da una parte all’impoverimento della massa dei senza lavoro, dei precari e dei mal pagati, dall’altra parte all’arricchimento di coloro che, essendo padroni delle tecnologie, sono già i padroni del mondo?”

Comincio a pensare che si debbano limitare fortemente i redditi dei pochissimi “signori dell’economia”,  limitare ragionevolmente i redditi dei pochi che svolgono lavori molto ben pagati e garantire un reddito dignitoso a tutti gli altri.

E’ una utopia? Si, certo. Ma può essere un criterio valido per ispirare un percorso legislativo in direzione di una maggiore giustizia sociale. L’alternativa sarà il conflitto sempre più accentuato tra i tanti poveri e i pochi ricchi e l’inevitabile ricorso a dittature. E questa è l’ipotesi meno grave.

La più grave?  Rivoluzioni e attentati.  Dai rivoluzionari ci si può anche difendere con la repressione, ma non c’è difesa dagli attentati se gli attentatori diventano sempre più numerosi e disperati.

E’ ovvio che quanto ho esposto non è un’illuminazione né un’originalità. Si tratta di idee piuttosto vecchie. Però fino ad oggi sono state sottovalutate. E’ venuta l’ora di ripensarle seriamente.

 

P    come : Primo Maggio

Ed ecco che arriva la Festa del lavoro o Festa dei lavoratori. Però con la penuria di lavoro che c’è, più che una festa si dovrebbe fare uno scongiuro o una novena a San Giuseppe.

In effetti chi festeggia sono soprattutto quegli operatori economici che in occasione di questa e di altre feste “vendono e guadagnano”. Ma quest’anno tira un’aria dimessa che non promette grandi affari. Per chi il lavoro ce l’ha ma teme di perderlo e per chi non ce l’ha ma dispera di trovarlo, la regola è: sobrietà!

Però le cerimonie ufficiali non mancheranno: sentiremo le solite frasi di circostanza sulla nobiltà del lavoro, sulla repubblica fondata sul lavoro, sulla sacrosanta lotta di classe, parole dette spesso da chi non ha mai lavorato né ha alcuna intenzione di farlo, avendo trovato un’ottima alternativa di guadagno.

In un ‘vocabolario impertinente’ di qualche tempo fa avevo citato un detto che circolava nel mio ambiente di lavoro. Lo ripeto: “Chi sa fare fa e chi non sa fare insegna”.

Io l’ho aggiornato così : “Chi sa fare lavora, chi non sa fare dirige. E chi non sa fare e neppure dirigere o non ha voglia di lavorare?  O fa il barbone, o fa il mantenuto, o - e questo è il meglio - fa il politico”.

Aggì