Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto
IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Secondo racconto

Osvaldo, uno come tanti

  1. Al Quercione

     Il risveglio di Osvaldo, dopo il primo pernottamento nel suo casale, mi ha indotto a pensare a ‘I promessi sposi’ capitolo VII, là dove è scritto: “La mattina seguente don Rodrigo si destò don Rodrigo.”

   Però, al contrario di don Rodrigo, “Osvaldo si destò che non era più Osvaldo”. Infatti il cittadino metodico, condizionato da regole e consuetudini che l’avevano reso sicuro di sé e capace di guidare la propria vita, era divenuto ora, fuori dal solito ambiente, del tutto impreparato ad affrontare le difficoltà e a prendere le decisioni che le circostanze gli imponevano.

     A parte una certa residua confusione in testa dovuta al vino bevuto la sera prima, a parte un certo disagio e un buona dose di dubbi, normali in chi si trova spaesato in una situazione del tutto nuova, quello che rendeva Osvaldo un insicuro era dover scegliere ‘che cosa’ fare e soprattutto ‘come’ farlo in una attività sconosciuta e forse troppo affrettatamente scelta.

     Compì rapidamente e in modo molto semplificato le operazioni igieniche del mattino: niente doccia (con quel freddo!), niente rasatura della barba (tanto chi se ne sarebbe accorto?), e quindi si accinse a prepararsi un caffè con la vecchia moka che si era portato dalla città. Sentì, purtroppo per lui, la mancanza di Gina che fino a due giorni prima gli aveva fatto trovare la tazzina pronta al momento del risveglio.

   Mentre aspirava avidamente l’aroma che emanava dal liquido gorgogliante nella caffettiera, tagliò in due una rosetta ormai gommosa e si preparò pane e marmellata ritenendo che quella fosse la colazione tipica del contadino. Cominciò a sbocconcellare e provò difficoltà a deglutire quel pane stantio. Rimpianse, sia pure controvoglia, il cornetto e cappuccino del bar sottocasa.

     Quando la moka ebbe esalato gli ultimi sbuffi di vapore, riempì una tazza grande, di quelle da tè, con il caffè bollente, lo zuccherò abbondantemente e ne bevve un sorso.

   Ebbe un conato di vomito, strabuzzò gli occhi e sputò il liquido che aveva ancora in bocca. Aveva un sapore orribile e, guardando bene, notò che il caffè aveva uno strano colore marrone. Capì che ci aveva messo il sale invece dello zucchero.

     Dopo aver rimpianto il cornetto del bar, rimpianse anche il caffè di Gina. Rimpianto su rimpianto… Così era troppo! Stava ormai per cadere in una disperazione più nera del caffè quando il telefonino si mise a ronzare e suonò la carica militare: “Perè-perè-perèperèpperè”.

     Devo precisare che Osvaldo aveva personalizzato il suo telefonino con le musichette della vita militare (ricordate la sveglia?) perché aveva una malcelata nostalgia di quella vita ordinata e monotonamente sicura che aveva fatto al tempo della leva come ufficiale di complemento. C’è da chiedersi come e perché una persona con una tale indole gregaria avesse deciso di fare l’imprenditore agricolo, che è il contrario della onorevole e disciplinata subordinazione. La spiegazione sta proprio nella sua disponibilità a lasciarsi influenzare dall’autorità: la TV, come ho già raccontato, era stata per lui la maestra che l’aveva plagiato.

     Rispose al telefono e riconobbe la voce di Sandrone:

     “ Senti, Osvà… sto pé strada. Se passo lì da te, me offri ‘n caffè e ce famo du’ chiacchiere?”

     Quella voce amichevole, priva di formalismi, dialettale perfino, gli sembrò quella di un angelo che soccorre un naufrago prossimo ad affogare.

*     *     *

     Pochi minuti dopo Sandrone fermava il suo vecchio pick-up davanti al casale e abbracciava Osvaldo come si fa con un vecchio amico.

     “Ho pensato de vedè come te va la vita e se c’hai bisogno de qualche cosa…”

     “Altroché, se ho bisogno. Non so proprio da dove cominciare.”

     Non starò a riferire la conversazione che ne seguì, tutta dedicata all’agricoltura, strettamente tecnica e quindi poco comprensibile e molto noiosa per chi non si occupa di quell’attività. Devo però riassumere almeno i punti più importanti:

- al momento non c’era da fare nessun lavoro per il grano. Quello sarebbe andato avanti da sé fino alla mietitura,

- gli alberi da frutta e la vigna erano stati già potati, ma quell’operazione era da fare per gli olivi,

- l’orto, se Osvaldo lo voleva mantenere, doveva essere preparato e concimato.

     Sandrone concluse così:

     “ Vedi, Osvà? Io nun ce so’ sta con le mani in mano. A casa m’annoio e finisce che litigo co la mi moje che me dice che je rompo li... Vabbè, hai capito… Ma se, a te, te fa piacere, t’aiuto almeno per i primi tempi. Così io te ‘mparo e me spasso. Sinnò fenisce che li fiji me vonno in carrozzeria e a me de lavorà al chiuso proprio nun me va.”

     Dopo la teoria venne la pratica, lavorarono insieme fino alle due del pomeriggio, poi fecero uno spuntino, quindi Sandrone propose:

     “Che dici se annamo al ‘Quercione’ a trovà ‘li sardegnoli’? che stanno a un par de chilometri da qui e c’hanno un poderone che è un latifonno. C’hanno pure l’animali. Essi so’ una tribbù, e so’ brave persone. Li devi conosce, anche perché te ponno esse utili. C’hanno le macchine e fanno li lavori grossi pure per conto terzi. Tu c’hai un podere piccolo e nun te poi permette d’avé tutte le macchine che servono; forse un trattoretto te farà commodo, ma certo nun te poi comprà una mietitrebbia e una pala meccanica. Pure io facevo già così, cioè me facevo fa da lòro li lavori grossi…”

     “Perché no? Andiamo a conoscerli.” Disse Osvaldo che si sentiva stanchissimo e, oltre al piacere di fare delle conoscenze utili, trovava molto comodo un po’ di riposo.

                                                                       *     *     *

     Il podere “Al Quercione” si presentò a Osvaldo, che lo vedeva per la prima volta, come una fattoria del primo novecento, un complesso agricolo simile a quelli che la TV gli aveva mostrato tante volte come esemplari di impresa agricola tradizionale e allo stesso tempo modernizzata: un vasto terreno, coltivato in gran parte a cereali, con una notevole costruzione al centro, alla quale si arrivava attraverso una strada sterrata che tagliava i campi.

     L’ultimo tratta della strada, circa duecento metri, era fiancheggiato da cipressi che indirizzavano lo sguardo e il procedere dell’auto verso un piazzale delimitato da una grossa costruzione articolata in tre branche, un rettangolo privo di un lato.

     La parte in fondo rivelava la destinazione ad abitazione per la presenza di quattro portoncini e numerose finestre che lasciavano intravedere qua e là qualche tendina, ed era caratterizzata proprio al centro da un’ampia apertura a tunnel che metteva in comunicazione il piazzale con la campagna retrostante.

     La branca destra era adibita a stalla, come si capiva subito da certe folate di odore stallatico e dai muggiti che si udivano di tanto in tanto.

     La branca sinistra era più che altro una tettoia, sotto la quale erano ricoverate macchine d’ogni genere, e perciò si presentava come un campionario di tecnologia modernissima dominato da una grande mietitrebbia, ma pareva anche un museo di vecchie attrezzature tra le quali spiccava un vecchio calesse a ruote alte, di quelli che usavano i signori di una volta.

     Durante il breve viaggio Sandrone aveva dato a Osvaldo alcune informazioni:

     - il nome ‘Al Quercione’ derivava al podere, e quindi al casalone, da un grande leccio (quercus ilex) che stava proprio al centro del piazzale di cui ho detto,

     - l’azienda era gestita dalla famiglia Nieddu; Il cognome rivelava subito l’origine sarda; ma più che una famiglia era una piccola tribù perché l’insieme di coloro che abitavano là era costituito da persone imparentate tra loro. La prima famiglia Nieddu era arrivata dalla Sardegna all’inizio del secolo scorso per allevare pecore in regime di contratto di mezzadria (*),

     - una trentina di anni prima, forse di più, Sandrone non ricordava bene l’anno, i Nieddu approfittarono di una legge (**) e divennero coltivatori diretti con affitto del terreno,

     - divenuti affittuari e non essendo più vincolati all’allevamento ovino, avevano trasformato parte dei terreni da pascolo in campi coltivati a cereali, avevano ridotto il gregge e allevato anche le mucche,

     - Sandrone prevedeva che presto sarebbero diventati padroni perché il canone di affitto non era conveniente per il vecchio proprietario, il quale aveva altri interessi e, si diceva, aveva sbagliato certi investimenti nella finanza e quindi aveva urgente bisogno di denaro.

     Parcheggiarono sotto il leccio. Era un imponente albero alto almeno dieci metri e largo altrettanto, molto ben tenuto, senza un ramo secco o disordinato. Il piazzale si presentava pulito e pure la costruzione rivelava una attenta e sistematica manutenzione degli intonaci e della verniciatura bianca e immacolata.

     L’insieme, pur essendo tutt’altro che elegante, era curato ed efficiente come una caserma. Anche il piazzale, silenzioso e deserto, ricordava quello di una caserma quando i militari sono impegnati al chiuso o in esercitazioni lontane.

   C’erano pure due bandiere leggermente mosse dal vento: il tricolore italiano e la bandiera sarda, quella bianca divisa in quattro da una croce rossa, con i mori nei quattro campi.

     L’ambiente piacque a Osvaldo e gli fece venire un groppo in gola per un’improvvisa commozione. Era proprio quello il mondo che aveva sognato: un mondo pulito, ordinato e naturale.

Agostino G. Pasquali

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(*) Sandrone ha detto mezzadria, ma doveva più esattamente parlare di soccida, trattandosi di allevamento del bestiame.

(**) Era l’anno 1982, quando la legge 3.5.1982 n. 203 dispose che i contratti agricoli associativi (mezzadria, colonìa parziaria, compartecipazione, soccida) potevano essere convertiti in contratti di affitto.

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