Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto
IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Secondo racconto
IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Terzo racconto

Osvaldo, uno come tanti

  1. I buoni vicini – Una famiglia patriarcale

     Gavino Nieddu stava semisdraiato in una poltrona con lo schienale reclinato per favorire il rilassamento e la riflessione e per dare sollievo alla gamba destra, ingessata e poggiata su un pouf.

Gli occhi socchiusi quasi in dormiveglia. Gli occhiali sollevati sulla fronte e inutili per la lettura che evidentemente era stata da poco interrotta: infatti un libro, ‘Homo consumens’ di Zygmunt Bauman, era aperto e appoggiato a tegola sul bracciolo sinistro. La mente divagava su quanto aveva letto. Si stava chiedendo:

     “Ma ‘sto Bauman, ‘sto sociologo così incensato da tutti quelli che si atteggiano a intellettuali, alla fine che ha scoperto? Ha scoperto che la società è liquida? Società liquida! Ma che bella etichetta paracula! E ci viene a dire che questa ‘liquidità’ ci fa vivere nell’incertezza? Ma non l’aveva già detto Eraclito duemilacinquecento anni fa? E’ vero che oggi ci sono la globalizzazione e il consumismo, ma è lapalissiano che ‘sta ‘liquidità’ non è altro che un moderno ‘fiume eracliteo’.

     La società non è stata mai rigida, nemmeno con i regimi dittatoriali; forse una volta i cambiamenti erano più lenti, ma c’erano. E poi, da che mondo è mondo, i poveri hanno sempre cercato di diventare ricchi e i ricchi lì a resistere contro.

     Bauman dice che il consumismo è asociale? che la morale è individuale e irrazionale? che il rapporto tra individuo e società è conflittuale? che l’organizzazione sociale, stati e partiti, conta ormai poco? Embè? Tutto questo si sapeva già. E il consumismo ‘usa e getta’, il ‘vivi alla giornata’ non è forse l’equivalente aggiornato dell’oraziano ‘Carpe diem’?

     Ma questi sociologi quanto sono chiacchieroni! Pagine e pagine con osservazioni talvolta semplicistiche talaltra criptiche per raccontare verità che tutti sanno… magari non sanno di saperle, però…”

     Queste elucubrazioni vennero interrotte dal rumore dell’auto che Sandrone stava parcheggiando nel piazzale.

     Gavino riaprì gli occhi, mise al posto giusto gli occhiali e si alzò con fatica. Appoggiò a terra con delicatezza la gamba ingessata, poi camminò cautamente con l’aiuto di un bastone, si avvicinò alla finestra, guardò fuori e riconobbe Sandrone che era in compagnia di un uomo a lui sconosciuto. Aprì la finestra. Sandrone se ne accorse, fece un cenno con la mano e salutò:

     “Bon pomeriggio, Gavino. Come stai? Siamo venuti, io e il mio amico Osvaldo, a farti una visita. Ti disturbiamo?”

     “Grazie e buon pomeriggio pure a voi… Come sto? Come un coglione: c’ho un ginocchio scassato… Salite. La porta è aperta e la strada la sai. Non posso scendere per via di questo ginocchio… poi ti dico.”

     Salirono due brevi rampe di scale, attraversarono un piccolo atrio, aprirono un’altra porta e si trovarono nella saletta dove Gavino li aspettava, nuovamente seduto nella poltrona della quale aveva però raddrizzato lo schienale.

     “Caro Gavino ti presento il dottor Osvaldo Novotti, quello che ha comprato il mio podere. Te ne ho già parlato…” disse Sandrone, e completò la presentazione rivolgendosi a Osvaldo: “Questo è il dottor Gavino Nieddu, il capo della tribù che abita qui.”

     Osvaldo notò che Sandrone, pur usando il ‘tu’, in quell’occasione si era impegnato a parlare in italiano corretto, segno del rispetto che usava nel trattare con quell’amico che doveva essere importante.

     “Ooh! niente dottori, Sandro. Qui non siamo in ospedale, anzi non me lo ricordare l’ospedale. Ci sono stato la settimana scorsa, solo per un paio di giorni, ma è stato pure troppo.”

   “ Ma che t’è successo?”

   “ Vedi Sandro? Come t’ho detto prima, sono un coglione perché mi illudo d’essere giovane. Mi sono scordato che c’ho la tua età, settanta anni, e pure di più, e sono andato a sciare come se fossi un giovanotto. Ecco la conseguenza… E tu, Osvaldo? Ho capito bene il nome? Osvaldo… Tu scii?”

   “No, dottore, mai provato, però gioco a calcetto e qualche incidente l’ho avuto pure io… Gli sport di movimento sono tutti più o meno pericolosi… ”

   “E noo! Ho detto niente dottori qui. Lo so che sei laureato, Sandro me lo aveva detto, ma te lo puoi scordare che ti do il titolo, e tu non lo dare a me. E diamoci del ‘tu’, subito.”

                                                                           *    *     *

     A questo punto è opportuno che io dia qualche chiarimento sulla presenza in quel luogo del dottor Gavino Nieddu, un signore che apparirebbe del tutto fuori posto se non fosse per il cognome. Osvaldo ci metterà un po’ di tempo per conoscere la sua storia, ma io la riassumo per comodità del lettore.

     Nell’anno 1936 Giovanni Nieddu, ventiduenne volonteroso e un po’ avventuroso, si trasferì dalla Sardegna nel Lazio portando con sé la famiglia, che in quel momento era composta dalla moglie Grazia e dal figlio Bachisio, per svolgervi l’attività di pastore.

     Nel secolo scorso questo genere di spostamento dall’isola al continente è stato quasi una migrazione che ha consentito alle regioni dell’Italia centrale di mantenere e sviluppare l’allevamento ovino che altrimenti sarebbe scomparso per la crescente disaffezione della popolazione locale, contagiata dalla indolenza romana, e perciò incline a fare lavori meno impegnativi.

     Giovanni Nieddu divenne soccidario del conte Landolfoni che gli assegnò il terreno del ‘Quercione’ dove c’erano già la grande casa colonica e gli stazzi per gli animali. L’attività prosperò e prosperò pure la famiglia con la nascita di due femmine e altri due maschi. Gavino, nato nell’anno 1944, fu l’ultimo figlio di Giovanni. Il bimbo dimostrò subito una notevole intelligenza e il padre pensò che poteva dargli un avvenire migliore di quello di allevatore di pecore, e lo mantenne agli studi. Il giovane rispose in pieno alle speranze della famiglia e si laureò in economia e commercio nell’anno 1966. Si era ancora nel boom economico, così il giovane trovò facilmente lavoro in banca e vi fece carriera fino a diventare direttore di filiale. Non dimenticò però mai la famiglia d’origine che seguì sempre curandone la parte amministrativa.

     Già mentre Giovanni, il patriarca, era ancora in vita, Gavino, che pure era il più giovane dei figli, interveniva sempre quando c’era un’importante decisione da prendere in materia di organizzazione e sviluppo dell’azienda, e di solito aveva l’ultima parola, quella decisiva. Divenne quindi progressivamente la mente della famiglia. Con la sua guida vennero diversificate le attività affiancando agli ovini l’allevamento bovino e iniziando la coltivazione dei cereali.

     Per completezza d’informazione devo precisare che Gavino aveva sposato la figlia di un alto dirigente della banca, il quale aveva pilotato il matrimonio per sistemare una figlia viziata e ingombrante in famiglia. Ciò aveva favorito la carriera di Gavino, ma l’unione non era stata felice. La signora, nata e vissuta a Milano, era una cittadina molto esigente e piena di prosopopea, per cui non aveva mai accettato la famiglia d’origine del marito e aveva mal sopportato che lui ne fosse rimasto partecipe. Non avevano avuto figli e, dopo una decina di anni di matrimonio insoddisfacente per entrambi, si separarono senza problemi né risentimenti, quindi divorziarono. Nel 2009 Gavino andò in pensione, un’ottima pensione, e tornò in azienda a tempo pieno. I due fratelli erano morti e lui divenne a tutti gli effetti il capo di una famiglia numerosa e operosa composta dalle sorelle, da due cognati, da due cognate e da uno stuoli di nipoti e pronipoti che non starò a descrivere in dettaglio, ma alcuni li incontreremo in seguito.

     Non si pensi che fosse tutto tranquillo e pacifico. Come in ogni comunità c’erano invidie e rivalità, ma la saggezza e l’autorità di Gavino riuscivano a risolvere ogni contrasto nel miglior modo possibile.

                                                                            *     *     *

     I tre conversarono allegramente come vecchi amici. Osvaldo chiese informazioni sull’azienda Nieddu-Il Quercione e seppe che era un piccolo mondo quasi autosufficiente, una specie di ‘corte’ medioevale però tecnologica e inserita molto bene nei mercati della zona. Dell’economia curtense aveva la varietà della produzione agroalimentare (ortaggi, frutta, cereali, vino e olio) e l’importanza dell’allevamento del bestiame (ovini, bovini, animali da cortile). Dell’economia moderna aveva la vocazione per la produzione intensiva, meccanizzata, di grandi quantità, per cui la maggior parte dei prodotti era destinata alla vendita. Inoltre, per completare l’autonomia, ogni componente del gruppo aveva una sua specializzazione nella produzione e nei servizi. Gavino concluse la spiegazione dicendo a Osvaldo:

     “Se ti serve un esperto di meccanica, elettricità, idraulica, edilizia, oltre che ovviamente di agricoltura e allevamento, chiedi pure a noi. Siamo sempre disponibili a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno, pure festivo, pure a Natale e Pasqua. Qui niente sindacati, né orari, né contratti di lavoro. Il nostro motto è: ‘Si lavora quando si deve, si fa festa quando si può.’ E ti assicuro che facciamo festa di più e meglio dei cittadini schiavi del calendario, dell’orologio e delle feste comandate.”

     Chiacchierarono a lungo. Si accorsero del tempo che era trascorso solo quando notarono che il piazzale cominciava ad animarsi per il rientro dei lavoratori, chi dai campi, chi dai magazzini, chi dalle stalle.

     All’improvviso si sentì un bussare discreto alla porta, che si aprì subito senza che il visitatore aspettasse l’avanti, e sulla soglia della stanza apparve una giovane donna: un bel viso intelligente, senza trucco, capelli nerissimi e forti legati a coda di cavallo, vestita con un giaccone cavallino su pantaloni di taglio maschile, cioè non attillati, e scarpe da footing. Entrò in modo irruento salutando:

     “Ciao nonno, ti ho portato la spesa. Te la metto di là in cucina? Oh, ciao Sandro…”

     La giovane notò anche la presenza di un estraneo e chiese disinvoltamente:

     “E chi è questo bel giovane? Lo conosco?”

     “È un nostro nuovo vicino che ha comprato il podere di Sandro. Si chiama Osvaldo…” rispose Gavino, e poi rivolto a Osvaldo:

     “Lei è una mia pronipote perché è figlia di un figlio di mio fratello Bachisio, buon’anima. Lei mi chiama ‘nonno’ per scherzo perché è una burlona. Qui in famiglia la consideriamo una specie di Gianburrasca per i suoi modi da maschiaccio… come puoi vedere… Deve calmarsi un po’ e mettere la testa a posto… voglio dire che deve controllare i suoi modi da ragazzaccio, ma è una brava nipote e mi vuole bene. Adesso che sono piuttosto invalido mi dà un aiuto in tutto quello che mi serve. Ah! Prima, quando ti ho elencato gli esperti dell’azienda, ho dimenticato il veterinario. È lei il nostro veterinario… cura gli animali e, se serve, pure le persone. Non l’ha già detto pure Darwin che in fondo siamo animali pure noi umani? Dunque può curarci un veterinario, e allora a lei puoi dare il titolo di dottore… e chiamarla se stai male. Il suo nome è Teresa, però io la chiamo Terry, la Terribile… si capisce il motivo?”

     Terry fece una leggera smorfia strizzando il naso e mostrando la punta della lingua in risposta a ‘nonno Gavino’: era una smorfietta di protesta che sapeva di compiacimento. Poi strizzò l’occhio a Osvaldo.

     Sandrone intervenne:

     “È vero che lei sa curare pure li cristiani. Una volta avevo un dolore sciatico e lei mi dette un unguento miracoloso. Disse: “Metti que’, è una cura da cavallo!” E ‘l dolore passò.”    

     Gavino rise e disse alla nipote:

     “Bene, Terry. Ora fammi il favore di scendere in cantina… io, con ‘sta gamba ingessata… e porta su una bottiglia di ‘Filu ‘e ferru’, di quello speciale ‘riserva per noi’. Grazie Terry.”

     In attesa che la ragazza tornasse, Gavino chiese:

     “Osvaldo, conosci il ‘Filu ‘e ferru’? L’hai mai assaggiato?”

     “No, però l’ho sentito nominare. È un liquore… mi pare.”

     “Può essere un distillato di vino e allora è acquavite, oppure è un distillato di vinaccia e allora è una grappa, ma in ogni caso molto forte, ben oltre i classici 40°.”

     “Ma il nome? Vuol dire ‘filo di ferro’? Si chiama così perché è molto forte?”

     “No, non per questo motivo. Ora ti spiego. Devi sapere che un tempo, in Sardegna, i produttori abusivi, cioè praticamente tutti quelli che producevano vino, distillavano anche l’alcol ma fuori legge, e nascondevano le bottiglie interrandole con un filo di ferro legato al collo. Il filo era lasciato appena un po’ sporgente dal terreno, nascosto in mezzo all’erba, e così le bottiglie sfuggivano ai controlli della Finanza e dei Carabinieri, ma erano ritrovabili facilmente quando servivano. Ora noi qui distilliamo con regolare licenza UTIF, la distillazione è un’altra attività aziendale, e non interriamo più con il ‘filu ‘e ferru’, ma il nome è rimasto e la nostra acquavite, invecchiata come si deve in barrique, diventa un ottimo brandy, meglio del cognac… sentirai.”

     Terry tornò con un vassoio su cui c’erano: quattro bicchieri comuni e quattro da brandy, una bottiglia di liquore, una di acqua, e un vassoio di biscotti.

     Tra una chiacchiera e l’altra i biscotti finirono e il livello del liquore si abbassò sensibilmente nella bottiglia. Solo Terry bevve soprattutto acqua, ma partecipò lo stesso al progressivo aumento dell’allegria generale.

     Passò così altro tempo e il cielo cominciò a prendere una colorazione calda, prima dorata poi fiammeggiante nelle nuvole serali all’orizzonte.

     Era l’ora di tornare alla propria casa. I quattro si salutarono. Tre di loro avevano gli occhi brillanti e un po’ rimpiccioliti, uno in particolare appariva anche piuttosto confusetto, e si può facilmente immaginare chi era.

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