Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Osvaldo, uno come tanti. Primo racconto - Secondo racconto -Terzo racconto - Quarto racconto

Osvaldo, uno come tanti

5. Uomini, donne  e altri animali

     Durante il breve viaggio in auto dal Quercione al casale, Osvaldo se ne era rimasto accucciato sul sedile un po' reclinato; era in uno stato di piacevole torpore, gli occhi socchiusi e la mente persa dietro qualche sogno o semplicemente svaporata; Sandrone aveva rispettato quel rilassamento guidando senza parlare e cercando di evitare, per quanto possibile, le irregolarità della strada che avrebbero fatto sobbalzare l'auto e disturbato lo stato di  'trance' dell'amico.

Arrivarono al casale che era quasi buio.
     Davanti al casale era parcheggiata una piccola auto. Osvaldo, risvegliato per la cessazione del movimento che prima gli aveva fatto da sonnifero, aprì gli occhi e riconobbe la Smart di Gina. Scese dall'auto e altrettanto fece Gina. Si corsero incontro e si abbracciarono per un attimo, ma lei si liberò subito, aggrottò la fronte e prese un'aria disgustata.
     “Mi hai piccata. Hai la barba lunga… e puzzi di alcol.”
     “Oh, sì. È vero. Stamattina non ho avuto tempo…” disse Osvaldo con la voce un po' impastata e un sorriso sciocco e artificioso.
     “Ma per andare in giro con 'quello lì', il tempo lo hai trovato!”
     Intanto Sandrone aveva aperto lo sportello per scendere, ma si era fermato con un piede dentro e uno fuori, aspettando per non disturbare l'incontro che all'inizio gli era sembrato affettuoso.
     Quando sentì dire da Gina 'quello lì', che era lui, con un tono tutt'altro che amichevole, capì che era meglio che se ne andasse via.
     “Ciao Osvaldo. Ti telefono domani…”
    Mise in moto, girò l'auto e ripartì sgommando e lanciando uno spruzzo di terra umida che investì Gina sporcandole il vestito e le scarpe. Lei cercò con la mano di pulire i pantaloni di lana beige, ma peggiorò la situazione perché la terra si attaccò al tessuto.
     Com'è noto, la maggior parte delle donne è ossessionata dalle macchie, direi in modo maniacale. Gina non faceva eccezione e s'infuriò:
     “Guarda che cosa hai fatto!” gridò.
     “Chi, io?” rispose Osvaldo che, un po' incosciente per via dell'alcol bevuto, continuava a sorridere perché gli sembrava che la situazione fosse buffa.
     “Sì, tu e il tuo amico. Bell'amico! Due incoscienti… sudici… puzzolenti… mi fate schifo.”
     Dopo questo sfogo Gina cominciò a singhiozzare e a parlare a scatti:
    “E io che… ero venuta con amore… avevo… portato la cena… per una cena romantica… e ti ho aspettato per un'ora… e ti telefonavo… ma quella… la voce al telefonino… diceva sempre… “Il cliente chiamato non è al momento raggiungibile”… e io mi preoccupavo che un incidente…”
     “Ah, sì è vero, mi si era scaricata la batteria e il telefonino si era spento, ma non sapevo che tu eri qui…” si scusò Osvaldo continuando a sorridere da ebete, anzi perfino ridacchiando. Non capiva perché, ma la situazione gli pareva sempre più buffa, come succede spesso agli ubriachi quando vengono rimproverati.
     Gina si sentì offesa, cercò di controllarsi, smise di singhiozzare, ma diventò di nuovo aggressiva.
     “Ecco, è successo quello che temevo! In due giorni, qui, sei diventato un contadinaccio, un animale. Non ti curi, non ti fai la barba… e ti ubriachi pure! Anzi sei peggio degli animali. Quelli almeno non si ubriacano! Basta, me ne vado!”
     Non aspettò la replica di Osvaldo, aprì lo sportello della Smart, ne estrasse due scatole di polistirolo, di quelle che si usano per conservare il caldo o il freddo, e le buttò a terra. Poi risalì in macchina, mise in moto e partì. Ma partì delicatamente, senza sgommare, perché lei aveva cura della sua auto, non la sporcava mica come quel sudicione del Sandrone, che aveva un pick-up che sembrava appena uscito da un rally nel fango.

     Osvaldo rimase a guardare l'auto che si allontanava e solo allora cominciò a riprendere il controllo di se stesso e a rendersi conto di essersi comportato male. Ormai però il guaio era fatto e notò con sua sorpresa che tuttavia non si sentiva dispiaciuto. Raccattò i pacchi ed entrò in casa.
    Dato che cominciava a sentire freddo, accese il fuoco.
    Seduto davanti al tavolo, con il tepore del camino che gli scaldava la schiena, si sentì fisicamente meglio. Aprì incuriosito le due scatole: in una c'era una teglia di lasagne al forno che erano ancora abbastanza calde, nell'altra un semifreddo e una bottiglia di spumante. Non aveva appetito perché i biscotti di Gavino glielo avevano già soddisfatto, ma l'aspetto delle lasagne era molto invitante per gli occhi e l'odore del ragù solleticava le papille gustative. Aprì lo spumante, ne bevve un bicchiere e sentì che lo stomaco si disponeva a ricevere volentieri quelle delizie.
     “Tiè, Gina. Alla tua salute!” Brindò con l'improntitudine tipica degli uomini troppo sicuri dell'amore e della fedeltà della loro donna. “Gina cara, ti passerà, ti passerà…”
      Bevve ancora un po' di spumante e cominciò a mangiare;  ma intanto, lentamente, la sua coscienza si risvegliò e considerò la premurosa gentilezza con cui Gina aveva predisposto quell'incontro. Era pur vero che non aveva preavvisato per fargli una sorpresa ma, come avviene spesso, il caso aveva rovinato la sua buona intenzione. Ammise tuttavia di essersi comportato male, anche per colpa dell'alcol: era stato sciocco e ingrato. Come aveva detto Gina? Aveva detto: “Sei diventato un animale!”… e aveva ragione.
     Si sentì indegno come …'un verme'. Così si dice comunemente, ma con poco senso logico e biologico.  Può un essere umano, per quanto indegno, essere paragonato a un verme? E poi chi l'ha detto che i vermi sono indegni?
     Provò nausea di se stesso, smise di mangiare, attizzò bene il fuoco e se ne andò a dormire lasciando aperta la porta di comunicazione che c'era tra la cucina e la camera, in modo che il calore del camino si diffondesse anche nella stanza da letto. Si spogliò rapidamente e si addormentò quasi subito d'un sonno profondo, senza sogni.

     All'improvviso fu svegliato da un fracasso di vetri che si infrangevano. Accese la luce in camera e attraverso la porta rimasta aperta gli sembrò di vedere nella penombra della cucina un animale, un ratto, che lo guardava stando sul tavolo come in agguato. Un attimo… e il ratto non c'era più. L'aveva sognato? Aveva sognato anche  il fracasso che lo aveva svegliato?
     Si stropicciò gli occhi, guardò la sveglia: erano le due di notte. Si alzò con il cuore che batteva con violenza come se protestasse per l'improvviso risveglio. La stanza era gelida perché Il fuoco si era quasi spento. Rabbrividendo cercò il giaccone imbottito e se lo mise. Andò in cucina e vide il disastro: la vaschetta delle lasagne, che aveva lasciato quasi piena, era rovesciata e il contenuto sparso sul tavolo; accanto alla vaschetta spiccavano grumi neri simili a  granelli allungati di liquirizia, ma non era certo liquirizia. Sterco di topo? La bottiglia non c'era più; guardò bene e vide che i cocci stavano sul pavimento sparsi  in disordine in una pozza di spumante che frizzava ancora e schiumava come succede quando è appena versato.     
                                                                          *     *     *
     Il mattino seguente Osvaldo si svegliò tardi. Si sentiva stanco e disturbato nel fisico e nello spirito. Aveva diversi motivi per essere in quel cattivo stato: non aveva dormito bene, risentiva ancora le conseguenze dell'abuso di alcol, ricordava lo scontro spiacevole con Gina e, soprattutto, aveva una preoccupazione nuova: il ratto. O i ratti? Ne aveva visto uno, ma sospettava che potessero essercene altri.
     Telefonò subito a Sandrone e gli chiese aiuto.
     Poi si vestì, ma non si preoccupò di radersi nemmeno quel giorno. Pensò: “Gina mi deve accettare così. Del resto gli uomini barbuti oggi sono di moda. Della moda a me non frega niente, ma è molto comodo dare una regolata alla barba solo una volta alla settimana. Cos'è questa mania di radersi tutte le mattine?”
      Rinunciò a fare colazione perché aveva ancora nausea. Però pulì la cucina e la rimise in ordine, e questo gli dette un certo sollievo; quindi scese nell'oliveto per completare la potatura che aveva già iniziato il giorno prima.
     Verso mezzogiorno arrivò Sandrone che s'informò dell'accaduto. Ascoltò il racconto annuendo pensieroso. Poi mise le mani a megafono e chiamò a voce alta:
     “Roscio… Roosciooo… dove stai? Corri, vié qua!”
     Dopo alcuni secondi si presentò un grosso gatto dal pelo rossiccio che guardò Osvaldo con una certa diffidenza e si fermò a qualche metro di distanza dai due. Sandrone si accosciò e protese la mano destra verso il gatto che allora si avvicinò e si lasciò accarezzare tenendo la coda ben dritta, segno di evidente soddisfazione.
     “Osvà, carezzalo pure tu, così pija confidenza. Roscio, esso si chiama così pel colore, sarà la tu' protezione contro sorci e serpenti…”
     “Serpeenti?” domandò Osvaldo inorridito.
     “Mbè, che te credi? In campagna ce so' serpenti, ma so' saettoni, che nun so' pericolosi, anzi so' utili perché magnano li sorci. Magari c'è pure qualche vipera, però mai vicino a le case. Devi sapé che Roscio è il gatto del casale. Quando abbitavo qui, di giorno stava in giro e di notte dormiva in casa, e così non c'erano sorci né piccoli né grossi, e manco serpi e lucertole. Bastava la su presenza a tenelli lontani. Poi, quando noi ce siamo trasferiti in paese, esso è restato qui in giro, fuori; ma quanno che venivo a lavorà, cioè quasi tutti li giorni, je portavo qualche bocconcino. Bastava chiamà: “Roscioo!” e lui sentiva e veniva. Come  oggi, hai visto?  Adesso tu pijace confidenza, daje qualche cosa de bono e pe' la notte tenilo dentro casa.”

     Osvaldo lavorò fino a sera, aiutato e assistito da Sandrone che gli faceva da maestro.
     Poi Sandrone tornò a casa sua e Osvaldo divise la cena col Roscio che la gradì, ed evidentemente fu ben contento di tornare a passare la notte al riparo. Dopo la cena il gatto si accoccolò vicino al fuoco e cominciò a ronfare soddisfatto. Quando Osvaldo andò a dormire, il Roscio saltò sul letto e vi si acciambellò  sistemandosi accostato al rialzo delle coperte dove c'erano i piedi di Osvaldo. Che si sentì meno solo e si addormentò tranquillo.

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