Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali
Premessa
Il brano che ho riportato in fotocopia è l’inizio di un racconto manoscritto con la penna stilografica su un quaderno a righe, uno di quei quaderni con la copertina nera lucida e l’orario delle lezioni in prima pagina, seri e senza fronzoli come si usavano una volta.
Venne scritto nell’autunno 1988 da un maresciallo dei carabinieri in pensione, il quale, arrivato all’età di 88 anni, sentì l’esigenza di fissare su carta una serie di ricordi della sua vita, molto lunga attiva e avventurosa.
Il quaderno mi fu consegnato nel 1989 dalla moglie dopo la morte dell’autore e su suo specifico mandato. Lo lessi e lo trovai interessante e pure commovente. Ma sul momento, non sapendo che farne, lo riposi tra le cose da conservare come caro ricordo di un parente al quale ero stato affezionato, ma anche per il consueto scrupolo di chi ha la mania di conservare tutto: “Hai visto mai che in futuro mi possa essere utile?”
L’ho riletto qualche giorno fa in un momento di nostalgia per il passato.
Era uno di quei momenti in cui il presente mi sconforta nonostante che, girando nei centri commerciali che sono lo specchio della società, il mondo mi si mostri imbellettato e godereccio. Ma è apparenza: il nostro mondo attuale è fiacco, decadente e senza speranza. Ecco! Quello che manca all’oggi è proprio l’ottimismo della speranza.
Mi è sembrata dunque una buona cosa recuperare le ‘memorie’ del maresciallo e farle conoscere, farne l’oggetto di un racconto. Perché no? Quei fatti parlano di un tempo difficile molto diverso da quello attuale. Era un tempo di guerre e carestie, di sofferenze lutti e lacrime, ma allora vi germogliava sempre e comunque il seme della speranza.
Mi si è posto subito un dilemma: trascrivere fedelmente? o selezionare e magari rielaborare qualche parte?
Dopo qualche incertezza ho ritenuto inopportuno copiare semplicemente il testo, che pure è scritto in un buon italiano con quella certa eleganza ‘naïve’ tipica di chi scrive con il cuore ma senza la pretesa di essere un letterato. Però i ricordi che vi sono esposti sono frammentari e non sempre rispettano la cronologia perché sono stati scritti in più riprese, spesso con ripensamenti. Ci sono descrizioni troppo minuziose, inutili in alcuni casi, mentre in altri casi gli avvenimenti sono oscuri per salti temporali, per vuoti e sottintesi, che erano ovvietà per l’autore, ma nient’affatto immaginabili da un lettore generico, specialmente se giovane e poco informato sugli avvenimenti del secolo scorso. Riportando il testo così com’è, la lettura potrebbe risultare disorientante e faticosa. Ultima considerazione: qua e là ci sono notizie troppo personali che devo omettere perché ritengo che l’autore non intendesse renderle pubbliche.
Pertanto, accantonata l’dea di fare una trascrizione integrale, ho selezionato un episodio che riguarda l’anno 1943, perché quell’episodio mi è sembrato particolarmente significativo. Inoltre ho deciso di rielaborarlo a modo mio, omettendo il superfluo e colmando i vuoti con l’inserzione di particolari suggeriti dalla mia fantasia, immaginati dunque, ma altamente probabili. E se ho anche arricchito la storia con qualche invenzione, però verosimile, assicuro che i fatti principali, soprattutto quelli legati al periodo storico, sono riportati sostanzialmente come stanno nel manoscritto. Che questi fatti siano veramente accaduti lo garantisce chi li ha vissuti e li ha scritti nell’originale. Persona degna di fede? Altroché: era un maresciallo dei carabinieri!
Non credo che l’autore, se dall’al di là mi vede, si possa dispiacere per il taglio e per qualche manomissione. Infatti ritengo che proprio lui, che mi conosceva bene e apprezzava la mia inclinazione a scrivere storie, mi abbia fatto avere il quaderno con l’intenzione specifica di fornirmi qualche spunto per i miei racconti.
Per ragioni di riservatezza non ho indicato il nome dell’autore e ho cambiato gli altri nomi. E ora comincio il racconto lasciandolo in prima persona com’è nell’originale.
Viterbo, 19 novembre 2017
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Settembre 1943
Cullato dal ritmico “tu-tun - tu-tun - tu-tun” delle ruote del treno in corsa, riposavo tranquillo o, diciamo meglio, tranquillamente rassegnato, dopo gli avvenimenti febbrili e drammatici dei giorni precedenti.
Il treno era carico di militari italiani, soprattutto carabinieri, fatti prigionieri dai tedeschi in Grecia subito dopo l’8 settembre 1943, e stava correndo verso nord per destinazione ignota ma prevedibile: un campo di concentramento in Germania.
Il convoglio era così composto: in testa, dopo la locomotiva e il tender, un buon vagone di prima classe ospitava il comando tedesco e i prigionieri italiani con il grado di ufficiali; in coda un altro vagone, ma di classe economica, ospitava invece i soldati della Wermacht che formavano la scorta; in mezzo nove carri-merci, alcuni attrezzati alla buona con panche, altri senza alcuna attrezzatura sul duro pavimento di tavole, erano pieni di prigionieri.
Nel quinto carro quarantadue uomini: carabinieri semplici, alcuni appuntati, tre brigadieri e un maresciallo, io che ero il più alto in grado. Dopo la cattura a Missolungi eravamo stati portati con i camion a Leianokladi, stazione ferroviaria sulla linea di collegamento della Grecia con il nord dell’Europa. Da lì eravamo partiti in treno, reclusi e ammassati come animali.
“Tu-tun - tu-tun - tu-tun…” Era già il secondo giorno di viaggio in ferrovia. Il dondolio del treno mi rilassava, un po’ mi intorpidiva, ma non mi impediva di ricordare e riflettere. Non avendo altro da fare ripensavo agli avvenimenti recenti e mi chiedevo se avevo agito nel modo giusto, se avevo preso le decisioni che il mio grado e il mio incarico di comandante di stazione mi imponevano come doverose, oppure se mi ero lasciato condizionare passivamente dalle circostanze. Certo, avevo agito con prudenza e avevo sicuramente evitato morti e feriti… ma è di questo che un comandante deve preoccuparsi? o piuttosto deve scegliere il sacrificio di sé e dei suoi uomini in nome dell’onore e della patria?
Riflettevo sulla concatenazioni degli eventi che mi avevano messo in quella sgradevole condizione di prigioniero di guerra, e cercavo di essere razionale e obiettivo. Ma in quelle circostanze è possibile essere obiettivi? Lo si è certamente nell’intenzione, ma poi si è condizionati dalla natura umana che ha memoria lunga per i meriti e memoria corta per i demeriti, a meno che questi non siano tanto gravi da generare rimorsi, i quali sono difficilmente rimovibili. E dunque, se non riuscivo a dimenticare, era perché qualche rimorso mulinava nella mia coscienza?
Per rispondere a questa domanda mi misi a ripercorrere mentalmente tutti gli avvenimenti che avevano preceduto il fatidico 8 settembre.
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La causa dei miei guai, anzi dei guai degli italiani, era nata nel 1939 quando l’Italia, avendo occupato militarmente l’Albania e proclamato l’annessione, si stava preparando ad attaccare la Grecia.
La guerra contro la Grecia venne dichiarata nell’anno successivo da Mussolini perché era invidioso dei successi bellici del Führer e voleva una grande vittoria, rapida e significativa, in grado di controbilanciare le fortunate imprese tedesche in Polonia e in Francia.
Tutta l’operazione bellica venne preparata e condotta in modo sconsiderato. Presunzione, incompetenza, impreparazione e improvvisazione a tutti gli alti livelli, politici e militari, fecero sì che l’esercito italiano, che era da tempo attestato in Albania sul confine con la Grecia, il 28 ottobre 1940 iniziò l’attacco nel modo peggiore e nel momento meno adatto.
L’iniziale faticosa e stentata avanzata, peraltro insignificante dal punto di vista strategico, venne bloccata dalla resistenza greca, stoltamente sottovalutata, e dal maltempo, stupidamente non previsto. L’armata italiana, impreparata disorganizzata e presto demoralizzata, fu costretta a fine novembre a ripiegare all’interno del territorio albanese, addirittura per 50 chilometri indietro rispetto alla posizione di partenza. Là restò fino al marzo dell’anno successivo in una sorta di guerra di posizione che ricordava purtroppo la prima guerra mondiale: attacchi e contrattacchi con perdite di uomini e mezzi, alcuni modesti progressi e altrettanti regressi.
Una nuova offensiva sollecitata da Mussolini, che prometteva: “Spezzeremo le reni alla Grecia”, prese il via il 9 marzo 1941, ma dopo un piccolo successo iniziale, più apparente che reale, venne ancora una volta fermata dai greci.
La febbre della rivalsa ardeva sempre in Mussolini, ma non più negli alti comandi militari che erano ormai coscienti della scarsa capacità offensiva dell’esercito italiano. Venne preparato comunque un ulteriore piano di attacco che però non fu attuato per una imprevista ma provvida circostanza: i tedeschi invasero Iugoslavia e Grecia con un blitz, com’era nelle loro abitudini, facendosi forti della loro capacità organizzativa e della superiorità di mezzi aerei e corazzati terrestri.
Fra il 6 e il 27 aprile, in sole tre settimane, le truppe tedesche annientarono ogni resistenza dei greci e degli alleati inglesi e presero il controllo dell’intera area balcanica. Restava da completare la conquista delle isole greche, che venne fatta in maggio.
L’Italia restò a guardare perdendo ogni possibilità di rivincita, ma evitandosi probabilmente una ulteriore figuraccia. Però, come alleata della Germania, faceva parte dell’Asse ed era in un certo senso vincitrice. Quindi non solo mantenne il controllo dell’Albania, ma le fu assegnato anche quello della Grecia continentale e delle isole. Non fu un’annessione, ma un impegnativo incarico di controllo di polizia e di ordine pubblico per conto dell’Asse, cioè un onere, non un vantaggio.
In questo quadro di controllo poliziesco venni coinvolto anch’io che, mentre avvenivano i fatti che ho narrato, svolgevo l’incarico di comandante di stazione in un’Italia ancora abbastanza tranquilla. Nell’ottobre 1942 mi arrivò l’ordine di mobilitazione e fui inviato a Missolungi, nella Grecia occidentale, appena sopra il Peloponneso, per comandarvi la locale stazione dei carabinieri.
Continua domenica prossima