Mario Olimpieri

Buona giornata Mauro, voglio augurare un felice NATALE a te, alla tua famiglia, a quella del GIORNALE e ai cari lettori. Mario

 

Natale

Grande gioia si spande sulla Terra

da una povera grotta dell’oriente; 

Gesù al suo cuore con amor ci serra

ed un bacio ci dà teneramente:

oggi posto non c’è per l’odio e il male

perché è un giorno magico: è Natale! 

 

Natale ieri

 

Come non ricordare

i magici Natali

della nostra infanzia,

quando ben poco

ci procurava una schietta

e cristallina gioia!

Senza regali

(rinviati al dì della Befana)

si viveva di sentimenti,

di sana vita familiare

e di canti natalizi

nella gremita chiesa.

Lieto giungeva

il buon cenone

con il trepidante momento

della paterna scoperta,

sotto il piatto,

di quella entusiasmante

LETTERINA,

a scuola preparata

con lodevole impegno.

Poi la commossa lettura,

in piedi sulla sedia,

dei pensierini scritti

con promesse di bontà

e di obbedienza,

ed il tutto seguito

dalla sospirata mancetta.

Infine, 

il sacro rito di mezzanotte

tra canti di giubilo

per la nascita

di un riccioluto bimbo biondo,

dal ciel disceso a salvare il mondo.

 

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Racconto con intreccio di realtà e di tanta fantasia

 

                 Il Natale del brigante

 

La vita di Domenichino e dei suoi compagni di sventura stava ormai trascorrendo su quella linea da tempo impostata: nascosti nell’intricata Selva del Lamone o in quella di Montauto, abbastanza al sicuro dai controlli dei carabinieri e disposti a subitanei spostamenti in caso di pericolo o di interventi per punire qualche traditore.

Il 1873 fu un anno in cui il ritmo di vita dei briganti si articolava similmente a quelli degli anni precedenti; trascorsero i mesi e si giunse all’ultimo, quello che con il solstizio d’inverno c’introduce nella fredda stagione, ma che ci offre anche il caldo tepore delle feste natalizie.

Forse perché era nei suoi programmi o forse per nostalgia, fatto sta che Tiburzi, eludendo ogni possibile ostacolo, la notte del 24 dicembre si allontanò dai suoi compagni e si recò a Cellere, l’amato paesello che lo vide correre bambino nelle  strette vie, giocare con i suoi piccoli amici, ai quali molte volte aveva fatto provare la sua prepotenza e l’irruente carattere.

Avvolto nel vecchio pastrano, si diresse sicuro verso la sua abitazione in Via Roma, dove la moglie Veronica ed i figli Luciano e Nicola s’apprestavano a consumare una cena diversa dal solito, perché molto più ricca e più gradevole: la cena del 24 dicembre, vigilia del santo Natale.

Domenichino non fu visto da nessuno, aiutato dalla complicità del buio, in quei tempi dominante per la scarsa e costosa illuminazione; o forse fu visto da qualcuno, ma che se ne guardò bene da svelare il suo segreto, perché sotto il dominio della paura e delle ben note, celebri vendette del compaesano latitante.

Quando egli bussò alla porta, Veronica andò ad aprire e non manifestò alcuna sorpresa; c’è naturalmente da pensare che già era stata segretamente avvertita di quella visita. Anche i figli Luciano e Nicola accorsero ad abbracciare il padre, e così la famiglia visse un’esperienza da tempo dimenticata.

Prima di accomodarsi alla tavola ben imbandita per l’annuale “cenone”, Tiburzi  si sedette vicino al camino, dove ardeva quella legna che lui, con i suoi noti provvedimenti, non faceva mai mancare; si riscaldò ben bene e rimpianse i trascorsi anni felici, quando viveva tranquillo in seno alla famiglia.

Sedutosi poi a capotavola raccontò ai suoi figlioli d’essere molto stanco per i chilometri percorsi, ma anche di essere davvero contento di riassaporare con loro la gioia di un Natale diverso da quelli trascorsi nelle cavità delle selve e nei nascondigli più impenetrabili. Rivelò anche d’essere stufo di quella sporca vita da cane randagio e di dover continuamente stare all’erta ed impaurito per le frequenti ricerche effettuate dai carabinieri, i “figli di mamma”, come venivano da lui definiti.

Mentre era nel pieno del racconto, qualcuno bussò alla porta; d’istinto Domenichino sobbalzò sulla sedia e corse a nascondersi nella retrostante legnaia.

Per fortuna si trattava semplicemente di Felicetta, la vicina di casa, che era venuta a chiedere un po’ di sale che aveva dimenticato di comprare. Fu accontentata da una generosa e sorridente Veronica, e ciò meravigliò alquanto Felicetta, abituata a vederla sempre piuttosto seria e tesa nel volto; ma quella sera era ben motivata al sorriso ed alla distensione, però la vicina non poteva certo immaginare quanto stava avvenendo tra quelle spoglie pareti.

Passato l’incubo, Domenichino ritornò ad assaporare la pace familiare e l’affetto dei cari figlioli.

Anziché continuare a raccontare le sue avventure e le mille peripezie, volle ascoltare invece dalla bocca di Luciano e di Nicola i loro semplici avvenimenti quotidiani, i loro giochi e le prime difficoltà. 

Durante i racconti, anche il pasto natalizio aiutava all’allegria e ad una momentanea felicità: c’erano i tradizionali “ciuffolotti” con le noci tritate e il miele, l’appetitoso baccalà cotto sulla graticola, squisiti dolcetti e l’ottimo vino di Cellere: un Natale così il nostro brigante non lo viveva da tempi lontani.           

Erano ormai trascorse le undici e si stava approssimando l’ora della messa di mezzanotte, con la nascita di Gesù Bambino.

Le prime persone già si dirigevano verso la Piazzetta per entrare nella chiesa parrocchiale ed assicurarsi i posti liberi vicino all’altare al fine di vedere e gustare meglio la suggestiva cerimonia natalizia.

Anche Veronica e i figli si prepararono per recarsi in chiesa, raccomandando a Domenichino di star nascosto e di attendere il loro ritorno per l’ultimo caloroso abbraccio e per la sua inevitabile, silenziosa partenza verso luoghi solo a lui noti e fidi.

“No, anch’io voglio venire in chiesa” esclamò inaspettatamente Domenichino, “voglio assistere alla “messa del Bambinello”; sono anni che non ho più vissuto la calda atmosfera natalizia e ne sento un gran desiderio!”.

“Ma è pericoloso, non puoi farlo” proferì preoccupata la moglie; “saresti riconosciuto, metteresti scompiglio, e poi saresti subito arrestato dai carabinieri, sempre presenti alla funzione”.

“Sta’ tranquilla” rispose Domenichino, “non sono mica ingenuo; ho già pensato a tutto e so come fare: tu passa in sacrestia, parla con don Vincenzo e digli chiaramente come stanno le cose, di non fare naturalmente scherzi, d’iniziare la messa e di lasciare aperta la porta della sacrestia; quando nelle strade non ci sarà più anima viva, con l’aiuto di Luciano entrerò in sacrestia e andrò ad assistere alla cerimonia attraverso la grata della finestrella sopra il coro, per tutti vedere e d’alcuno essere veduto. Fa’ come ti ho detto e vedrai che andrà tutto bene”.

Così avvenne, e quella notte, Domenico Tiburzi, sì, proprio lui in persona, visse una straordinaria esperienza che poteva anche cambiare il percorso della sua vita da brigante, purché ne avesse avuto la volontà e l’aiuto favorevole degli eventi.

La chiesa era gremita e molte persone nemmeno trovarono il posto per sedersi; sembrava che tutta la popolazione di Cellere fosse al corrente di quanto stava avvenendo in quella notte di fitto mistero divino e umano, estremamente umano.

Tiburzi, con viva curiosità, dal suo nascondiglio passò lentamente  in rassegna tutti gli ignari presenti.

“Quello è il mio amico Peppe”; disse fra sé e sé “quante volte abbiamo giocato insieme da bambini, e quanti scherzi poi, da grandicelli, abbiamo combinato! Ma che s’è sposato con Marietta? E sì, stanno insieme, per forza è sua moglie.

Guarda, guarda chi si vede, Teresina: era tanto bella e ci si è conservata, nonostante i tanti anni passati. Quello è Settimio; Luciano mi ha detto che gli ha rubato un agnello: quasi quasi scendo giù e gliela fo pagare a quel bastardo!”.

<Domenichino…!>

“Hai ragione, Gesù Bambino, mi son fatto prendere dal mio solito cattivo carattere: è stato solo uno sfogo, ma ti giuro che voglio cambiar vita!”.

Tiburzi continuò la sua lenta panoramica per esaminare le varie persone presenti.

“Aveva ragione Veronica, ci sono pure i carabinieri; a tutto staranno pensando, meno che li sto osservando e che siamo a pochi metri di distanza, come non mai; ma questa sera la situazione è molto diversa. Adesso silenzio e attenzione: c’è don Vincenzo che inizia la predica”. 

Le sue parole chiare e commoventi parlavano di un Bambino disceso dal cielo per salvare l’umanità, tutta l’umanità, anche l’uomo più cattivo e con l’animo carico di peccati e di delitti; per tutti c’è il perdono, è sufficiente soltanto pentirsi, ravvedersi e cambiare la peccaminosa via intrapresa.

“Ti comprendo bene, don Vincenzo”, commentò pentito Domenichino, “tu alludi a me, e sai bene che ti sto ascoltando e che ho tanto desiderio di mutare vita; lo vuole anche Veronica, lo capisco dai suoi occhi pieni di lacrime”.

“Commà” disse in quel momento Agnese, rivolgendosi alla moglie del brigante, “capisco il vostro dolore, le vostre lacrime e vi sono vicina con tutto il mio affetto. Certo, se fosse qui anche Domenichino ad ascoltare le parole di don Vincenzo, forse potrebbe ritornare felice tra noi, ma chissà in quale “grotte” starà trascorrendo il suo Natale!”.

Veronica non pronunciò risposta e continuò a piangere. 

Finalmente giunse il divino momento della nascita del Bambino; le campane lo annunciarono a tutti con festosi rintocchi, il coro intonò “Tu scendi dalle stelle” e i fedeli si unirono al sacro canto.

Nel frattempo, un uomo piangeva nel suo segreto spazio e prometteva ancora a Gesù Bambino di cambiare vita.

Terminata la cerimonia, tutte le persone uscirono dalla chiesa scambiandosi gli auguri di Buon Natale e dirigendosi nelle loro fredde case, ma dove li attendeva un accogliente letto riscaldato col “prete”.

Quando le luci della chiesa si spensero e per le vie di Cellere non ci fu più alcun movimento, Tiburzi venne richiamato da don Vincenzo, incoraggiato, perfino confessato e rassicurato del suo silenzio e delle sue preghiere.

Ora Tiburzi poteva recarsi nella sua casetta per salutare l’amata Veronica e i cari figli Luciano e Nicola. Lì giunto, Domenichino dette loro l’ennesimo abbraccio, baciò tutti e poi, avvolto e protetto dalle tenebre del 25 dicembre, si allontanò furtivamente da Cellere per recarsi nel segreto nascondiglio. Fuori c’era tanto buio, ma nel suo animo tanta luce, irradiata da un tenero Bambino nella Notte Santa, la più santa dell’anno.

Dunque Tiburzi era spiritualmente salvo e la sua vita era quella di un uomo finalmente nuovo, diverso?

Sì, purché avesse mantenuto i buoni propositi espressi nella notte di Natale; ma quale fu nella realtà il proseguimento della sua drammatica vita?

Giunto nel nascondiglio, condiviso con Biagini, Basili, Pastorini e Biscarini, Tiburzi continuò la precaria latitanza, con il quotidiano timore di essere sorpreso dalle forze dell’ordine.

I buoni propositi e la magia dell’ultimo Natale vissuto in famiglia furono sempre presenti nella mente del brigante, ma la lotta per la sopravvivenza, il forte richiamo all’autogiustizia, trasformatasi nel tempo in pura vendetta, e la cattiva presenza di compagni di sventura furono altrettanto presenti.

Trascorsero solamente poche settimane, e già gli pervenne la notizia di un fatto per lui imperdonabile: un certo Domenico Cerasoli, un uomo di Urbino, recatosi a Cellere per la coglitura delle olive, aveva osato importunare nientedimeno che la sua Veronica.

Come avrebbe reagito Tiburzi allo sgarbo effettuato contro la cara moglie? Ebbene, reagì nel peggiore dei modi, proprio come non doveva avvenire. Si recò a Cellere e si fece giustizia da solo, uccidendo il malcapitato davanti alla farmacia del paese, e facendosi così risucchiare dal vortice della vendetta e del delitto.

Addio buone intenzioni e serene promesse innalzate in una notte divina, ma non mantenute. Se così non fosse accaduto, oggi leggeremmo di un uomo caduto nel baratro e poi ravveduto e redento; e invece dobbiamo ancor parlare di un celebre brigante, nativo di Cellere, che terminò la sua travagliata vita, stroncata dai carabinieri in una notte buia e maledetta, quella del 24 ottobre 1896, presso uno squallido casale a Le Forane, e sepolto l’indomani nel cimitero di Capalbio.