Viterbo IL RACCONTO Stavo appunto facendo la pennichella postprandiale che, per una persona metodica come me, è sacra e inviolabile.
di Agostino G. Pasquali

 

Una visita inaspettata

     12 agosto 2015. Primo pomeriggio.

     Città sonnolenta: una discreta afa estiva, pochissimo movimento per le strade.

     In casa tutto tranquillo: Tv accesa come sempre, ma con suono azzerato, tapparelle abbassate per una penombra invitante al riposo.

 

     Stavo appunto facendo la pennichella postprandiale che, per una persona metodica come me, è sacra e inviolabile. Inviolabile? Dovrebbe esserlo, ma…

     …il campanello elettronico ha suonato ripetutamente quattro note del ‘Big Ben’: ‘dan-din-den-don…... mi-do-re-sol…

     È decisamente antipatico questo carillon, pretenzioso ed esterofilo. C’era già quando son venuto a vivere in questo appartamento; mi sono ripromesso di cambiarlo, ma, un rinvio dopo l’altro, sta ancora lì e finirò per abituarmici. Scocciato da quel suono, e di più dall’interruzione della pennichella, ho lasciato controvoglia la poltrona e sono andato all’ingresso preparandomi a maltrattare lo scocciatore. Attraverso lo spioncino grandangolare ho visto uno strano individuo con qualche cosa in mano.

     Poteva essere un rompiscatole che voleva vendere un… non so che? Probabile. Ma con questa gente il mio ‘no!’ è sempre pronto e assoluto.

     Poteva essere un Testimone di Geova? Possibile. Ogni tanto ne capita uno, anzi due, vanno in coppia come i carabinieri, ma con me perdono tempo.

     Poteva essere un corriere con un pacco da consegnare? Improbabile. Non avevo ordinato niente e non aspettavo niente.

     Ho aperto comunque, ma con un po’ di diffidenza.

     Lo sconosciuto che mi sono trovato davanti mi ha presentato un grosso pacco di fogli racchiusi da due cartoni messi come le copertine di un libro, ma senza costola; il tutto tenuto insieme da due robusti spaghi. Mi ha detto:

     “Eccomi qua. Eccolo qua. Ho finito di scriverlo. Leggilo e dimmi che ne pensi.”

     L’uso del ‘tu’ e l’atteggiamento confidenziale mi portavano a pensare che io dovessi conoscere quell’uomo. E infatti la voce mi sembrava familiare, però l’aspetto no. Era un tipo strano. I tipi strani così sono rari, stanno talvolta negli sceneggiati televisivi, raramente nella realtà di tutti i giorni, e se uno li vede una volta, poi li riconosce subito, non se ne dimentica.

     Lo descrivo: aveva  barba baffi e capelli grigi e lunghi, lasciati crescere secondo natura, ma puliti e ordinati, inoltre portava occhiali da sole che gli nascondevano gli occhi, e perciò non potevo vedere gli elementi somatici necessari per riconoscerlo. Però una sbirciatina al cartone superiore del pacco che mi stava porgendo mi ha chiarito chi era. Infatti ho letto:

 

IVI, VIDI, NOVI

(Una vita, un viaggio alla ricerca di me stesso)

di  ATTILIO SREGOLO

 

     Era Attilio, il mio più caro amico di gioventù, che non vedevo da… mi sembrava da cent’anni. La voce mi era parsa familiare appena aveva parlato, ma leggere il nome Attilio Sregolo è stato illuminante.

     Certo l’Attilio che avevo conosciuto non era così.

     In realtà il suo nome era Attilio Puzzone, ma già all’età di 16 anni, quando lo conobbi, il suo cognome non gli piaceva, il motivo è intuibile, e voleva cambiarlo; ed io, scherzando, ma proprio e solo scherzando su certi suoi atteggiamenti originali, per non dire eccentrici, gli avevo suggerito di farsi chiamare ‘Attilio Sregolo’, perché era il nome azzeccato per uno come lui, insofferente di regole e convenzioni. È vero che di quel nomignolo non si era più parlato, ma evidentemente era rimasto nel suo ricordo e lo aveva utilizzato come pseudonimo per l’opera letteraria che ora mi stava presentando.

     Ci siamo abbracciati e scambiati le consuete doverose gentilezze:

     “Come stai?”

     “Bene, grazie, e pure tu si vede che stai bene.”

     “Quant’è che non ci vediamo... mi pare un secolo.”

     “Embè? Gli anni passano… un secolo? No, ma trent’anni e più, sicuramente.”

     “Entra, mi fa piacere rivederti e fare due chiacchiere, un caffè?... e ti trattieni un po’? Abbiamo    tanto da raccontarci. Anzi, resti a cena? Per te, fratello prodigo, ucciderò il biblico vitello grasso.”

     “Non vorrei disturbarti… ma sì che accetto, anzi da un vecchio amico me lo aspettavo proprio l’invito… un vitello? È troppo, ma una bistecca mi sta bene e, se non ce l’hai, va benissimo una pizza.”

 

Circa sessanta anni fa.

     Ci eravamo conosciuti il primo giorno di scuola in prima liceo classico. Allora avevamo sedici anni, vivevamo nello stesso paese, ma non ci eravamo incontrati prima perché io mi ero trasferito lì da poco venendo da un’altra regione.

     Il liceo stava in città, a 20 km, e ogni mattina ci trovavamo insieme sul pullman, poi insieme in aula, e ancora insieme di nuovo in pullman per tornare a casa. Fu quindi naturale diventare amici. Ma oltre la scuola, oltre il viaggio, ci legò l’affinità di interessi. Eravamo entrambi un po’ idealisti, eravamo interessati all’arte, soprattutto alla letteratura e in particolare alla narrativa americana: Faulkner, Hemingway, Dos Passos, Capote, Fitzgerald, Jones, Steinbeck…, e appassionati di cinema, ogni tipo di cinema, comico epico drammatico sentimentale, italiano e straniero.

     Mentre i nostri coetanei si entusiasmavano e litigavano per il tifo sportivo, particolarmente calcio e ciclismo, noi due discutevamo di letteratura, cinema, società, progresso e giustizia. Inoltre, essendo  tutti e due un po’ americaneggianti, amavamo il jazz, che io ascoltavo soltanto, mentre Attilio tentava anche di suonarlo con un sassofono che faceva muggire in una interminabile serie di variazioni di ‘Round Midnight’, e proprio verso la mezzanotte, con immaginabile irritazione dei vicini di casa, cui quelle note insolite e talvolta stonate non davano certo la ninnananna. Ci  accomunava anche la passione per la filosofia che ci provocava lunghe e appassionate discussioni.

     Per il resto eravamo però molto diversi: lui era portato per lo studio delle lingue: conosceva discretamente l’inglese che in seconda media aveva scelto come lingua straniera, cosa rara a quei tempi in cui era normale studiare il francese, ma, come ho detto, era un originale; ed era anche bravo in latino e greco, mentre io studiavo svogliatamente il latino e odiavo visceralmente il greco.

     Ma soprattutto eravamo diversi nel temperamento: io riflessivo e moderato, lui istintivo ed esagerato. A me piaceva leggere comodamente seduto in poltrona, mentre lui, se la stagione e le condizioni meteo erano adatte, amava arrampicarsi su un albero, preferibilmente un castagno secolare, ce n’erano molti appena fuori del paese, e lassù, a cavalcioni di un grosso ramo, leggeva, anzi declamava ad alta voce un capitolo di romanzo, oppure studiava la lezione per il giorno dopo.

     Questo comportamento e alcuni altri suoi atteggiamenti originali erano interpretati dai conoscenti come gravi irregolarità comportamentali tanto che gli attribuirono il soprannome di ‘Attilio La Pazzia’. Non era affatto pazzo, era invece eccezionalmente intelligente e però anticonformista, uno spirito troppo libero per quei tempi. Io non gli avevo ancora proposto il nomignolo di ‘Sregolo’, ma i presupposti c’erano già.

     A marzo dell’ultimo anno di liceo, quando cominciava a presentarsi la paura dell’esame di maturità, ma anche l’esigenza di programmare il futuro, Attilio mi disse:

     “Mi rifiuto di sgobbare per l’esame e di vivere come uno schiavo del sistema. Per me ho deciso. Pianto tutto e vado a Roma. Il mio futuro è nel cinema.”

     Gli dissi:

      “Che significa? che smetti di studiare a poche settimane dall’esame? che butti via tanti anni di studio?”

     “Sì, proprio così! Tanto io non mi ci vedo dietro ad una scrivania. A te ti vedo già in giacca e cravatta a dire: “Buongiorno, signor Direttore!” e a sentirti rispondere “Buongiorno, caro Dottore!”, oppure ti immagino dietro una cattedra a insegnare stupidaggini che non interessano né a te né agli studenti.”

     “Grazie per l’augurio…Ma non è meglio che rinvii tutto all’estate, dopo l’esame? E ci ripensi o, comunque, fai l’esame e vai a Roma con un titolo di studio in tasca?”

     Non ci ripensò. Era fatto così, e partì, ma mi promise che saremmo rimasti amici e in contatto, e mantenne la promessa. Di tanto in tanto tornava al paese e mi raccontava la sua vita nel mondo del cinema.

     Venni a sapere che, conoscendo già un buon inglese scolastico, cioè teorico, ne aveva rapidamente acquisito la conoscenza pratica e la utilizzava nel mondo di Cinecittà facendo da interprete e guida per attori anglofoni, e, dato che era un bel giovane, anche per le attrici che recitavano nelle grandi coproduzioni italo-americane ed intanto erano alla ricerca del ‘latin lover’. Riceveva buoni compensi, ottime cene e non di rado finiva la notte a letto con una piacevolissima compagnia femminile e… talvolta anche maschile. L’ho detto che era un tipo originale che non rispettava le regole.

     Mi raccontava anche che a Cinecittà lavorava come comparsa generica e come figurante di prima fila, talvolta partecipava attivamente a qualche scena e, più raramente, recitava qualche battuta. Certo, così non  si incamminava sulla strada del successo, ma aveva una discreta disponibilità di denaro e una vita sicuramente divertente e avventurosa, piena di sorprese e di  imprevisti; incontrava e conosceva personaggi famosi. Proprio la vita come piaceva a lui.

     Mi riferiva episodi curiosi e divertenti. Per esempio mi raccontò:

     “ Stavo nell’anticamera di una insegnante di dizione, che mi aiutava a togliermi le inflessioni dialettali. Mentre aspettavo il mio turno ho visto raggomitolata su un divano una ragazzetta semplice e modesta, tutta acqua e sapone, tutt’altro che vistosa e interessante. In un’altra occasione non avrei mai pensato di abbordarla, ma non c’erano altri per fare due chiacchiere e allora mi sono presentato:

     “Mi chiamo Attilio, attore, sono in attesa di una lezione di dizione. Anche tu sei qui per questo?”

     “Mi chiamo Claudia. Si, anch’io a lezione. Devo migliorare la mia voce.”

     Parlava con tono basso, un po’ rauco, e allora l’ho riconosciuta subito, voglio dire che ho riconosciuto la voce: era Claudia Cardinale. Ci siamo messi a parlare amichevolmente.”

     Non sempre le cose andavano così bene. Per esempio, in un’altra occasione:

     “Avevo una particina, una volta tanto una vera particina nel film ‘Sudori e dolori’, che poi non è stato manco finito e non m’hanno pagato. Sempre fortunato, io! Sul set ho visto in disparte un attore che somigliava un po’ a Cary Grant e a Alan Ladd. Forse per il trucco, ma aveva la faccia proprio da americano, e lì per lì non l’ho riconosciuto. Mi sono avvicinato a lui per attaccare discorso e gli ho chiesto:

     “Where you come from? From Hollywood?”

     Mi ha guardato come si guarda uno scarafaggio, con aria schifata, e mi ha risposto:

     “Ma parla come scoreggi!”

     Allora l’ho riconosciuto. Era Franco Fabrizi. Capisci che figura da stronzo che ho fatto? Poi anche con lui ci ho parlato. Ma ha sempre quell’aria schifata, come nei film, dove fa sistematicamente l’antipatico e il vigliacco. Mi ha detto che gli dispiace apparire così, ma i produttori e i registi lo chiamano solo per quei ruoli.”

*     *     *

     Passarono una ventina d’anni dopo il suo arrivo a Roma.

     Io avevo lasciato il paese e mi ero trasferito nella vicina città, dove lavoravo come dipendente pubblico e scalavo lentamente i gradini di una carriera decente, da giacca e cravatta, ma tutt’altro che eccitante, proprio come il mio amico aveva esattamente previsto.

     Lui invece, non essendo riuscito a diventare qualcuno nel cinema, aveva riscoperto la sua passione per la filosofia e mi raccontava, in occasione delle sue ultime visite, prima che io mi trasferissi di nuovo e più lontano, che studiava e si preparava a scrivere un libro che avrebbe dato una svolta alla sua vita, portandogli successo e ricchezza. Per questo stava già componendo dei ‘memoranda fragmenta’, degli appunti che chiamava così, ma, non ne era soddisfatto. Pensava che, per coordinarli ed elaborarli in un compendio di profonda saggezza, aveva bisogno di ampliare le sue ‘conoscenze psicospirituali’, perché riteneva che il pensiero occidentale, pur ricchissimo di possibilità tecnologiche, fosse povero spiritualmente e asfittico ideologicamente. Parole sue. Stava dunque programmando un viaggio in oriente, India e Tibet, per una ‘catartica palingenesi spirituale’. Sua anche questa definizione.

     Mi dichiarò solennemente che io sarei stato il primo a leggere la sua opera e mi fece promettere di scrivergli la prefazione che, era sicuro, gli avrebbe portato fortuna, perché io avevo una dote che a lui mancava: la capacità (o la fortuna?) di concludere, di realizzare i progetti. Come potesse essergli utile a questo scopo una mia prefazione, proprio non lo capivo, e dubitavo alquanto del successo di questa nuova ‘pazzia’.

     Verso la fine degli anni ’70 mi trasferii per la seconda volta e più lontano e i nostri contatti si interruppero. Qualche anno dopo lo cercai, ma seppi che era scomparso senza un saluto e senza lasciare un recapito.

     Ora, dopo più di trent’anni dal nostro ultimo incontro, era tornato e stava per raccontarmi cose mirabili e memorabili.

(Continua la prossima settimana)

Agostino G. Pasquali

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