Viterbo IL RACCONTO Attilio, complimenti a te per come hai apprezzato la mia cena. Non pensavo di essere un bravo cuoco
di Agostino G. Pasquali

Leggi la Prima parte del racconto IL RACCONTO: Attilio Sregolo – Prima parte
Leggi la Prima parte del racconto IL RACCONTO: Attilio Sregolo – Seconda parte

 

In alcol veritas?

     Essì. Il mio diavoletto non può sopportare quel barbaro modo di bere i liquori.

     È opportuno che io dia un chiarimento al lettore che non ha avuto occasione di conoscere già il ‘diavoletto’, che pure ho descritto più volte in passato. Dunque: penso che ognuno di noi abbia un diavoletto nascosto nel subcosciente, dove normalmente dorme.

Se un evento sgradevole lo sveglia, pensa e propone una diavoleria, cioè dà un suggerimento. Se è un buon diavolo suggerisce una battuta scherzosa, tutt’al più ironica.

E se è cattivo?... non so che succede, perché il mio è un diavolo buono.

     Ho detto dunque, secondo il suggerimento di quel diavoletto:

     “Attilio, complimenti a te per come hai apprezzato la mia cena. Non pensavo di essere un bravo cuoco…. Sto scherzando, è chiaro! Bravo cuoco? Ma hai visto che è tutta roba pronta? Però, permetti? O ti è piaciuto tutto tantissimo, oppure non man-gia-vi e non be-ve-vi da una settimana…”

     Ho interrotto la frase perché Attilio ha reagito con uno scatto  a quelle parole ‘man-gia-vi  be-ve-vi’, dette con una certa enfasi;  ha reagito come se gli fosse andato qualcosa di traverso. È impallidito ed è scomparso il suo sorriso compiaciuto; il suo aspetto è divenuto sofferente e si capiva che era in una situazione di disagio. Ha abbassato la testa, ma ho intravisto i suoi occhi gonfiarsi di lacrime e un singulto scuotergli la persona.

     Ho pensato: “Oh, che gli è andata la grappa di traverso? A berla in quel modo può succedere”.

     Ma respirava normalmente e mi sono reso conto che il suo non era un disagio fisico, ma psichico. Era una conseguenza del troppo alcol? Si era ubriacato e non si controllava più?

     Siamo rimasti in silenzio. Io quasi mi mordevo la lingua perché avevo la sensazione di aver detto qualcosa di terribilmente spiacevole. Ma poi, che cosa? Questo non riuscivo a capirlo. In fondo, porco diavoletto! avevo solo fatto una battuta scherzosa…

     Poi Attilio ha rialzato la testa, non piangeva ma gli occhi erano gonfi, e ha parlato:

     “Hai… hai rotto l’incanto. Hai distrutto la mia costruzione... Stavo in equilibrio precario su un castello… di bugie e… tu… tu me lo hai fatto crollare e mi hai riportato a terra… rovinosamente… Ero un eroe romantico che ha attraversato coraggiosamente deserti infiniti, e ghiacciai assassini, e torrenti di fuoco… Ora sono di nuovo soltanto un povero disgraziato.”

      Non capivo, non sapevo che cosa pensare. Quel modo di parlare drammatico, fantasioso e, secondo me, pure un po’ pomposo e ridicolo, mi dava pena, ma anche uno certo impulso a mettermi a ridere.  Ha continuato:

     “Sento di aver bevuto troppo e ho bisogno di  confessarmi…” pausa interrogativa come per chiedere: “Posso confessarmi a te?”

     Questo bisogno di confessarsi, poi… oh, che sono un prete? E che c’entra il bere troppo con il confessarsi? Forse che per confessare gravi colpe bisogna essere almeno brilli? La situazione stava diventando grottesca e il comico involontario rischiava di sopraffare il dramma che comunque sentivo in Attilio, e quindi mi sono sforzato di rimanere serio, ma senza parole, perché non sapevo cosa dire.

Cercavo nella mia fantasia, di solito così ricca di inventiva, una frase intelligente, efficace, ma non la trovavo perché non capivo ancora che cosa stava succedendo al mio amico. Certo, pensavo,  lui è ‘Sregolo’, e quindi è capace delle più imprevedibili reazioni.

     Dovevo dire qualcosa per rompere il silenzio imbarazzante, qualcosa di appropriato e consolatorio, ma non sono riuscito a dire altro che un misero:

     “Che succede? Non capisco. Spiegati…”

     “Sì, hai ragione a non capire. Ora ti spiego. Io sono… sì, io sono… un gran bugiardo. Lo sono sempre stato. Ho sempre mentito a te e agli altri... e anche a me stesso.”

      Ha fatto un pausa, forse per vedere la mia reazione, e io ne ho approfittato per sdrammatizzare la situazione dicendo:

     “Va bbè! Tutti raccontiamo un po’ di balle. Nessuno è mai sincero, voglio dire che nessuno è tanto sciocco da essere sincero, sempre e comunque. Poi tu sei un attore, e un attore è per sua natura uno che recita frasi inventate, cioè, in fondo, bugie.”

     “Un attore le recita, ma non le inventa. E poi… dire che sono un attore? È questa la prima grossa bugia…”

     “Ma lo eri, poi ti sei messo a fare un po’ il santone e un po’ il filosofo. Giusto? E io credo che nessuno racconta le balle tanto bene come i filosofi…  I filosofi? Quasi nessuno li capisce, e chi li capisce non gli dà importanza.

A differenza di una persona normale, un filosofo è uno che produce costruzioni concettuali così assurde che non sono né vere né false e perciò ci può credere, lui per primo, anche razionalmente, cioè convincersi che siano verità. Poi queste sue verità le dice in un modo così complicato che chi ascolta o legge le capisce poco, e a quel poco che capisce magari ci crede, però fideisticamente. “Credo quia absurdum” ha detto qualcuno che doveva essere un grande filosofo per fare questa affermazione e rendere celebre una simile sciocchezza... Appunto!”

     Ora non so spiegarmi come m’è venuta quella tirata. Non sono neppure certo di pensare davvero quello che ho detto. Però è servita a calmare Attilio, che ha sorriso e ha concordato con me:

     “Sì, in questo senso sono un filosofo. Invento balle e finisco per crederci, ma poi… poi basta un’osservazione come la tua a farmi aprire gli occhi e a farmi vergognare.”

     “Quale osservazione? Continuo a non capirti.”

     “Tu hai detto che non mangio e non bevo da una settimana? No, no! certo che non è così. Mangio e bevo tutti i giorni…  però poco e male. Devi sapere che quasi patisco la fame. Capisci ora? Vivo, anzi sopravvivo, e da sempre, come un poveraccio…”

     “Come? da sempre?”

     “Sì, da quando sono partito per Roma a diciotto anni. Te lo ricordi? Tu mi sconsigliavi e io non ti ho dato retta. Tu avevi le tue ragioni e io le mie. Ma ho visto dopo che le tue erano ragioni prosaiche e toste, e le mie soltanto sogni velleitari.

     Ho sempre sofferto la fame, fame di cibo e di affetto, salvo qualche fortunata eccezione quando qualcuno mi ha offerto ospitalità e calore umano. Ma sono sempre state brevi eccezioni. Di solito mi sono nutrito di pane acqua e sogni. E non è vero che i sogni muoiono all’alba, come ha scritto Indro Montanelli. Questo vale per le persone di buon senso, almeno con un po’ di buon senso. Per i sognatori come me, i sogni non muoiono, si trasformano in… incubi e dentro gli incubi io ci vivo da sempre.”

     “Ma… e la vita allegra a Cinecittà? Le belle americane generose di denaro e di sesso? L’India da signore? Il Tibet da monaco buddista, che m’immagino sereno e immerso nel trascendente?”

     “Tutte bugie. A Cinecittà facevo la comparsa guadagnando poco, ma almeno sufficiente. E quello è stato il periodo migliore. Pensa un po’?  Il periodo migliore!

     Tu hai notato la discordanza di nomi in quegli incontri che prima ti avevo raccontato a voce e poi ho scritto nel libro:… Cardinale o Lisi? Fabrizi o Sordi? In realtà nessuno dei quattro. Erano solo altri due sciagurati come me, con i quali ho fatto amicizia e condiviso le sofferenze.

     L’India? In India ci sono andato davvero per cambiare vita, quando ho visto che Roma non mi dava un futuro. Non avevo il denaro per pagarmi un biglietto aereo e allora ho trovato un passaggio come uomo di fatica su un piccolo cargo. E non potevo capitare peggio. Lo vedi come sono disgraziato?”

     “In che senso?”

     “Nel senso che quel cargo, prima di arrivare in India, aveva fatto scalo in Pakistan e caricato droga. Una doppia parete dell’armadio nella mia cabina ne era piena, così come gli armadi di tre altre cabine. Io non ne sapevo niente, naturalmente, perché il carico era stato fatto mentre ero sceso a terra. Ma sai che cos’è successo quando all’arrivo a Calicut la polizia indiana è venuta a bordo per un controllo e ha scoperto tutto?”

     “Dimmi, dimmi…”

     “Il capitano ha dichiarato di non sapere niente e che il traffico lo facevo io e gli altri tre incastrati come me. È stata sequestrata la nave e arrestato e processato tutto l’equipaggio. Ma le condanne più gravi, dieci anni di carcere, le hanno date a me e agli altri poveracci che, come me, erano i soli innocenti”.

     “Dunque tu l’India non l’hai manco vista…”

     “Proprio cosi.”

     “E il Tibet?”

     “Mai stato in Tibet. Scontata la condanna, sono rientrato in Italia.”

     “E poi? I quindici anni successivi?”

     “Ho vivacchiato facendo lavori occasionali. Ho lavorato come manovale nei cantieri, nei campi durante la stagione dei raccolti… Ma duravo poco e rendevo poco. Io sono inadatto al lavoro: mi distraggo, sbaglio, rispondo male quando qualcuno mi rimprovera, e mi hanno sempre cacciato presto. Questo è andato avanti così, cioè malamente, fino a cinque anni fa, quando l’età mi ha costretto a smettere del tutto il lavoro. Nessuno lo vuole un vecchio. Ora sono un barbone, un clochard, un… chiamami come ti pare… e sopravvivo con la pensione sociale…”

     Si è interrotto e ha cominciato a piangere sommessamente. Era troppo da sopportare. Ero angosciato e ho deciso di rinviare al giorno dopo il seguito del colloquio.

     Era pure tardi. Perciò ho indicato ad Attilio il divano letto che tengo in soggiorno. Gli ho dato due lenzuola e un mio pigiama, gli ho mostrato dov’era il bagno. Gli ho lasciato a disposizione la bottiglia di grappa e gli ho augurato la buona notte. Mentre me ne andavo a dormire l’ho visto che beveva grappa attaccandosi direttamente al collo della bottiglia, che, per fortuna, era quasi vuota.

     Non ho provato un senso di disgusto, come sarebbe stato naturale, ma solo pena, una profonda immensa pena.

*     *     *

      Di solito mi addormento facilmente, subito, appena sto a letto, ma quella sera non riuscivo a prendere sonno perché rimuginavo il racconto di Attilio, ovvero la sua confessione, per chiamarla come ha detto lui; ed ero combattuto tra il desiderio egoistico di liberarmi al più presto di quella presenza che, temevo, mi avrebbe procurato solo problemi se non addirittura guai, e l’impulso altruistico di aiutare quel vecchio amico nel momento più triste della sua vita. D’altra parte il diavoletto, sempre lui, mi invitava a non fidarmi. Mi suggeriva un dubbio: “Ma hai visto come è bugiardo? Ti puoi ancora fidare? Come puoi credere adesso a quello che ti ha detto? E se fosse addirittura un delinquente?”

     Verso l’una di notte, non essendo riuscito ancora ad addormentarmi, mi sono alzato e ho chiuso a chiave la porta della mia camera. Non lo faccio mai perché non ho valori in casa, né oggetti preziosi, ma per la prima volta ne ho sentito l’assoluto bisogno. Solo così mi sono tranquillizzato e solo allora mi sono addormentato.

*     *     *

     La mattina dopo Attilio non c’era più. Mi aveva lasciato un biglietto sul tavolo del soggiorno:

     “Caro Agostino, amico mio,

scusami per ieri sera. Però mi ha fatto bene sfogarmi. Ora sono più tranquillo e più forte.

     Ti assicuro comunque che il libro che ho scritto (in gran parte l’ho scritto in India, mentre stavo in carcere) è un buon trattato che mescola fantasia (la storia della mia vita, non com’è stata, ma come avrei voluto che fosse) e osservazioni di filosofia, psicologia e religione. Ci ho messo molta sapienza orientale che noi occidentali ci ostiniamo ad ignorare e spesso deridiamo. Mi fermo qui. Lo leggerai? Ti prego: leggilo.

     Non ti ho lasciato il fascicolo perché lo voglio ribattere con il computer. Non ti posso torturare a decifrare la mia grafia. Entro un mese te lo rimando scritto come si deve. Non so se te lo porterò personalmente perché  mi vergogno per come mi sono comportato ieri sera. Forse ti mando un file.

    Se hai bisogno di contattarmi telefona a don Giuliano, il parroco di Serra Montelliana, che mi ospita provvisoriamente. Non mi ricordo il numero, ma lo trovi sull’elenco. Cerca: Parrocchia di Santa Cristina.

     Grazie di tutto.

         Attilio Sregolo

(Avevi ragione. Questo nome è proprio adatto a me).

     Nei giorni successivi mi sono dimenticato del libro che mi doveva arrivare, anzi mi sono quasi dimenticato di Attilio. Solo di tanto in tanto mi veniva in mente, ma il diavoletto mi suggeriva di non pensarci, tanto il mio amico si sarebbe ripresentato con il suo carico di fogli e di fastidi.

     Però una volta, un po’ di tempo fa,  l’ho sognato. Anzi ricordo la data esatta: era il 7 settembre. La ricordo per quella combinazione alfanumerica: 7.7mbre. La sera avevo rivisto il film ‘Il nome della rosa’ e la notte ho sognato la scena dell’incendio. Ho visto frate Guglielmo che usciva dalla torre in fiamme portando in mano un libro salvato dal fuoco.  Ho guardato meglio il volto, seminascosto dal cappuccio francescano, e non era quello di Sean Connery, ma quello di Attilio.


*     *     *

Ieri

      Ieri, due mesi o poco più dopo la sua visita, mi è venuto qualche scrupolo. Non mi pareva giusto restarmene passivo ad aspettare, disinteressandomi del tutto del mio vecchio amico in difficoltà. Ho pensato di contattarlo per mezzo del parroco… come si chiamava? Ho cercato il biglietto di Attilio, l’ho trovato, ho rilevato il numero con l’elenco telefonico online e ho chiamato. Ho auto subito la risposta:

     “Parrocchia di Santa Cristina. Desidera?”

     “Sono Agostino Pasquali. Posso parlare con don Giuliano?”

     “Sono io. Piacere di sentirla. Lei è proprio Agostino, l’amico di Attilio?”

      “Si, sono io. Attilio mi ha detto di chiamare lei per contattarlo. Mi scusi per il disturbo, me lo può passare?”

     “No! Non posso… perché… ma lei non lo sa? … È morto.”

     Sono rimasto senza fiato. Poi, dopo una breve pausa:

     “No, non l’ho saputo. Nessuno m’ha detto niente. Ma come? Perché?”

     “Un incidente… Attilio viveva ultimamente in una casetta di legno, di quelle che si usano in montagna. Qui è montagna. La casetta è in un parco. Mi serve a luglio per il Grest… conosce? Sa di che si tratta? È il Gr.[uppo] Est.[ivo] per i ragazzi...”

      “Sì, lo conosco. Da ragazzo ho partecipato anch’io ad un Grest. Ma mi dica di Attilio.”

      “Era senza casa e gli ho concesso di abitare provvisoriamente in quella casetta. Con l’arrivo dei primi freddi Attilio ci ha messo una stufa a legna dentro, in quella casa, che, non si sa come, ma una notte ha preso fuoco. Non se ne è accorto nessuno perché sta in luogo isolato. La mattina dopo abbiamo trovato tutto carbonizzato, anche… lui. Aveva cercato di salvarsi, abbiamo trovato il corpo con la maniglia della porta in mano, nell’atteggiamento di chi cerca di aprire, ma non ci riesce. Forse aveva chiuso a chiave la porta, e nella confusione non l’ha trovata,  voglio dire che non ha trovato la chiave.”

     Siamo rimasti tutti e due in silenzio. Nella mia mente giravano e si confondevano ricordi e sentimenti: la vita di Attilio in una serie di flash (giovane sognatore, adulto travagliato, anziano bisognoso d’affetto);  e poi: rammarico, orrore, pietà… infine ho pensato al libro. Il libro era diventato la sua ragione di vita e attraverso la pubblicazione contava di avere una rivalsa sulle brutture della vita, sugli insuccessi, sulle ingiustizie subite. Ho chiesto:

     “Attilio aveva scritto un libro e desiderava che io lo leggessi. Ce l’ha lei per caso? Vorrei curarne la pubblicazione. E il minimo che posso ormai fare per lui. Attilio ci teneva…”

     “Lo so, so tutto del libro… ma purtroppo è bruciato anche quello. Anzi, lo sa? Il corpo di Attilio è stato trovato con un braccio stretto su quel libro, quasi a proteggerlo… ma il fuoco non ha risparmiato nulla… era tutto annerito, carbonizzato… del libro sono rimaste le parti centrali delle pagine, poco leggibili, inutilizzabili.”

     “Quando è avvenuto l’incendio?”

     “ La notte tra il 7 e l’8 settembre.”

     Un brivido, un senso di gelo, come una ventata di morte, mi ha invaso completamente.

     Io non credo ai sogni premonitori, né alla telepatia. Ma mi chiedo: il sogno del 7 settembre può essere stato semplicemente una combinazione casuale? Oppure esiste veramente un’anima ‘fisica, telecinetica’ che noi occidentali non sentiamo? perché essendo cattolici tradizionalisti crediamo solo nell’anima spirituale, oppure essendo agnostici la neghiamo del tutto?

     Forse stava nel libro di Attilio la risposta a questo dubbio.

 

(FINE)

Agostino G. Pasquali

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