Cellere CRONACA IMMAGINARIA Io l’amavo, ma lei avrebbe mai contraccambiato tanto amore e risposto al mio anelito?
di Mario Olimpieri

 

 

Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837), poeta italiano,tra i maggiori dell’Ottocento.

In. = Intervistatore

L. = Leopardi

In. Carissimo Giacomo, sono una persona amante della poesia, e non puoi immaginare con quanta trepidazione io mi rivolga a te, poeta di indiscussa profondità e levatissima espressione lirica, e da me ammirato e stimato.

L. Ti sono grato per i sinceri apprezzamenti e spero di essere esauriente nel rispondere ai tuoi quesiti e a ciò che ti prefiggi in questa intervista. Sono molto lieto di essere ancora nel cuore di tanta gente, anche se sono trascorsi molti anni dalla mia morte.

In. A proposito di morte, come mai tu scorgevi in essa la fine di ogni male, e come mai eri così distaccato dagli interessi della vita?

L. Beh, poiché tu hai letto le mie opere, apprezzandole, mi sembra quasi superfluo dover chiarire il mio pensiero filosofico in generale e il mio pessimismo in particolare. Già a diciotto anni scrissi L’appressamento della morte, una cantica in terzine, nella quale dichiaravo di sentire la morte ormai imminente ma nello stesso tempo come l’unico conforto a tutti i miei mali che mi procuravano enormi sofferenze fisiche e ad una preoccupante malattia agli occhi che nel 1819 mi costrinse a interrompere lo studio.

In. Infatti, sono ben noti il tuo pessimismo e la tua convinzione che la felicità non esiste in assoluto, ma la proviamo solamente quando finisce un dolore; spiegami meglio ciò che io ho già abbastanza compreso con la lettura dei tuoi scritti, soprattutto dello Zibaldone; vorrei sentire dalla tua viva voce perché nutrivi sì fortemente questo sentimento negativo, che ci avvilisce e ci allontana dalla vita e dall’entusiasmo.

L. Certamente; siete in tanti a chiedere delucidazioni sull’argomento, ed io voglio essere il più chiaro e sincero come non mai.

L’uomo nasce per la vita, per la felicità, per l’amore in tutte le sue manifestazioni, ma poi si trova a dover affrontare la dura realtà e a doversi liberare dagli ostacoli e dalle catene che la natura, spesso più severa matrigna che tenera madre, ci pone, e non sempre noi siamo capaci di superare quegli ostacoli e di svincolarci da quelle catene.

In. Tu ne trovasti tanti di impedimenti sul tuo cammino?

L. Indubbiamente sì; anche se nacqui, primo di otto figli, in una famiglia ricca (mio padre era il conte Monaldo) e con tutti i privilegi che una persona poteva avere in quel periodo storico, è pur vero che la natura si accanì contro il mio corpo e mi assegnò una salute cagionevole e un fisico debole, malaticcio e perfino deforme. Sapessi che tristezza dover sopportare forti dolori già in tenera età e presentarmi in società con dei lineamenti goffi e umilianti.

In. Per questo motivo ti allontanasti dalla vita quotidiana in mezzo alle persone del tuo borgo, dai giochi, dai sollazzi giovanili, rifugiandoti nello studio e trascorrendo le giornate “sulle sudate carte”?

L. Proprio così, caro…, caro chi? Piuttosto dimmi come ti chiami.

In. Mi chiamo Mario Olimpieri.

L. Dicevo, proprio così, caro Mario; nei giochi infantili ero spesso allontanato dai miei compagni perché poco abile nel movimento e soprattutto nella corsa; le bambine preferivano simpatizzare con i maschietti più intraprendenti, ed io ero abbastanza isolato e trascurato. Non mi sentivo gratificato nel gioco e nelle amicizie, e allora mi rifugiavo nello studio e nella lettura di antichi testi; ciò facendo, mi sentivo più a mio agio, mi formavo una profonda cultura e mi sfogavo scrivendo trattati e mettendo in versi i miei sentimenti e il mio duro contatto con la natura.

In. E in questo contesto come si poneva la figura della tua adorata Silvia?

L. Oh, come mi fai ancor battere lo spento cuore, caro Mario, nel ricordarmi la mia adorata Silvia! In verità, con questo nome simbolico intendevo rivolgermi a Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere della nostra famiglia. Il suo perenne canto durante i lavori femminili invadeva le mie fredde stanze, donandomi sollievo e gonfiandomi il cuore di teneri sentimenti.

“Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare
1 il giorno”.        

1 Menare: trascorrere

 

Io l’amavo, ma lei avrebbe mai contraccambiato tanto amore e risposto al mio anelito?

Questo era il dubbio che mi attanagliava e dal quale non sapevo come liberarmi; non osavo manifestarle il mio amore, temendo di ricevere una risposta di ripulsa, ma poi mi armai di coraggio, le esposi il mio amore e lei condivise i miei sentimenti. Tutto ciò ebbe breve durata perché fu colta da un male crudele che la rapì alla vita e ai sogni giovanili.  Quanto dolore e quante lacrime durante il giorno, ma ancor di più durante la notte, sotto le ignare coperte che attutivano e nascondevano il mio pianto ma non la mia sofferenza.

“O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

da chiuso morbo combattuta e vinta,

perivi, o tenerella. E non vedevi

il fior degli anni tuoi”.

 

In. Non continuare con questi vivi e intensi lamenti che mi procurano immenso dispiacere per le dure prove che hai dovuto affrontare nella vita; parliamo invece del tuo grande amore per la poesia, che ha ampiamente alleggerito il tuo disagio esistenziale.

La natura è stata davvero ingrata nei tuoi riguardi, però questa triste realtà ha consentito di sviluppare in te sì forti sentimenti che con la tua sublimità poetica hai tramandato all’umanità per sempre, donandoci commoventi quadri poetici.

L. Sì, è proprio il caso di cambiare argomento e di affrontare altri temi, anche se poi ci condurranno anch’essi inevitabilmente alla verità e alla durezza della mia esistenza.

In. Quando componesti L’infinito, avevi soltanto ventuno anni, eppure eri già tanto profondo nello sviluppare l’essenzialità della vita e la ricerca di un qualcosa che non è vicino a noi, ma molto al di là, nell’infinito.

L. Dici bene; infatti, il mio pensiero e il mio sguardo oltrepassavano il ristretto confine stabilito da una siepe e preferivo navigare e naufragare nell’immenso mare dello spirito.

“……Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Stesura autografa non definitiva de
L’infinito di Giacomo Leopardi.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.

In. Sei veramente mirabile, caro Giacomo, soprattutto negli ultimi tre versi di questo Idillio, nei quali hai riassunto tutto il tuo pensiero filosofico

con una similitudine efficace e altamente poetica.

Ora, per terminare, vorrei affrontare i tuoi ultimi anni di vita, trascorsi lontano da Recanati, ospite a Napoli del tuo grande amico Antonio Ranieri e poi a Villa Ferrigni, alle falde del Vesuvio fra Torre del Greco e Torre Annunziata, dove nel 1836 scrivesti La ginestra.

L. Quando scrissi questi versi, ero nel mio penultimo anno di vita e volli ripercorrere con orgoglio la mia breve esistenza, soprattutto l’antica giovinezza, sottolineando un’intensa ribellione contro la natura e il destino, lo stesso che avrebbe colpito anche la ginestra, fiore odoroso del vulcano.

“Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola.
…………………………………………
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
…………………………………………”

Ma la mia ultima poesia fu Il tramonto della luna, scritta con profonda tristezza perché sentivo alle mie spalle l’alito della morte imminente, che avvenne proprio durante il mese di giugno, lo stesso mese in cui ero nato trentanove anni prima. La luna, dopo aver illuminato la notte con la sua argentea luce, tramonta, ma poi segue il nuovo giorno e la vita riprende il suo eterno cammino; la vita dell’uomo, al contrario, conosce un tramonto senza ritorno, al quale non seguirà nessuna alba, nessuna aurora.

“Ma la vita mortale,

dopo che la giovinezza

svanì, mai si colorerà

illuminandosi d’altra

luce, né d’altra aurora.

Vedova resterà fino alla

morte; ed alla buia

notte della vecchiaia,

che oscura tutte le altre

età, gli Dei posero

come meta finale la

sepoltura”.

In. Con il pessimismo abbiamo iniziato, caro Giacomo, e con il medesimo si chiude l’intervista; provo per te sconfinato dispiacere per il dolore che ha contrassegnato la tua vita, breve davvero ma ricca di tempestosi eventi e di anni infelici. Con la morte raggiungesti la vera pace e l’eterna e sospirata quiete: la… quiete dopo la tempesta.

La tomba di Giacomo Leopardi
(Parco virgiliano a Piedigrotta)

 

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