Viterbo PROVOCAZIONE UN SASSOLINO NELLO STAGNO (Tredici)
Agostino G. Pasquali

 

Pensando al 2 novembre – Non è qui tutto l’uomo…

 Qualche giorno fa ho potuto leggere su questo giornale in rapida successione:

- un epigramma di Pasquino Viterbese – 8 ottobre

- un commento pepato de L’Etrusco – 9 ottobre

- la replica sarcastica di Pasquino Viterbese – 11 ottobre

     È stata una interessante diatriba provocata dagli scavi di tombe nel sito archeologico di Vulci e intercorsa tra due autori anonimi.

      Autori anonimi? perché no? Non mi scandalizza l’anonimato, anzi è pure suggestivo se, come in questa occasione, i nomi sono sostituiti da pseudonimi significativi e se comunque c’è la possibilità di scoprire, in caso di giustificata necessità, chi sono gli autori (il direttore li conosce). Penso che si debba discutere ciò che viene detto, non chi l’ha detto, a meno che costui non abbia travisato la verità oppure offeso qualcuno.

     Quella diatriba mi è tornata in mente oggi quando, avvicinandosi il 2 novembre, ho fatto la tradizionale visita al cimitero di Viterbo e ho letto la scritta che campeggia in alto a destra appena si entra nell’ingresso principale:

         “NON E’ QUI TUTTO L’UOMO - VIVE ALTROVE LA DIVINA FAVILLA”

     (Incidentalmente devo far notare che, come si vede nella foto, lo stato sudicio della lastra rivela la solita incuria viterbese per i monumenti. Però questo è un difetto trascurabile in confronto a quello segnalato dal direttore Galeotti sempre per il cimitero, cioè l’uso della tomba della famiglia Vanni come mangiatoia per gatti.)

     La lettura di quell’epigrafe mi ha fatto ripensare a Pasquino e a L’Etrusco per la questione da loro dibattuta, quindi mi sono posto alcune domande:

- Ma se vive altrove la divina favilla, che cosa resta dell’uomo nel segreto dei loculi moderni e delle tombe antiche? Hanno importanza le spoglie che vi sono conservate? Non sono esse oggetti di scarto come i gusci chitinosi che restano dopo la metamorfosi dei ripugnanti bruchi in splendide farfalle? Quei corpi senza vita non sono forse scarti insignificanti come la barba che gli uomini tagliano e gettano? o i peli che le donne eliminano accuratamente? o le unghie che accorciamo? o i capelli che tagliamo quando non cadono spontaneamente? o i pezzi del corpo che il chirurgo elimina e che sono trattati proprio come rifiuti, sia pure speciali?

- Perché, pur professandoci cristiani, disubbidiamo al precetto divino? (Bibbia, Genesi 3,19: “Ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai”).

- Insomma perché diamo tanta importanza ad oggetti che la Natura (o, se preferite, Dio) ha fatto in modo che, dopo la morte, tornino alla terra come nutrimento per altri esseri viventi, animali e vegetali?

     Noi invece cerchiamo di preservare quegli oggetti. Cerchiamo, ma non ci riusciamo se non per un tempo limitato. Qualcuno arriva a predisporre il surgelamento del suo corpo nella speranza che la tecnologia riesca in futuro a farlo ritornare in vita. Ma anche se questo avverrà, che cosa sarà quel corpo riportato a vivere senza il suo pensiero che si è azzerato con la morte? Infatti la nostra mente ha una memoria volatile, non permanente. Forse in futuro con l’innesto di qualche microchip… ma questa è fantascienza, anzi tanta fantasia e poca scienza.

     La tristezza del cimitero provoca malinconia e la malinconia può generare poesia anche in un animo razionale ed essenzialmente prosaico come il mio. Mi pongo un’altra domanda con questi pochi, modesti versi:

Quando cala la luce della vita                

vien la notte e cancella in nero l’ombre.

Devo credere allora nell’ ALTROVE?

Credere come cieco crede la luce

su descritta parola dei vedenti?

Ma chi ha già veduto che ALTROVE

sorgerà alla FAVILLA nuovo giorno?

                                                                *     *     *

   Esaurite le domande (però ce ne potrebbero essere altre) passo a proporre una considerazione.

     Il ricordo che noi abbiamo degli uomini del passato non sta nel loro corpo eventualmente ben conservato, ma nelle opere che hanno compiuto e che stanno scritte nella storia, oppure nei prodotti della loro genialità che vediamo, ammiriamo, conserviamo, usiamo. Nessuno ricorderebbe Alessandro Magno o Giulio Cesare o Napoleone se non avessero fatto, nel bene e nel male, grandi imprese belliche. Nessuno ricorderebbe Platone, Aristotele, Kant se non avessero scritto libri di filosofia. Nessuno ricorderebbe Omero, Virgilio, Dante se non avessero composto poemi. Nessuno saprebbe di Gesù se non ci fosse scritta la storia nei Vangeli. Lo stesso vale per inventori, scrittori, pittori, scultori, architetti e scienziati, ognuno per le opere create nel proprio campo o scritte nei libri di storia. Il loro corpo, anche se conservato, non vale niente, come non vale niente il corpo dei milioni di persone ignote che furono loro contemporanee e che forse hanno conosciuto quei geni, li hanno aiutati o anche combattuti, ma senza aver fatto mai qualcosa di memorabile. Dirò di più: noi ricordiamo anche i grandi personaggi del male (Hitler, Stalin…) proprio per le loro azioni malvagie, non per il loro corpo.

     In occasione della morte di Erich Priebke, che è un altro esempio di malvagio memorabile, scrissi proprio su questo giornale alcune considerazioni analoghe a quelle sopra esposte e le conclusi citando gli orripilanti versi di Lorenzo Stecchetti, che con un pizzico di sadismo (perdonatemi!) trascrivo di nuovo:

“Quando ti coleran marcie le gote

Entro i denti malfermi

E nelle occhiaie tue fetenti e vuote

Brulicheranno i vermi…”

     Sono parole orribili, sconvolgenti, ma significative e soprattutto descrivono un fenomeno naturale al quale cerchiamo, ma invano, di sottrarci. Invece non dovremmo violentare la natura affannandoci a preservare dalla corruzione il corpo del morto.

     Questo affanno è l’atto finale della tragicommedia della vita, nel corso della quale violentiamo la natura quando con trucco e chirurgia cerchiamo di annullare gli effetti dell’invecchiamento. Però questa è per i viventi un’operazione giustificabile, almeno un po’; come giustificabile, anzi doverosa, è sicuramente la cura delle malattie. D’altra parte è comprensibile che, ad una certa età, guardandoci allo specchio e notando gli effetti corruttivi del tempo, ci venga il rimpianto di non avere più il fisico dei vent’anni e quindi sorga il desiderio di riparare i guasti. Ma tutto questo è giustificato finché il corpo è vivo, vivificato dallo spirito o favilla o anima (ognuno gli dia nome secondo le sue convinzioni).

     Però, dopo la morte, dovremmo lasciare che la ‘spoglia’ (intesa appunto come materia senza più spirito) torni alla natura in modo naturale, con la sepoltura in terra o, più igienicamente, con il fuoco. Amen!   

Agostino G. Pasquali

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