Viterbo CRONACA Mi pongo questa domanda perché, lo ammetto, ieri ho sorriso tra le tombe del cimitero San Lazzaro
di Agostino G. Pasquali

 

Chiesa di san Lazzaro a Viterbo

Si può sorridere al cimitero?

Intendo chiedere: sorridere al cimitero è ammesso dalla buona educazione? o è una mancanza di rispetto? è causa di scandalo per chi vede il sorriso senza capirne il motivo?

       Mi pongo questa domanda perché, lo ammetto, ieri ho sorriso tra le tombe del cimitero San Lazzaro, il cimitero di Viterbo.

E’ stato un sorriso evidente e sfacciato. Non ho potuto evitarlo di fronte ad una certa lapide. Sia chiaro: si è trattato di un sorriso, non di una risata, ma quel sorriso, involontario e forse inopportuno, è bastato a cancellare la tristezza che opprimeva il mio animo dopo la visita alla tomba di famiglia.

       Per far capire a voi, gentili lettori, il motivo del mio sorridere devo fare un salto indietro nel tempo, un grosso salto indietro, e ricordare.

*     *     *

      Quando ero un piccolo bambino di pochi anni vivevo a C***, un paese del viterbese, e di me si occupava soprattutto mia nonna Nenella.

      Nonna Nenella era una persona anziana, ormai esclusa dalla gestione familiare, ma dolce e paziente come un vecchio cane da guardia, il quale, tranquillo e poco esigente, fa ancora docilmente e coscienziosamente il suo lavoro perché capisce che la famiglia gli vuole bene, anche se lo trascura e non gli dà più alcuna importanza.

      L’occupazione di mia nonna era sferruzzare (lavorare a maglia) e badare ai bambini piccoli, come ero io.

      A me sembrava vecchissima, mia nonna, anche se aveva solo una sessantina di anni, perché i disagi, le fatiche, le gravidanze e le malattie, curate poco e male, l’avevano incurvata e incartapecorita. Erano altri tempi.

       Mia nonna era religiosissima e andava spesso in chiesa nel pomeriggio appena sentiva i rintocchi della campana che chiamava per il “vespro”, e allora mi portava con sé.

       Non ero l’unico bambino perché in chiesa c’erano diverse nonne che avevano nipotini fra i tre e i cinque anni. Non sapendo dove lasciarli, se li portavano in chiesa, dove i bambini stavano insolitamente quieti per quella mezz’ora del vespro: erano intimiditi dalla solennità del luogo; respiravano un odore insolito, inebriante, di muffa, d’incenso e di cera di candela; ammiravano, dipinti sulle pareti, i volti estatici dei santi con l’aureola d’oro in testa, e rabbrividivano per gli orribili ghigni dei diavoli e dei dannati che bruciavano tra le fiamme dell’inferno. Quegli affreschi ingenuamente dipinti erano gli strumenti di educazione civile e religiosa per la gente anziana che era in gran parte analfabeta. E quell’istruzione veniva così impartita anche ai bambini che non avevano ancora l’età per andare a scuola.

       La recita delle preghiere era fatta rigorosamente in latino, lingua magica che nessuno conosceva né ovviamente capiva. Credo che neppure le monache sapessero il latino, quelle monache che guidavano il rosario stando misteriosamente seminascoste dietro una grata. Di conseguenza, a causa di quell’ignoranza,  la recita delle preghiere era un borbottio poco comprensibile, un biascicare di parole che ognuno diceva a modo suo così come le aveva imparate a memoria, in modo incerto e approssimato, senza che il prete si fosse curato di spiegarne, se non molto vagamente, il significato.

       Io, che già allora ero curioso e un po’ pignolo, cercavo durante la recita delle preghiere di imparare e capire che cosa dicevano quelle nonne e quelle suore. Ma se, per esempio, il “Pater noster” era recitato da  alcune come  “Paternoste qui e  sinceli...” e da altre come “Paternoste qui e se in cielo”, figuratevi come poteva essere pronunciato il resto delle preghiere, e come arrivava alle mie orecchie. L’unica formula che riuscivo a capire, perché mi pareva detta uguale da tutte le preganti, era l’inizio e la fine dell’orazione dei morti. Infatti capivo “Requie meterna ” (all’inizio) e “Requie  scant   in  pace   ammè” (alla fine).

       Chiesi a nonna Nenella che cosa significassero queste parole e lei mi rispose:

“E’ la preghiera de li morti, perché hanno da sta’ finalmente nella “requie”, la requie che è ‘na specie de pace meterna, che vo’ ddì  pe’ sempre; la pace che nun hanno mai avuto in vita, dovenno tribbolà, lavorà e badà prima a li fiji e poi a li nepoti come ho fatto io, prima co’ tu matre e addè faccio co’ ttì. Però, che t’ho da dì? “scant”? ‘sta parola nun la capiscio proprio”. 

        Studiando il latino della scuola media riuscii finalmente a conoscere e capire i testi delle preghiere e scoprii che non era “requie  scant” che si doveva dire, ma “requiescant (= ripòsino)”.

        Ripensandoci ora, però, mi rendo  conto che, pur nella sua ignoranza e nella sua approssimazione verbale, mia nonna sapeva per chi e per che cosa pregava. Certamente lo sapeva meglio di tanta gente di oggi che sa il latino, in chiesa prega in italiano, ma intanto, mentre prega o dovrebbe pregare,  manovra il telefonino per filmare il piccolo di casa che fa le smorfie o per leggere un sms degli amici o l’ultimo tweet di Renzi.

*     *     *

        Però quel “Requie  scant”, diviso in due parole, è rimasto per me un ricordo di altri tempi e di altra ingenuità, per non dire innocenza. E di tanto in tanto mi torna alla mente. Penso: Beata ignoranza! Ignoranza di gente semplice,  povera di istruzione, ma ricca di fede e di bontà.

Finché…finché ieri…

 …avvicinandosi il 2 novembre, ho fatto la tradizionale visita al cimitero di Viterbo, portando un omaggio di crisantemi ai miei familiari che riposano in quel triste luogo.

       Finita la visita, mi avviavo lentamente all’uscita, pervaso e oppresso dall’inevitabile attacco di malinconia che mi procuravano le foto di conoscenti che riconoscevo qua e là sulle lapidi.

       Ma all’improvviso ho visto una scritta che mi ha indotto a sorridere e mi ha rasserenato. Ho visto due parole incise da mano esperta, con bei caratteri in stile liberty, su una pietra tombale elegantemente scolpita:

       “REQUIE  SCANT, due parole separate, proprio come diceva mia nonna. 

       Non ci credete? Allora guardate la foto, scusate la mia irriverenza per averla scattata, e, se vi va, sorridete insieme a me.

Agostino G. Pasquali

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