In questo saggio si cerca di decodificare il linguaggio cinematografico pasoliniano inerente al film "I racconti di Canterbury", tenendo presente l'ideologia del regista, il contesto storico all'interno del quale egli ha operato e la sua attività di letterato, poeta, giornalista oltreché cineasta.

Di fondamentale importanza per la realizzazione del suddetto lavoro è risultato l'esame dell'opera chauceriana e in particolar modo dei Canterbury Tales, fonte letteraria alla quale Pasolini si è ispirato per la realizzazione del suo film.

2) Tra forma e racconto. 

Per il fatto, poi, che Pasolini venisse proponendo, attraverso la sua trasposizione dei Canterbury Tales, una nuova nozione di realismo, fu in ciò aiutato molto dal testo inglese, quello di un autore che rispecchia – sottolinea il regista – “una realtà lasciata al suo ineffabile disordine, alla sua fisicità” .

Questa “folgorazione sul reale”  certo non conduce Pasolini ad una mimesi esatta, a pensare; bensì lo spinge verso un grado zero della scrittura filmica narrativa; verso una frontalità completa della vicenda, a sciogliere la narrazione in un continuum dove si perde perfino la percezione del passaggio da novella a novella. In proposito Pasolini è esplicito: “il mio stile – arriva a dire – è frontale, rigido, ieratico: non ci sono personaggi di profilo di quinta, non ci sono attacchi diretti di montaggio sullo stesso asse” . Procedimenti che, al contrario, ritroviamo quasi tutti nella precedente produzione filmica pasoliniana e segnatamente in quella “mitica”. 

Lo stile “soggettivo” di un’opera come Edipo re nella quale il poeta sembra aderire alla vicenda del protagonista assumendone il punto di vista, si scioglie nei Canterbury – film in una messinscena che, per partito preso, rinuncia ad ogni virtuosismo di regia. La frontalità, l’ascetismo pasoliniano è anche la soluzione logica di chi, come Pasolini, prende a modello del proprio fare, del proprio mettere in scena la tipologia umana e certa pittura trecentesca. Certo in un primo momento potrebbe sembrare che il realismo assoluto pasoliniano sconfini nel piatto naturalismo. In realtà nei Racconti di Canterbury il regista mette in atto tutta una serie di procedimenti di scrittura, fa intervenire modelli figurativi e cinematografici che, combinandosi nel loro insieme, producono quel senso di più, quell’impressione di un operare, consapevole, produttivo, creativo, sull’ipotesi “reale” assunta come punto di partenza. 

I modelli fin qui accennati saranno oggetto di trattazione successiva, ma prima di affrontare l’analisi stilistica del film, è utile ancora sottolineare come il regista intervenga in maniera significativa sulla pagina scritta: ricondurre il dialogo nelle sfera del visivo non significa solo rendere omaggio ad un cinema che non esiste più (e quindi indirettamente ritornare verso una purezza di linguaggio), ma certo più concretamente tenere cose e figure umane in campo mute affinché il gesto, la corporeità finisca, anziché la parola, diventino elemento primario significante. 

Per impostare il suo racconto filmico, dal corpus chauceriano di ventiquattro novelle, Pasolini ne estrae otto. Mantiene dei pellegrini in viaggio verso Canterbury i quali decidono di raccontarsi delle storie: è questa quasi una ouverture musicale che presenta alcuni temi sviluppati: poi successivamente. Gli episodi sono legati tra loro dalla presenza in scena del personaggio di Chaucer interpretato dallo stesso Pasolini il quale dà alla circostanza un preciso significato: “la mia presenza significa la mia coscienza metalinguistica. È l’opera guardata attraverso l’occhio dell’autore” . Al di là di questa presenza, che sta a significare “il distacco dell’autore, la sua distanza in rapporto al mondo e alla società”  ma non dall’opera, osserviamo come il personaggio di Chaucer, che costituisce la cornice letteraria, non risulti essere niente di più che una semplice decorazione e “scandisca nel tempo la formazione di un’opera senza stabilire nessi logici al suo interno” . Esso enumera le diverse fasi creative: gli appunti durante il viaggio, l’ispirazione decameroniana, stesura dei racconti e il commiato del film. Il personaggio di Chaucer è completamente arbitrario e simboleggia il significato del film, come lo stesso regista sottolinea “un film metalinguistico … un film sul film, un film cosciente di sé” .

La mancanza di nessi logici permette al regista una narrazione frammentaria dove, venuta meno la progressione drammaturgica del film convenzionale, facilmente si perde la possibilità di cogliere gli stacchi, i passaggi da novella a novella. Come lo stesso regista sottolinea: “Le déroulement du film n’est plus mis en question de l’interieur par des allusions et des references, mais nourri par les gestes de la rélité. La santé du recit vient de ce quel es rapports des elements entre eux sont des rapports de simple structure” . Significativa è in proposito la citazione chapliniana, ricordo di un cinema in cui ci si preoccupava meno di costruire il racconto filmico e più si puntava sulla scena (sulla quale far esplodere la gag) e sulla successione delle immagini (magari ritmate, mentre qui avvertiamo una certa lentezza nella successione dei quadri). 

Con I racconti di Canterbury scompare il film tematico – autobiografico e appaiono una serie di episodi. Alla tendenza centripeda dell’arte, Pasolini sostituisce quella centrifuga: non è più l’autore onnisciente e onnipresente a raccontarci tutto di tutti, ma sono i personaggi a parlare con sé stessi raccontandosi al pubblico e ogni spettatore vede e ascolta quello che egli stesso ritiene essere più bello. Questa concezione pasoliniana ha un precedente in campo letterario nell’Ulysses di Joyce: Le Simplegadi, decimo episodio del capolavoro dello scrittore irlandese, è articolato in modo tale che i diciannove capitoletti vadano letti ognuno separatamente, ma come se fossero tutti presenti contemporaneamente. Altrettanto sembra richiedere la trilogia in fieri di Pasolini e, all’interno di essa, i singoli episodi dei films. L’intenzione del regista sembra quella di voler creare un’opera che ogni spettatore possa intendere come vuole, ma il cui vero senso e la reale dimensione la conosca solo l’Autore, che forse non vuole rivelare che a sé stesso per non privarsene. È evidente, comunque, che il motivo di fondo del film e il suo senso profondo è rappresentato dalla critica della classe borghese; una classe, secondo Pasolini, nel Trecento, come negli anni Settanta, dominate in buona parte dall’Europa e capace di rovesciare i valori mercificando ad esempio l’amore e riducendo la religione a superstizione, ad arida formula della quale servirsi per il raggiungimento del proprio interesse.

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