I Pulcini (under 12) dello sci club Orsello-Magnola - FISI CLS
 
Enrico Clementi - Networking, Imprenditoria sociale, Tutoring, Formazione

Il coaching sportivo, per definizione, è volto all’ottimizzazione della prestazione sportiva e in genere è materia della psicologia dello sport.

La psicologia dello sport, come suggerisce il nome della disciplina, è esercitata da psicologi, cioè a dire da figure professionali afferenti al settore sanitario.

Già nel 2017, con l’approvazione del Ddl Lorenzin, molti si chiedevano se il riconoscimento della professione di psicologo in ambito sanitario fosse stato una vittoria storia, o uno storico errore: non è questo l’ambito del mio intervento e lascio a chi ritiene la valutazione di questo aspetto.

Altre figure professionali, nell’ambito della “relazione d’aiuto”, esercitano attività di supporto ad atleti e giovani atleti, da prospettive diverse e avvalendosi di strumenti pure diversi. Tra questi – è la categoria di professionisti ai quali appartengo – gli educatori professionali, o comunque le figure professionali provenienti dall’ambito pedagogico-educativo.

È possibile che anche queste figure, a breve, vengano ricomprese nell’ambito delle professioni sanitarie: molti educatori aspirano e questo e molte associazioni di categoria lavorano per la creazione di albi professionali. Ho già esposto su queste pagine le mie considerazioni in merito - che vanno nella direzione dello “storico errore” - e non intendo ripetermi.

Mi preme però sottolineare che l’approccio pedagogico-educativo e quello psico-educativo hanno punti di convergenza, ma anche differenze profonde, se non negli obiettivi, certamente nel metodo: va ricordato che la psicologia, come disciplina medica, attinge alla tradizione psicometrica, cioè a dire a quella tradizione che si avvale di test relativi le abilità cognitive, piuttosto che a test che valutano altre forme d’intelligenza (Intelligenza motoria, Intelligenza agonistica, Intelligenza emotiva, ecc.), strutturando così un discorso sulla persona che potremmo dire “dall’esterno”.

Questo approccio, come evidente, si discosta notevolmente dal quid della relazione d’aiuto, che è appunto la prossimità all’altro: nella relazione d’aiuto educativa il coach (per rimanere all’ambito sportivo, ma la cosa è immutata in altri ambiti di lavoro) è a fianco dell’atleta, cioè né dietro “a spingere”, né davanti “a trainare” o condurre. La relazione d’aiuto educativa prevede cioè la capacità di sapere sostare, con il coachee, in quelle aree di “confusione” e disagio, che necessariamente preludono alla crescita e al cambiamento.

L’approccio psicometrico, perché “esterno” alla relazione, ha la pretesa di eludere questo scambio tra coach e persona in formazione, portando il lavoro su un piano di “oggettività” che non tiene conto di almeno due variabili: il contesto (ciò che è valida in un contesto o setting, sul piano quali-quantitativo, può bene non esserlo in un altro), l’emotività e il condizionamento (sovente negativo) che tale approccio opera in sede di valutazione delle performance.

Quelle indicate a me sembrano condizioni sufficienti per motivare un approccio educativo al coaching sportivo, rivedendo premesse, strumenti, metodologia e pratiche, a partire da apicalità quali:

- natura relazionale dell’intervento,

- principio di educabilità,

- principio di contingenza (si lavora nel “qui ed ora” della relazione concreta),

- intenzionalità manifesta e definizione congiunta di obiettivi e metodo, cioè a dire: implementazione/rafforzamento delle competenze meta-cognitive,

- utilizzo di “canali d’intelligenza” multipli e nulla affatto omogenei,

- ricorsività del “fatto educativo” (educazione continua: non si finisce d’imparare!),

- orientamento al “cambiamento”, inteso come componente empirica dell’educazione, e simili.

C’è sinergia, scambio, “contaminazione” tra professioni e pratiche, ma credo importante un contributo critico costruttivo alla definizione di ambiti di lavoro che trattano una materia costitutivamente “imperfetta” (quella umana), a scanso di pretese di perfettibilità. A fortiori là dove ad essere “destinatarie” e protagoniste del nostro lavoro sono le giovani generazioni, nella persona del singolo bambino, bambina, ragazzo/a che sia.

 

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