La Madonna Addolorata di Valentano

Viterbo STORIA MADONNA MIA

L’argomento di questo saggio (e la ricerca connessa) mi è stato e mi è particolarmente caro per diversi motivi che non starò qui ad elencare.

In senso generale ne va rilevata la lunga durata che abbraccia ormai più di una dozzina di anni.

Anni in cui, a varie riprese, in diverse zone dell’area viterbese, mi sono trovato ad indagare specifiche devozioni e corrispondenti rituali religiosi sempre molto riservati, se non segreti, effettuati in particolari circostanze e riguardanti statue per lo più della Madonna.

 

Non statue a tutto tondo come quelle che siamo abituati a vedere normalmente, bensì sculture con una fisionomia peculiare, in quanto realizzate per essere abbigliate: esse dunque possiedono quasi sempre una sorta di armatura in legno, più o meno elaborata, e sono imbottite con fibre vegetali, per la parte che verrà coperta dagli abiti, mentre hanno delle estremità sovente snodabili, realizzate in ceramica, terracotta o cartapesta, per le parti che rimarranno scoperte e visibili (mani, piedi e testa).

Esse sono inoltre dotate di una quantità variabile di addobbi usati per la bisogna, fatti indossare alla statua nei giorni della sua uscita pubblica (esposizione, processione, etc.). Una prima osservazione è che queste Madonne hanno sovente una manifattura riferibile ad una concezione della bellezza tutta interna alle classi popolari per le quali erano state concepite, con forme e lineamenti caratterizzati da uno spiccato realismo.


La Madonna Addolorata di Gallese


La loro espressività, concentrata per lo più nel volto e nello sguardo, è spesso carica, e ben si lega all’alto grado di verosimiglianza che esse devono possedere per fare presa sui fedeli, espressività ulteriormente accentuata dal fatto di indossare dei veri abiti di stoffa, e dal frequente utilizzo di fluenti parrucche di capelli altrettanto veri.

E’ una statuaria proveniente da secoli diversi, di cui si hanno testimonianze anche nel mondo antico e poi in quello medievale, ma la cui diffusione su larga scala in tutto l’area cattolica si ha a partire soprattutto dal periodo postconciliare, periodo in cui cominciano a diventare operanti una serie di disposizioni relative alle modalità di culto e all’efficacia delle immagini, disposizioni che devono specificamente servire ad uniformare i sentimenti religiosi dei fedeli. E’ una tipologia fortemente incentivata dal Concilio di Trento, con una produzione che continuerà copiosamente per tutto il Seicento, il Settecento e parte dell’Ottocento.

Nella seconda metà del XIX secolo e agli inizi del XX vi è un’inversione di tendenza, e nelle visite pastorali si incomincia a registrare una sempre maggiore insofferenza da parte dei vescovi nei confronti di modalità di culto troppo personalizzate e quasi sempre gestite da personale esterno ai ranghi ecclesiastici (famiglie, pie donne, membri delle confraternite, ecc.).

In questo periodo si va dunque affermando, conseguentemente alle nuove direttive, una attività di dismissione di queste statue che sovente vengono abbandonate in angoli nascosti delle sacrestie, relegate nel chiuso degli armadi, o addirittura vengono smembrate, gettate via, vendute. Molte sopravvivono tenacemente, per volontà dei fedeli, o per l’iniziativa di gruppi organizzati di devoti.

Nell’area viterbese la notizia più lontana nel tempo che abbiamo in merito a vestizioni e doni di abiti proviene da un’indagine storica effettuata da Bonafede Mancini[2]: si tratta di una Madonna del Rosario di Onano data come esistente già nel 1562:

L’usanza di vestire e donare abiti alle statue della Vergine Maria e dei Santi ha in Onano una lunga tradizione. Una prima notizia ci viene fornita dall’inventario dei beni dotali della defunta Donna Giulia di Gioacchino Pantaleoni e Donna Violante. Dal rogito, dato in Onano il 17 gennaio 1562 nella casa del suddetto Pantaleoni, posta nella parrocchia di S. Giovanni, conosciamo che Donna Giulia aveva lasciato “una vesta rossina data e donata alla Madonna di Petischia  (?) con una tovaglia al servitio del altare”. A.S.Vt. Not. Acquap. A. Capitani, prot. 223 (1561-1567), c. 9v.[3]

 Nell’area romana abbiamo un caso attestato di vestizione della statua di S. Pietro nella basilica vaticana per la festa del 29 giugno a Roma, nella seconda metà del Trecento e sembra essere il primo caso conosciuto riguardante una statua romana[4]; per l’area veneziana, indagata da Riccarda Pagnozzato, troviamo testimonianza della vestizione dell’Annunziata di S. Stefano nel 1382[5].

La ricerca sviluppata nel viterbese, via via che si è andata dipanando, ha mostrato numerose facce e sempre più mi è parso potesse contenere spunti e motivazioni di grande interesse e puntare ad arrivare a risultati significativi. Nei piccoli centri di tradizione agricola, nei culti e nelle cerimonie religiose tramandate da molte generazioni, si può leggere una sorta di humus, di atmosfera culturale che si connette al territorio, che lo racconta attraverso gesti, presenze, segni.

 

La Madonna delle Grazie di Capranica il giorno della Processione

 

Nello stesso tempo può apparire al ricercatore una trama di storie  e di racconti legati a fatti, a luoghi, a riti, a gruppi, a comunità, quasi a formare un tessuto. Vi si possono cogliere legami organizzati tra luoghi, oggetti e persone e vi si possono dunque disegnare interessanti scenari simbolici. Tutto questo consente di dedicare attenzione a situazioni per così dire marginali, ma che si presentano sulla scena sociale con grande tenacia.

E quindi appare possibile rintracciare significati  culturali di un certo rilievo che raccontano importanti pezzi della realtà di un mosaico complesso, agito storicamente da uomini e donne in quanto soggetti attivi e interpreti di forme composite di socialità. Non si può negare che tutto questo processo, insito nell’attività di ricerca, conduca sovente a scoperte di grande interesse e che il ricercatore rimanga come impigliato in una rete di nessi che via via appare sempre più chiara, pur continuandosi ad evidenziare ulteriori possibili contiguità. E che di conseguenza egli sia portato sempre più ad approfondire ed a collegare. Approfondire il particolare e collegare al generale.

E’ questo, a mio avviso, il caso in cui trova attuazione un meccanismo di conoscenza incardinato nella prassi antropologica, che, come ben suggerisce Kilani, consente di concentrare la propria attività in piccole unità da cui poter cogliere elementi più generali su cui costruire una analisi tendenzialmente complessiva della società. Scrive Kilani:

Le unità sociali prese in considerazione sono ‘ristrette’ nel senso che corrispondono generalmente a piccole comunità in cui le relazioni sociali sono concrete e direttamente osservabili dal ricercatore. Queste comunità devono ugualmente presentare una certa coerenza interna (…) e una certa coesione rispetto all’esterno (…).

La posizione di decentramento e di osservazione–partecipazione dell’antropologo gli permette di ‘estrapolare il globale a partire dal locale’. In altre parole, le relazioni messe in evidenza al livello del locale saranno simultaneamente collocate nel sistema socio-economico e culturale globale. Di conseguenza, si può definire l’antropologia come la disciplina che pensa il rapporto fra particolare e generale, che tenta cioè di analizzare la logica e la trasformazione dei rapporti sociali propri alle unità locali, cercando nel contempo di spiegare la logica complessa del mondo che le circonda.[6]


La Madonna Addolorata di Valentano



Accade poi che gli antropologi, venendo a contatto con situazioni di ricerca in cui sono protagonisti uomini e donne, si sentano spesso trascinati, più o meno consapevolmente, verso forme di comprensione e condivisione di umani destini. E che questo funzioni da ulteriore stimolo per una ricerca che già si presentava interessante.

E qui non si può, a mio avviso, evitare di citare il fondamentale contributo di Ernesto de Martino, all’interno di una visione in cui gli studi storici e quelli etnologici sono indissolubilmente uniti, e trovano la loro ragion d’essere dentro un grande, utopistico, progetto di uno storicismo integrale, ovvero di un’indagine storica ed etnologica comprensiva di tutti gli aspetti e di tutte le classi sociali, di tutti i fenomeni e di tutte le espressioni, anche le più minute, anche le più nascoste, anche le più tralasciate dai processi storico-politici.

Sostanziato da una dimensione etica di grande impatto, il progetto conoscitivo demartiniano, era soprattutto rivolto ad accogliere nel consesso nobile della storiografia quelle che lui chiamava le “umane dimenticate historie”, cioè le historie di coloro che non erano ancora entrati nella storia perché marginalizzati, estromessi, dimenticati, nullificati. Nella visione dello studioso napoletano, anzi, l’incontro etnografico tra il ricercatore e l’altro (lo studioso e l’alieno, secondo la sua terminologia) non produce semplicemente e soltanto uno speciale avvicinamento umano tra soggetti diversissimi per formazione ed appartenenza sociale, ma favorisce una sorta di “shock” che produce la messa in discussione, e il conseguente allargamento, delle categorie conoscitive precedentemente possedute da entrambi.

Di qui la formulazione da parte di Ernesto de Martino della teoria dell’etnocentrismo critico, che tanta influenza ha avuto nel dibattito scientifico nazionale ed internazionale degli ultimi decenni e sulla quale qui non posso certo dilungarmi[7].

Insomma posso affermare che l’interesse per questo tipo di ricerca per me è scattato e si è coltivato sia per motivi di tipo scientifico interni alla mia attività di antropologo, soprattutto di antropologo del territorio, sia in relazione ad una sorta di umana pietas – condivisa peraltro, ho poi scoperto, da Riccarda Pagnozzato, meritevole antesignana in questo campo -  per aspetti ed oggetti legati agli  oscuri vissuti individuali delle persone, per cose e situazioni marginali eppure forti nella loro silenziosa e sicura tenacia.

La mia ricerca si è concentrata sull’area geografica corrispondente al viterbese, quella che si usa chiamare Tuscia, avendo come primo obiettivo quello di verificare la diffusione di questa statuaria e delle relative pratiche rituali connesse ai culti, sia pubblici che privati. Un vero e proprio censimento in un’ottica storico-antropologica, che possa rendere ragione delle presenze, sia delle situazioni ancora vive, sia di quelle parzialmente, o del tutto, in abbandono, sia infine di quelle scomparse. Una possibile analisi delle persistenze, dei mutamenti e delle vicissitudini più recenti dei culti.

Il secondo obiettivo è stato ed è quello di contribuire a formare, nel corso del tempo, una sorta di archivio, che conservi documenti e testimonianze di tutti i tipi, e che si articoli su documenti cartacei, fotografici, filmati, registrazioni audio etc., insomma un archivio che raccolga e conservi tutto il materiale documentario che è possibile reperire e produrre. Un archivio che possa dare luogo, nel caso di progetti mirati, ad eventi pubblici, presentazioni, esposizioni, convegni, pubblicazioni monografiche, cataloghi o altro[8].

Il metodo antropologico, com’è noto, prevede un utilizzo integrato di fonti plurime, e la ricerca si è mossa attraverso un ampio ricorso sia a fonti scritte che a fonti orali, nonché all’impiego dell’osservazione diretta dei fenomeni e degli oggetti indagati, laddove è stato possibile. In alcuni casi, quelli più privati e quelli svolti nella segretezza più assoluta, l’osservazione di estranei è tassativamente preclusa e quindi non siamo stati ammessi a partecipare.

In qualche raro caso ciò è stato possibile ed abbiamo anche avuto il privilegio di assistere al rituale della vestizione della statua. In molti casi siamo riusciti ad avere testimonianze dirette dalle persone coinvolte nei rituali di vestizione e di custodia delle statue e degli abiti. E quindi siamo riusciti a mettere insieme una serie di punti di vista, per così dire,  “interni” al rituale stesso, ovvero a realizzare, per lo meno in una qualche misura, l’obiettivo principale delle correnti antropologiche più moderne, quelle di tipo interpretativo.

La moderna antropologia culturale di impronta statunitense prevede infatti che il compito prioritario del lavoro antropologico sia quello di far emergere il cosiddetto “punto di vista dei nativi”, come lo chiamava Clifford Geertz, padre riconosciuto di questa corrente[9]. Il suo obiettivo principale è quello di indagare il punto di vista delle persone che vivono dal di dentro delle situazioni, da protagonisti, in altre parole l’interpretazione che gli operatori rituali forniscono del loro stesso operato. L’antropologo deve fare in modo che emergano i significati coscienti. Sarà poi lui stesso a interpretare questi significati (il gioco di parole che fa Geertz è che dunque l’antropologo deve interpretare delle interpretazioni) e a collegarli via via ad altri significati su scala più ampia.

Lavorando in questa direzione e con tali presupposti, abbiamo realizzato numerose interviste che sono parte integrante delle studio etnografico effettuato e tuttora in corso d’opera.


La Madonna Addolorata di Bagnaia
(fraz. di Viterbo)



I casi che hanno avuto maggiore approfondimento sono stati quelli di Oriolo Romano, Vetralla, Capranica, Barbarano Romano, Valentano, Soriano nel Cimino, Tuscania, Bagnaia (VT), Vitorchiano, Piansano, Gallese.

Laddove possibile, abbiamo dunque realizzato lunghe interviste strutturate in modo aperto, ma che si sono via via andate definendo secondo uno schema suddiviso in diversi punti.

Nel corso degli anni, rendendomi sempre più conto della quantità di aspetti connessi a questo tipo di ricerca, ho cercato di dotarmi di uno strumento che mi consentisse di spaziare sui diversi piani coinvolti e, così facendo, ho personalmente elaborato un elenco ragionato di punti topici che, messo alla prova del terreno e via via  modificato, si è poi assestato in una sorta di griglia conoscitiva indirizzata ad abbracciare il fenomeno nella sua ampiezza.


La Madonna Addolorata di Tuscania
(culto domestico presso famiglia Braconi)



E’ con tale strumento, (abbastanza consolidato pure se da considerare non esaustivo) che negli ultimi anni l’indagine si è misurata, anche se non sempre sfruttando pienamente tutta la sua articolazione.

I punti individuati sono i seguenti:

  1. 1.   Censimento delle statue e della loro diffusione sul territorio viterbese (con distinzione tra quelle con il culto attivo e quelle con il culto abbandonato);
  1. 2.    La statua. Notizie sul manufatto, descrizione, eventuali restauri;
  2. 3.   Collocazione della statua, con note su eventuali basi o troni lignei, comprese le macchine processionali;
  1. 4.   Le suppellettili, gli ori, gli ex voto; eventuali donazioni;
  1. 5.   Gli abiti. Descrizione con notizie sulla loro provenienza; chi li ha confezionati, chi li ha donati, chi li custodisce, chi se ne occupa;
  1. 6.   Rituale della vestizione della statua. Ruoli e modalità attuali e confronto col passato. Rituale pubblico o privato, palese o segreto;
  1. 7.   Significati attribuiti dai partecipanti ai rituali di vestizione; eventuali privilegi, demarcazioni, conflitti; rapporti con le gerarchie ecclesiastiche;
  1. 8.   Forme e modalità del culto. Eventuale culto domestico (custodia in casa privata);
  1. 9.   Descrizione della eventuale processione;
  1. 10.    Specifici patronati e specifiche protezioni;
  1. 11.    Storie, racconti, leggende, miracoli;
  1. 12.   Visioni, apparizioni;
  1. 13.    I luoghi: il santuario, la chiesa, il quartiere, il paese;
  1. 14.    Avvenimenti storici documentati;
  1. 15.    Confraternite maschili e femminili preposte in tutto o in parte al culto;
  1. 16.    Eventuali altre associazioni o gruppi con ruoli attivi di supporto;
  1. 17.    Descrizione della festa. Avvenimenti, cerimonie, usanze, cibo. Rapporto sacro/profano.
  1. 18.    Rapporto con il calendario liturgico tradizionale;
  1. 19.    Significati attribuiti alla festa dai partecipanti; emergenza del “vissuto” della      festa;
  1. 20.    Note biografiche e autobiografiche delle vestitrici;
  1. 21.    Bibliografia e sitografia


LA MADONNA DEL CARMELO DI VETRALLA

La statua  della Madonna del Carmelo di Vetralla, di probabile manifattura tardo seicentesca, è una raffigurazione della Vergine con il Bambino. Il busto è fatto con assi di legno e materiali compositi da imbottitura, gli arti superiori sono snodati e i capelli sono veri, (possiede due parrucche) mentre il bambino è in legno scolpito e dipinto.

La sua residenza abituale è dentro una teca di vetro nella navata destra della Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (Chiesa che fino al 1944 era intitolata a S. Antonio Abate). La statua ha avuto un recente restauro nel 1999, mentre il Bambino era stato sostituito l’anno prima attraverso una donazione delle Monache carmelitane del Monastero di Monte Carmelo.

Non abbiamo una datazione certa, ma è stato possibile ricostruire che in passato, poiché la Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo era officiata sporadicamente, la Statua era tenuta in custodia presso una famiglia, la famiglia Moretti, che provvedeva in tutto e per tutto alla sua cura. Veniva portata in Chiesa soltanto nel periodo della festa che cade l’ultima domenica di maggio.

La Madonna del Carmelo di Vetralla possiede due abiti, uno di broccato, che indossa tutto l’anno e un altro, che veste per la festa, la cui stoffa, secondo quanto ci viene riferito dalle vestitrici, è frutto di un dono di una donna siriana, che la regalò alla Vergine nel secolo scorso in memoria di un figlio morto in un incidente. Durante la ricerca abbiamo rintracciato un dattiloscritto, fornitoci da una delle vestitrici, la signora Carla Iori, che descrive in modo puntuale il corredo della Madonna:

Uno con rose di color rosa-antico ricamate su fondo beige, accompagnato da scarpette dello stesso tessuto (unico pezzo del genere presente) e dal vestito del Bambino Gesù, l’altro con un fondo anch’esso beige ma con fiori verdi è foderato di stoffa celeste: l’abito presenta una curiosità, infatti la parte posteriore del vestito è costituita da due pannelli di differente fantasia di fiori. Ciò fa avanzare varie ipotesi come l’utilizzo di pezze di un vestito precedente per risparmiare denaro, oppure l’aggiunta dei pannelli quando l’immagine venne tolta dalla nicchia per essere portata in processione dove appariva a tutto tondo. Sono presenti altri pezzi:

1° : quattro corpetti con maniche (beige, giallo e celeste);

2°: due vestitini del Bambino Gesù di colore celeste e rosa;

3°: due camicie bianche di lino con lo stemma della Madonna;

4°: varie camicette bianche del Bambino Gesù;

5°: tre gonnelline per il Bambino Gesù;

6°: un manto celeste della Madonna;

7°: un velo rettangolare di circa due metri (forse il velo che chiudeva la nicchia della Madonna delle Murelle);

8°: tre soprammaniche nere ricamate.[10]

Gli abiti sono tuttora custoditi dalla famiglia Moretti, mentre della vestizione si occupano due donne appartenenti alla Congregazione delle Sorelle della Madonna del Carmelo, la già nominata Carla Iori (oggi 54 anni) e una sua amica da lei cooptata, Gabriella (oggi 44 anni).

Al rito della vestizione non viene ammesso nessuno se non alcune donne più anziane che in passato erano state vestitrici e che attualmente assistono, limitandosi a cambiare l’abito del Bambinello e a espletare una sorta di supervisione fatta di consigli e commenti. La vestizione, rigorosamente a porte chiuse, viene attualmente effettuata all’inizio del mese di maggio perché il parroco nel  1974 decise che la Madonna doveva essere tenuta esposta alle preghiere dei fedeli per tutto il mese, dopo essere stata collocata sul suo trono processionale di metallo dorato.

Precedentemente avveniva invece due o tre giorni prima dell’ultima domenica di maggio, giorno della solenne processione per le vie del paese, in un percorso sul quale viene preparata una composita  e tradizionale infiorata. Se le donne sono protagoniste del rito della vestizione, gli uomini lo sono per il trasporto della statua durante la processione che li vede, a gruppi di dodici per volta, darsi il cambio lungo un tragitto che attraversa tutto il centro storico per poi ritornare alla chiesa. Pare che il numero elevato di persone desiderose di portare la statua della Madonna dia luogo ogni anno a vivaci e reiterate discussioni per l’attribuzione di tale onore. 

Una particolarità è data inoltre dal fatto che alla fine della processione, giunti ormai davanti alla chiesa  dove la Madonna deve essere depositata, gli uomini addetti al trasporto compiono una sorta di rito dal sapore eminentemente maschile, con una prorompente dimostrazione di virilità: i portatori alzano ripetutamente in aria la macchina e la statua gridando a piena voce “Viva Maria”, con gesti accentuati di forza e di giubilo insieme. Così davanti al pubblico dei fedeli sanciscono euforicamente e apotropaicamente il buon esito della processione, la fine dello sforzo, il loro protagonismo.

Ci è stato riferito dalle vestitrici di come tale rituale, apparentemente spontaneo ed estemporaneo, ma evidentemente collegato a rituali maschili di tipo performativo di lontana ascendenza storica, il cui significato non può non far presagire uno sfondo sessuale arcaico, venga anche criticato dal personale femminile che esprime ansia e preoccupazione sulla sorte della statua lanciata in aria. E in questo frangente la distinzione dei ruoli di genere appare molto netta e quasi resa istituzionale, poiché le donne, d‘accordo con il parroco che dal canto suo probabilmente non vede bene queste esplosioni “incontrollate e incontrollabili”, formulano tutte le volte una sorta di raccomandazione che però viene regolarmente disattesa:

In chiesa, davanti alla chiesa, cosa che noi ci raccomandiamo sempre di non fare, così Don Lamberto, ma loro lo fanno sempre, la tirano per aria. A me me fanno sentì male ogni volta […]Alla fine, davanti alla porta della chiesa, loro si mettono lì e la tirano proprio su, ma quasi a lasciarla, tre volte […] urlano ”Viva Maria!”… è una tradizione, l’hanno fatta sempre[11]

 


LA MADONNA DEL ROSARIO DI PIANSANO

La statua della Beata Vergine del Rosario fu realizzata nel 1711, su commissione del curato Nicolò Fanti, dalle suore del Monastero di S. Maria Maddalena a Monte Cavallo di Roma, come si può leggere in una iscrizione incisa all’interno della testa:

“Nel 1711 Sr. Maria Regina Conelli, monaca del monastero di S. M. Maddalena a Montecavallo a Roma, compì il nobile lavoro di questa SS. ma Vergine Mater Dei memento mei. Questa Santa Vergine l’ha fatta Sr.. Maria Regina Conelli con l’aiuto della monaca Sr. M. Serafini sua zia, monache del Venerabile Monastero di S. M. Maddalena a Montecavallo in Roma.  SS. Vergine Maria vi prego assistete alla morte mia e vi raccomando l’anima di mia zia.”[12]

Il corpo è in legno imbottito mentre testa e mani sono di cartapesta. La Vergine è assisa su un  trono ligneo dorato e tiene il Bambinello sul braccio destro, mentre nel sinistro ha un mazzo di rose. Entrambi hanno i capelli veri. Sotto il pontificato di Papa Pio IX, nel 1863, la Madonna del Rosario di Piansano, tramite Bolla Papale, ricevette l’onore dell’Incoronazione.

Della vestizione si occupano attualmente alcune donne del paese. A partire dalla metà del Settecento e per lungo tempo  sia la statua che gli abiti erano custoditi presso una famiglia che deteneva una sorta di privilegio chiamato “Jus patronato”. La famiglia si occupava di ogni aspetto riguardante la statua, compresa la vestizione per la festa. Alcune controversie sorte tra il sacrestano e la famiglia affidataria alla fine dell’Ottocento fecero prendere all’allora vescovo la decisione che il tutto dovesse passare sotto la diretta gestione della parrocchia e che l’onore di vestire la Madonna fosse affidato alle Maestre Pie aiutate da alcune fedeli del paese.

I vestiti attualmente facenti parte del corredo della Madonna sono sei, di cui quattro antichi, anche se non sappiamo se sono quelli che venivano menzionati già nel 1772 in un inventario redatto dall’Arciprete Gio Antonio Lucattini, in cui venivano attribuiti alla Madonna e al Bambino:

“4 mute d’abiti, un di lama d’oro, una in broccato, con fiori di seta bianchi e di color rose, una di broccatello d’oro con fondo celeste e una di damasco di vari colori. Anelli d’oro 4; perle file 6; rosari 1 di granate con medaglia in filigrana ed uno di coralli con simil medaglia.”[13]

La devozione dei piansanesi per la Madonna del Rosario è intensa, al punto che per la sua festa tutti coloro che risiedono altrove (anche all’estero) tornano al paese per partecipare alle celebrazioni. La Confraternita del Rosario fu istituita nel 1608 ed è la più antica del paese. Alla Madonna del Rosario viene popolarmente attribuita una grande quantità di grazie e di interventi miracolosi, tra i quali la cessazione dell’epidemia di colera del 1855 e la protezione accordata ai soldati del paese nelle due guerre mondiali. Si racconta inoltre che vi fu una guarigione miracolosa toccata al Vicario Vincenzo Fabrizi nel 1861, che era stato colpito da ictus, e che negli stessi anni l’intervento miracoloso della Madonna salvò da una perniciosa forma di colera anche il Sig. Angelo Antonio Parri.

La festa inizia la sera del venerdì precedente la prima domenica di ottobre, quando la statua viene esposta all’ammirazione degli astanti con un meccanismo molto particolare  messo in atto per la prima volta nel 1856 e diventato ormai una tradizione molto sentita al punto da essere considerata irrinunciabile: la Madonna del Rosario appare da dietro l’altare maggiore con una vera e propria ascensione, solenne e rituale, attuata per il tramite di una macchina, che la innalza di alcuni metri fino a superare il livello dell’altare stesso, in mezzo alla grande folla di fedeli assiepati nella chiesa che ogni anno mostrano insieme stupore e giubilo quasi si trattasse di un miracolo e accorrono a baciare le vesti della Vergine Maria.

Tale cerimonia, molto spettacolare, tramandatasi fino ad oggi, è talmente sentita dalla folla dei fedeli che si racconta della insurrezione popolare che ci fu nel secolo scorso, precisamente nel 1933, quando il vescovo Mons. Rosi tentò di eliminare la cerimonia dell’ascensione sopra l’altare maggiore e i piansanesi difesero il loro rito con grande energia riuscendo a mantenerlo vivo a dispetto della contrarietà della diocesi. Antonio Fagotto ci riporta l’episodio:

La voce che il Vescovo stesse attuando il suo proposito d’eliminare una volta per tutte la tradizione dell’ascesa, fece il giro del paese in un batter d’occhio scatenando il finimondo. I piansanesi pensarono che il Presule volesse portar via la Madonna per impossessarsi dei non pochi monili d’oro. Armati di falci e forconi ed ogni altra diavoleria tentarono di forzare la porta chiusa della parrocchiale all’interno della quale era barricato il Vescovo, i preti, alcuni membri della Confraternita, il sagrestano e i chierichetti, che puntellavano la porta aiutandosi con le croci processionali. Il popolo era inferocito e se fosse riuscito ad entrare nel tempio e a raggiungere il Presule, che nel frattempo Don Giacomo aveva fatto uscire da una porta laterale, gli avrebbe fatto rivedere la città Falisca alquanto malconcio.”[14]     

Dopo questo solenne prologo dell’ascesa, ritenuto fondamentale per l’avvio della festa, la domenica mattina all’alba vengono sparati dei mortaretti mentre le campane suonano a festa; dopo il passaggio della banda musicale la mattinata si conclude con la messa solenne, dopo la quale la Madonna viene fatta ridiscendere e viene trasportata in processione per le vie del paese, a spalla dai membri delle confraternite, su un trono dorato ligneo datato 1862. Molti fedeli vanno in processione scalzi portando un pesante cero in segno di penitenza. Una volta rientrata in chiesa la Madonna del Rosario resta in esposizione per otto giorni.

 


LA MADONNA DELLA CORONCINA DI VALENTANO

Questo è un caso di ritrovamento fortuito di un simulacro che era stato dismesso e abbandonato probabilmente a seguito di interdizioni venute dall’alto: la statua è stata infatti rinvenuta dal Gruppo Archeologico Verentum[15] in un armadio della sacrestia della chiesa di S. Maria,  chiesa che fino al XVIII secolo aveva il nome di S. Maria della Coroncina.

Nella ricostruzione storica che lo stesso Gruppo Archeologico ha effettuato, pare che la statua fosse collocata sull’altare maggiore, secondo quanto riferiscono le visite pastorali dell’epoca, e che sia stata tolta da questa collocazione sul finire del XIX secolo.

Nella memoria storica locale, anche di tipo orale, restano poche tracce che possano far risalire al culto. Una di queste, significativa per il suo radicamento nel linguaggio della vita di tutti i giorni, è costituita da un detto popolare diffuso nella colloquialità della vita paesana, perché, quando qualche donna ha un abito di color azzurro, le si dice:

Sie vestita d’azzurro come la Madonna della Coroncina[16]

Un’altra traccia è emersa da un a testimonianza, resa da un membro del Gruppo Archeologico, secondo cui la festa della Madonna della Coroncina era ogni anno appannaggio di una famiglia benestante di Valentano che provvedeva, oltre che all’organizzazione, anche a dotare la Madonna di denaro e altri beni materiali assegnati poi a giovani donne povere che si dovevano maritare.

       “… Lei non si ricorda de ‘sta festa, però dice che la nonna sua una volta, quando era giovane, ragazza diciamo, - erano famiglie benestanti, perché la prendevano tutte le famiglie benestanti – ha preso la festa de questa Madonna. Davano dei doni in monete, oppure, diciamo…lenzuola, ‘ste cose così per darle alle persone povere che si dovevano sposare…una dote, una dote alla Madonna che poi serviva per questo motivo…per le zitelle, per le giovani che si dovevano sposare”[17]

Il culto della Madonna della Coroncina, praticamente scomparso fino al 1995, è stato subito ripristinato ed ha ripreso slancio presso la popolazione valentanese che lo pratica attraverso forme di devozione molteplici quali visite, preghiere, doni, voti.

La festa si celebra l’8 settembre, il giorno della Natività della Vergine Maria (il secondo titolo è infatti quello della Madonna della Natività), con una solenne processione. Anticamente, a partire dal 1781 e fino al 1864, il giorno della processione venivano elette due giovani, bisognose e morigerate, a cui veniva assegnata la dote di 15 scudi.

L’assegnazione seguiva criteri molto rigidi e per ottenerla le candidate dovevano possedere una serie di requisiti ritenuti indispensabili, vale a dire essere figlie degli iscritti alla Confraternita della Madonna della Coroncina, aver frequentato la scuola delle Maestre Pie di Valentano, avere una condotta irreprensibile improntata ad una sana moralità.Con il passare del tempo le regole divennero per alcuni aspetti più sfumate  e non si considerò più requisito indispensabile l’appartenenza alla Confraternita, purché le giovani fossero di provata fede e impeccabili sotto il profilo morale.

Il simulacro possiede un solo abito, di colore celeste chiaro, cucito da una donna del paese dopo il ritrovamento, ed ha un mantello azzurro. Le due mani aperte davanti al busto tengono una coroncina. Secondo la ricostruzione storica fatta dal  Gruppo Archeologico Verentum, la data di realizzazione della statua sarebbe tra il 1736 e il 1744.

La cura della statua, dell’abito e delle suppellettili è affidata alla giovane sacrestana e a qualche altra donna che insieme provvedono anche alla vestizione. Nel frattempo, con il ripristino del culto e delle devozioni dei fedeli, è riapparsa una delle forme tipiche di rapporto con la divinità, quella del dono[18]. Il dono che viene fatto dal devoto per stabilire un rapporto diretto, per avere un contatto, per chiedere una grazia, per rendere più preziosa l’immagine della Madonna. A questo proposito ci è stato riferito un episodio specifico:

“ …una signora inizialmente mentre che c’era la festa di questa Madonna...la messa, la messa della Madonna, ha chiamato a me da parte e m’ha detto dice: “senti io c’ho un paio di orecchini, ho visto che la Madonna c’ha i buchi, certi buchi qua su, su...le orecchie...”, dice, “...non c’ha gli orecchini, io vorrei donarglieli, gli orecchini a questa Madonna”. Allora mi ha chiamato e...m’ha dato gli orecchini, gli orecchini, a me, a me personalmente, sì. E’ andata a casa, ha preso gli orecchini e me l’ha date, me la date e allora io e... e l’abbiamo messi insieme con Bonafede, e abbiamo messo questi orecchini, poi lei...e diciamo...dieci giorni fa...sì dieci giorni fa, diciamo...dopo alcuni anni, perché noi, quando è stata fatta l’inaugurazione della Madonna eh, è stata fatta nel Novantacinque

e...siamo nel Duemila, cinqu’anni dopo e...è venuta da me m’ha detto: “senti, io quando ho dato gli orecchini ho chiesto… solamente pe’ un dono alla Madonna, ho chiesto una grazia, un qualcosa che a me serviva e… diciamo pe’...una cosa pe’ il marito”. Dice: “questo...que...questo che ho chiesto è andato a buon fine e...ora ho...e,...diciamo dopo gli orecchini, ho l’anello, ho l’anello a casa” -dice- “vorrei donare anche l’anello”.

Allora abbiamo… ho spostato la Madonna io, e...ho detto senti: “Io, non posso mette l’anello perché tu doni un qualcosa alla Madonna perché hai ricevuto da lei...e devi esse tu…”. Ha preso quest’anello, gliho detto: “Senti, le devi mette tu al dito”. Ho detto: “te posso indicà il dito dove tu le devi mette, ma non posso mette io al dito alla Madonna”. Ha preso quest’anello e l’ha messo al dito che io...che io gli ho detto, l’ha infilato da sé personalmente. e l’ha messo al dito, basta.”[19]

 

LA MADONNA ADDOLORATA DI SORIANO NEL CIMINO
(culto domestico presso famiglia Reali)

Questa statua, con tutta probabilità risalente alla fine del Settecento, fa parte di un fenomeno abbastanza diffuso di “culto domestico”, esercitato cioè presso la propria abitazione dalla famiglia che ne ha il possesso, in questo caso dalla famiglia Reali di Soriano[20]. Tale tipo di culto prevede in alcuni casi un affidamento temporaneo, ogni anno ad una famiglia diversa, che si fa carico per tutto il periodo degli onori e degli oneri derivanti da tale affidamento e dell’organizzazione della eventuale festa, in nome e per conto della comunità.

In altri casi, come questo, il possesso è permanente è un vero e proprio bene privato, tramandato per via ereditaria, sottoposto però all’obbligo del culto pubblico nell’occasione della processione. Questa Addolorata, interamente in legno scolpito e dipinto, è conosciuta a Soriano nel Cimino come “quella che guarda in basso”, per differenziarla da “quella che guarda in alto” che appartiene ad un’altra famiglia (famiglia Ranucci). Ai primi del Novecento una donna della famiglia, Ernesta Reali, fece dono alla Madonna di tutti i suoi capelli che la statua tuttora conserva. Normalmente la statua veniva tenuta in una teca di vetro nella camera da letto della signora Gina Reali dove noi l’abbiamo fotografata nel gennaio del 2000, durante una intervista effettuata alla Sig.ra Reali, nata nel 1908[21].

Fino a quando non fu sostituita con una statua di gesso, circa venti anni prima del nostro incontro con la Reali, la Madonna veniva vestita  e andava in processione ogni anno il Venerdì Santo per le vie del paese, trasportata dagli uomini della Confraternita del Sacramento. All’opera di vestizione provvedeva direttamente Gina Reali che aveva cominciato quando era piccola con sua madre. La testa della statua è mobile e, insieme ai piedi e alle mani, veniva portata il Giovedì Santo nella sacrestia della Chiesa  del Duomo, dove erano conservati i vestiti, la biancheria  e l’armatura di legno. E proprio in sacrestia avveniva la vestizione secondo modalità consuetudinarie: si facevano uscire tutti gli estranei, specialmente se uomini, si chiudevano le porte della chiesa e si dava inizio prima all’assemblaggio dei pezzi e poi alla vestizione che veniva effettuata un tempo dalla madre di Gina Reali, con la presenza della figlia bambina e con l’aiuto di un paio di donne. Morta la madre, Gina continuò a fare le stesse operazioni fin tanto che la statua fu portata in processione. Gina ricorda che partivano da casa ed erano solo donne:

(…) noi portavamo la testa soltanto e là c’era lo scheletro che era come se  c’aspettava. Ci vestivano pure aldre Madonne, perché c’era quella del Rosario, quella... nu mm’a ricordo(…) la Madonna del Rosario ce l’avevano le Ferruzzi,[22] però tante volte ho pensato: me sa che non ce sta più nessuno de la famiglia. Non lo so che fine gl’hanno...gl’hanno fatto fa’ a la Madonna, non lo so...  Noi quand’era il Venerdì sa...il Giovedì santo ‘nnavamo là in chiesa, vestivamo la Madonna, facevamo uscì tutte le persone che c’erano e rimanevamo co’ la mamma, qualcheduna de le signorine che stavano qua… e vestivamo ‘a Madonna, col velo, e... e poi la lasciavamo al sacerdote. E poi l’ andavamo a riprende dopo che era stata in processione (…).

(…) Secondo come la mamma se trovava, c’erono pure ragazze che guardavano, ma in chiesa no, in chiesa quanno poi la portavamo in sacrestia per vestirla chiudevamo le porte perché gli uomini... non li facevamo entrà. (…) Pe’ non fa’ vedé la madonna, a spojalla ce rimanevano quelle due o tre persone che portavamo noi e basta.

Da quando non è andato più in processione il simulacro è rimasto ininterrottamente in casa senza più uscire. Come accade in questi casi di culto domestico, Gina Reali, erede e custode di una tradizione di famiglia tramandata di madre in figlia, ha instaurato con la “sua” Madonna un rapporto di preghiera e devozione quotidiano, un legame fatto di grande confidenza e di grande intensità: in quanto presente e vicina in ogni momento della giornata, viene considerata una particolarissima protettrice della casa e della famiglia, ed è  a lei che ci si rivolge in ogni circostanza in cui c’è bisogno di un intervento speciale per risolvere un grave problema.

Molto chiare, in proposito, le parole di Gina:

La Madonna  fa parte della casa, chi prende la casa prende la Madonna. (…) Il parroco non s’impicciava di niente, quella era una cosa personale, nostra. Io l’ho vista sempre così nell’urna, prima stava nella camera della nonna, non avemo toccato mai niente. Quando stavamo male la Madonna se portava da la camera del malato, ma mai fori di casa (…)

La mamma mia aveva tanta fiducia, quando era in stato interessante, quando ha perduto il marito…c’aveva cinque figli da cresce. Lei si raccomandava sempre alla Madonna. Facevamo la novena alla Madonna, la pregavamo sempre e la Madonna è rimasta così...l’ancora di salvezza. Io la sera, non sia per ringraziamento, non vado a letto, c’ho un fazzoletto che mi metto qui ne la spalla, per paura che me cade, mi rivolgo alla Madonna che mi dia la benedizione […] m’abbasso e m’addormento(…) me sento più tranquilla, perché io non posso andà al letto se non […] allora me faccio bacià il fazzoletto...Queste so’ le storie antiche.

Se questo caso di culto domestico non è certamente isolato a Soriano nel Cimino, dove ben tre simulacri hanno avuto ed hanno collocazione in case private, lo stesso si può dire analizzando i dati provenienti del nostro censimento che vedono esempi analoghi in altri cinque comuni, Marta, Piansano, Proceno, Tuscania, Valentano, Villa S. Giovanni in Tuscia.

Per Marta, Proceno  e Valentano, si tratta di simulacri scomparsi; gli altri sono ancora presenti. La Madonna del Suffragio di Piansano – è una notizia ricevuta da pochi giorni, di cui non abbiamo ancora i dettagli – è stata trasferita da una casa privata alla chiesa del Suffragio. Insomma  possiamo affermare che la forma domestica del culto, nell’area della Tuscia, è piuttosto diffusa.

 

RIFLESSIONI E CONCLUSIONI

Spero che questa breve carrellata su alcuni casi di “Madonne vestite”, possa avere fatto intuire a chi legge la ricchezza di motivi presenti nei contesti indagati e le diverse direzioni in cui può condurre la ricerca. I risultati, per ciò che riguarda il censimento delle presenze, ha dato risultati assolutamente imprevedibili solo pochi anni fa.

Partiti nel 1999 dalla segnalazione di Antonio Niero che, senza nessuna pretesa di esaustività, indicava tre comuni della provincia di Viterbo con quattro effigi con gli abiti (Canepina, Piansano, Vetralla),[23] effettuando una ricognizione più o meno capillare su tutta l’area, siamo riusciti, nell’arco di alcuni anni, a rintracciarne ben cinquantatre distribuite in ventiquattro comuni e nove frazioni.

La tipologia più diffusa è risultata di gran lunga quella della Madonna Addolorata di cui abbiamo registrato ben ventisette presenze; la Vergine del Rosario ne annovera quattro e poi vi sono casi doppi o singoli di altro tipo, quali per esempio la Madonna delle Grazie, quella del Suffragio, quella dell’Assunta, del Carmelo, del Divino Amore, della Salute, dell’Aiuto, della Stella, della Coroncina (ovvero della Natività), etc. etc.

Otto di queste Madonne sono scomparse e ne abbiamo avuto notizia o da documenti o da testimonianze orali. Quarantacinque sono invece ancora presenti sul territorio e la maggior parte di esse (circa quaranta) hanno ancora un culto attivo. Una, come abbiamo visto (cfr. nota 19), è stata musealizzata presso il  Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari a Roma.

Cifre come queste fanno riflettere sulla enorme diffusione di un tipo di culto, delle sue profonde ramificazioni nelle comunità locali, della quantità di persone coinvolte, della minuziosa presenza di forme culturali e religiose attive anche se spesso misconosciute.

Di fronte al fatto che negli ultimi lustri – nonostante da molti versanti scientifici si levassero voci più o meno cautamente contrastanti -  si è sempre più dibattuto intorno al concetto di identità culturale e che in diversi settori della società e ai vari livelli, istituzionali, politici e culturali in genere, si è andata affermando la tendenza a considerare sempre più importanti le caratterizzazioni date dai presunti fattori identitari, io personalmente, sia come antropologo interessato al piano teorico del problema, sia come antropologo che da molti anni conduce ricerche sul territorio, mi sono chiesto più volte se ci fossero, e quali fossero,  i fattori identitari della cosiddetta Tuscia, se nel tempo fossero cambiati. Recentemente c’è stato anche un Convegno all’Università della Tuscia di Viterbo che si è interrogato in proposito.[24]

Esistono questi elementi identitari? Chi lo stabilisce? Con quale grado di autorità? E, nel caso, come si possono rappresentare? Il dubbio forte, corroborato dal dibattito sviluppatosi da diverso tempo in ambito di studi antropologici[25], è che la questione dell’identità sia invece paragonabile ad una impalcatura largamente surrettizia, e che  in fondo sia una costruzione ideologica rispondente a bisogni storico-politici, come da più parti si sostiene. 

Che cosa intendiamo, per esempio, quando parliamo di memorie e tradizioni? Si tratta dei contenuti di quel “patrimonio” che, grazie all’UNESCO, è entrato ormai nel lessico della vulgata antropologica e anche un po’ nel lessico comune, veicolato prevalentemente dai mass media?  E  in che cosa consiste il processo di  patrimonializzazione , cioè l‘insieme delle operazioni e delle pratiche che investono gli oggetti di studio e ricerca  dell’antropologia contemporanea, con lo scopo dichiarato di farne qualcosa di importante, riconoscibile, proponibile, inseribile nei pacchetti turistici, diffondibile attraverso i media?

E che cosa significa tale processo quando si applica al campo della costruzione, della salvaguardia, dell’identificazione di quell’insieme complesso di usi, costumi, abitudini, oggetti, riti, narrazioni del e sul mondo, che creano radici, delimitano il passato, costruiscono memorie e talvolta creano istituzioni?  Si tratta soltanto della messa in forma – ovvero dell’organizzazione - di memorie e tradizioni o comprende altri elementi e implica altre prospettive?

Condividendo il pensiero di tanti studiosi, dagli storici britannici Hobsbawm e Ranger[26] agli etnologi francesi Amselle e Lenclud[27] (oltre ai numerosi antropologi italiani che qui non cito per brevità), sono convinto che quando si parla delle tradizioni, sempre e comunque si parla del presente. Se si parla di ieri, lo si fa sempre in rapporto all'oggi, per fare confronti, stabilire gerarchie di valori, fare differenze in meglio o in peggio, esprimere nostalgie; oppure semplicemente per fuggire dal presente, per negarlo o esorcizzarlo. Per resistere a processi in atto considerati negativamente. Per tentare di resistere a processi che sembrano mettere a rischio di scomparsa qualcosa che è considerato importante. Per mantenere in vita ciò che sembra essere spazzato via repentinamente dal mondo globalizzato.

La tradizione non è il passato, oggettivamente inteso. Ciò che viene chiamato tradizionale e che continua a vivere tra noi è una costruzione sociale e culturale, frutto di scelte soggettive, che gruppi sociali più o meno ampi e  comunità più o meno omogenee compiono sulla base di esigenze presenti. Con una specie di sintetico slogan si potrebbe dire che la tradizione non è il nostro passato, la tradizione siamo noi. La tradizione nasce dall'intersecazione di tutti i nostri mondi compresenti nella nostra attualità.

Con questa linea di pensiero gli interrogativi non possono fare a meno di rimbalzare, fitti, e di focalizzarsi su alcune coppie di concetti come autentico/inautentico, puro/contaminato, antico/recente. E ancora: integro/degradato, vitale/agonizzante; interno/esterno, centrale/marginale. Concetti che sono subito richiamati da quello di tradizione.

Concetti che sono sempre presenti laddove si attua un processo, più o meno consapevole, di messa in forma delle identità di un luogo. E ancora: le identità di un territorio possono essere rappresentate meglio da aspetti per così dire “agiti” da pochi individui o invece devono essere riconosciute e vissute dalla maggioranza della collettività? Ed è preferibile che i contorni identitari siano colti da persone estranee, in grado di valutarne i caratteri con uno sguardo neutro e distaccato, oppure è più veritiera una visione dall’interno, che ne illumini con passione e dedizione anche i legami nascosti? E come è possibile trovare un equilibrio tra queste prospettive?

In altre occasioni mi è capitato di citare alcuni rituali della Tuscia come esempi di possibili squarci identitari, ovvero di possibili rappresentazioni che illuminino un qualche carattere riconosciuto e riconoscibile di questa terra: alcuni grandi riti primaverili di impianto spettacolare e coinvolgente, pellegrinaggi a santuari locali, processioni campestri, feste di ascendenza contadina (negli ultimi anni sempre più sostenute e pubblicizzate dalle autorità locali), tradizioni orali.

Indubbiamente anche i rituali di vestizione delle statue mariane, che pure sono così numerosi, come la ricerca negli anni mi ha dimostrato e che, pure nella loro riservatezza, coinvolgono, direttamente o indirettamente, tante persone, gruppi, comunità, potrebbero ben figurare dentro questo eccessivamente semplificato elenco. Sono portato a pensare che, proprio per il loro carattere recondito, intimo, legato anche all’interiorità degli individui, tali rituali siano molto utili per comprendere una serie cospicua di elementi culturali e sociali, anche perché intorno a tali rituali ruota spesso una “macchina complessa” fatta di altre cerimonie e liturgie, sociali  e religiose, forti, dense di implicazioni.

Essi esprimono, se non addirittura incarnano, significativi momenti di vita delle comunità sparse nel territorio viterbese, e per di più (pur non essendone la continuazione diretta), sono storicamente collegabili ad antiche pratiche presenti nel mondo precristiano. In questo senso è difficile non attribuire loro il marchio della tradizione, cioè di qualcosa la cui attestazione è molto antica: si tratta di un fenomeno connesso alla ritualità delle devozioni popolari, che, partendo dal mondo classico, attraversa i secoli risalendo dal Medioevo all’attualità e interessando buona parte dell’Europa, in particolare la penisola iberica, l’Italia, la Francia e anche le aree di diffusione della cultura cattolica in America latina.

Ma è anche vero che tali pratiche sono diffuse in larghissima parte del mondo religioso gravitante su tutti i lati del Mediterraneo, e che dunque essi possono caso mai connotare una vasta porzione del mondo cattolico nostrano. Ne consegue che dunque non possono, strictu sensu, essere prese ad esempio per rappresentare  la fisionomia di un territorio circoscritto, vale a dire esprimere una sorta di segnale identitario di una qualche zona dell’Italia – come per esempio la Tuscia - dove esse si sono mantenute con particolare tenacia (peraltro tutto il Meridione d’Italia ne costituisce amplissimo terreno di diffusione).

Usando categorie spazio-temporali, appare dunque molto arduo parlare di forme di identità laddove esistono vastità territoriali enormi e dimensioni cronologiche altrettanto dilatate.

Certo è che queste pratiche rituali sono molto dense di significati ad ampio raggio. Come ben illustra Elisabetta Silvestrini:

La vestizione e la cura dei simulacri religiosi tridimensionali – tema importante nella storia del culto in ambito cattolico -,rappresentano un fenomeno di grande interesse per gli studi di antropologia religiosa. Lo studio dei simulacri “da vestire” implica l’utilizzazione di alcune categorie concettuali, necessarie alla comprensione del rapporto tra la divinità e il popolo dei fedeli: la “devozione”; il significato dell’immagine della divinità; le visioni e le apparizioni; il “corpo santo” e il contatto; il dono; la ritualità della vestizione; i simboli e le funzioni dell’abbigliamento sacro[28].

Se è vero, come dice Geertz, che la cultura può essere immaginata come una sorta di testo, pieno di rimandi, da decifrare, questo complesso insieme di fattori presenti all’interno del culto delle Madonne con gli abiti fornisce gli spunti interpretativi per individuare alcune significative dinamiche scaturite all’interno  delle comunità dove i culti si sono mantenuti. Si tratta di dinamiche che, protrattesi nel tempo, possono illuminare alcuni importanti momenti dei processi, storici e attuali, attraverso i quali si è realizzata l’integrazione di più elementi, che hanno agito e ancora agiscono, sincreticamente,  sulla scena delle forme culturali religiose del territorio.

Emergono sovente i contorni di forme di religiosità potenzialmente diverse da quelle previste dalle liturgie ufficiali, pure se attestate in una convivenza spesso pacifica.

L’atteggiamento delle gerarchie è bivalente: può essere favorevole, collaborativo, tollerante, più o meno marcatamente distante o addirittura ostile a queste forme di devozione caratterizzate da soggettività, spontaneità, iniziativa, gestione dal basso.

Nei casi migliori, si aprono spazi di incontro e di dialogo tra la chiesa locale, i gruppi più o meno istituzionali di fedeli laici del posto, le diocesi e i poteri centrali.

In qualche caso si generano dinamiche conflittuali che portano a trasformazioni forzose delle pratiche, a proibizioni, a irrigidimenti; in altri casi a progressivi cambiamenti percepiti come assestamenti e adattamenti ai tempi che mutano.

Sulla base di questi processi, forse ineluttabili, una grande quantità di simulacri sono stati abbandonati, molti altri invece hanno dimostrato una grande vitalità e si sono nel tempo anche valorizzati[29], qualcuno continua a vivere dignitosamente, qualcuno sopravvive, si potrebbe dire, stentatamente.

I simulacri che hanno ancora il culto attivo nella Tuscia (sono la maggior parte di quelli da me censiti), lo devono, a mio parere,  a due fattori principali. Da un lato al fatto che esiste un tessuto rituale forte quale quello, per esempio, della Settimana Santa, che ovunque nel viterbese prevede processioni del Venerdì Santo con la statua dell’Addolorata protagonista, processioni che quasi sempre presentano ricostruzioni sceniche con un’impronta di accentuato realismo e con la conseguente produzione di un pathos diffuso; del resto abbiamo già notato che le statue dell’Addolorata sono nettamente le più numerose.

Dall’altro al fatto che persiste, pure se spesso  sotterraneo, un tenace attaccamento di gruppi di fedeli (in forma organizzata o meno che siano, come nel caso delle apposite confraternite) e soprattutto delle donne devote che, per così dire, gravitano intorno alla custodia degli abiti, alla vestizione e alla cura della statua. Sono proprio queste ultime che, come moderne vestali, dedicano una parte importante della propria vita al servizio della loro “specialissima signora”. Sono loro che si fanno carico di tutto quello di cui la loro santa Vergine protettrice ha bisogno, e a questo proposito mi sembra molto significativo il fatto che in alcune zone della Spagna, le donne che vestono la Madonna sono chiamate con il titolo di camareras, ovvero sono le sue cameriere.[30]

Vestire la Madonna è un po’ come accudirla. Le donne che se ne occupano sentono di godere indubbiamente di un onore eccezionale – questo è emerso chiaramente durante la ricerca – E’ come se avessero una piccola, ma altamente significativa, attribuzione di potere da esercitare all’interno della comunità locale. Nel servizio che compiono, intriso di una forte tensione emotiva e spirituale, è come se avessero un mandato, quello di rappresentare l’intera comunità dei fedeli che ha fatto loro delega di questo compito. Esse, più o meno consapevolmente, sono l’espressione di questa comunità, ad esse molti individui si rivolgono per chiedere, per esprimere desideri, per sollecitare forme di scambio.

Queste donne sono in qualche modo l’espressione della volontà di contatto diretto con il sacro. Un contatto diretto che rende possibile un rapporto , che lo struttura e lo carica di molti contenuti su diversi piani. Se la brama del devoto è quella di avvicinarsi il più possibile a Dio, alla Madonna e ai santi, ovvero di cercare il più possibile di avere un  contatto fisico con i luoghi sacri, con le sacre reliquie, con gli oggetti e con le immagini (di qui il pellegrinaggio come strumento principe di annullamento della distanza e come paradigma di purificazione e di salvezza per il fedele, che, per suo tramite, cancella ogni spazio fisico che materialmente lo separa dal contatto diretto) possiamo interpretare che durante il rito della vestizione, la vicinanza del proprio corpo con quello che è ritenuto essere della Madonna possa essere vissuto come un privilegio inarrivabile ai più, con una ricaduta notevole in termini di benessere, per così dire, spirituale.

E’ come se si attuasse un processo di rigenerazione e di rinascita. E’ quella che Peter Brown ha chiamato terapia della distanza, riprendendo e rielaborando un’espressione che Alphonse Dupront aveva coniato per il pellegrinaggio[31] e avvisandoci che sin dall’antichità questa modalità di rapporto fisico-corporeo con la sfera del sacro veniva perseguita con tutti i mezzi.

La tensione accuratamente mantenuta tra distanza e vicinanza assicurava un fatto: la ‘praesentia’, la presenza fisica del santo, sia all’interno di una comunità particolare sia come possesso dei singoli individui, era la massima benedizione di cui potesse godere un cristiano tardoantico. (…) I devoti che si accalcavano fuori Roma presso il sepolcro di San Lorenzo, per chiederne la grazia o per posare il capo vicino alla sua tomba, non andavano semplicemente in un luogo; andavano in un luogo per incontrare una persona (…).[32]

Il contatto diretto dunque è un elemento che assume una sua centralità nelle pratiche del devoto, un contatto che riguarda anche quelle che vengono percepite come reliquie. Per esempio ci è stato ampiamente testimoniato in più casi che il fazzoletto della Madonna, portato in mano dalla Vergine Addolorata, veniva portato alle donne partorienti per essere applicato sul ventre gravido.

In questo senso il rito della vestizione può essere visto per lo meno sotto due aspetti: da un lato, in maniera più o meno consapevole da parte di chi lo compie, può costituire una sorta di implicita rivendicazione di un rapporto diretto privo di mediatori ufficiali: il devoto è insieme protagonista e gestore delle proprie pratiche rituali e nessuno può intervenire a limitare o a indirizzare o a guidare, e su questo versante si comprende bene l’attitudine tendenzialmente ostile delle gerarchie ecclesiastiche che hanno sempre visto con sospetto ogni forma di autonomia proveniente, per così dire, dal basso.

Dall’altro lato può anche essere interpretato come una affermazione, altrettanto implicita, di una specie di diritto di proprietà (esplicita e dichiarata, come abbiamo visto sopra, nei cosiddetti culti domestici). E anche qui la longa manus delle diocesi è spesso intervenuta per tentare di controllare-sanare-eliminare situazioni giudicate come pericolose e anomale.

In molte interviste è emerso piuttosto chiaramente che chi accudisce la Madonna la sente un po’ come se fosse sua. Anche se non viene detto esplicitamente (perché si sa che non è vero e che non può per nessun motivo essere vero, si sa che la Madonna non può essere legata a fattori di proprietà: la Madonna è di tutti coloro che le sono devoti e non può essere altrimenti), tuttavia il sentimento sorge spontaneo e quasi automatico, attiva energie positive, sviluppa una inusuale capacità di dedizione e si va a mescolare con l’alto senso di responsabilità che deriva dal compito assunto. I fedeli sentono di appartenere alla Madonna e dunque la Madonna in qualche modo appartiene ai fedeli, a maggior ragione a quelle persone che la curano perché sono state investite di questo mandato, oneroso e però altamente gratificante.

I campi tematici che si aprono a chi vuole analizzare  il rituale della vestizione delle statue sono veramente numerosi, come hanno più volte sottolineato Elisabetta Silvestrini e Riccarda Pagnozzato.

Tanto per citarne qualcuno: si va dal tema del simulacro e della funzione delle rappresentazioni visive nell’immaginario religioso, a quello del dono, e dello scambio simbolico, (tòpoi diventati classici per gli antropologi dopo gli studi di Marcel Mauss  e di Malinowski negli anni 20 e 30 del secolo scorso), ne viene coinvolto il variegato e complesso tema dell’abbigliamento e delle sue funzioni, così come quello degli ex voto, della concessione delle grazie, dei patronati, delle protezioni, dei miracoli; l’interesse si orienta inoltre sui culti pubblici e su quelli privati, con la particolare caratterizzazione data dai culti domestici; si va dal tema del rapporto con la divinità a quello del concetto di persona umana, con tutte le connessioni che si generano, come abbiamo visto, attraverso il contatto del corpo umano con il sacro. Certamente è individuabile anche uno spazio di riflessione sulla funzione del rituale oggi, alla luce delle considerazioni che si possono fare su questo specifico tipo di rituale.

Oltre a ciò, va aggiunto che una analisi antropologica non può – a mio avviso – prescindere da un avvicinamento ai vissuti delle operatrici e degli operatori. L’analisi deve di necessità prendere in esame, direi imprescindibilmente, le biografie dei protagonisti. In questa direzione va segnalato il prezioso lavoro di Riccarda Pagnozzato svolto con grande profondità e sensibilità[33].

Il rituale è per sua stessa definizione dotato di uno statuto polisemantico, del resto, e questo non fa eccezione. Mi riecheggiano le parole che concludevano un mio saggio di diversi anni fa e che mi sembrano ancora oggi di attualità:

Il rituale è non solo in grado di assorbire le trasformazioni che nel tempo la storia vi sedimenta; esso è capace di farsi parte attiva nel cambiamento. Ad esso possono essere affidati desideri, speranze, innovazioni, utopie; può essere parte fondamentale nella costruzione di modelli identitari che sempre più oggi le comunità locali perseguono, spesso in contrapposizione ai pervasivi modelli omologanti imposti da chi misconosce la ricchezza che proviene dalla differenza e il valore che da essa si può sviluppare.[34]

I piani di significato investiti sono veramente numerosi.  L’analisi deve dotarsi di strumenti molto affinati da usare con grande pazienza. La lunga durata della ricerca deve essere messa in preventivo. In questo caso, come in altri, non può non prefigurarsi un processo fatto di numerosi ritorni sul campo, di messe a punto, di acquisizioni continue, di scavo minuzioso dentro un oggetto di studio da concepire come sistema di comunicazione simbolica e come creazione culturale elaborata e complessa.

 

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R. Luzi, Valentano Santuario della Madonna della Salute, Grotte di Castro (VT), Tip. Ceccarelli, 1999.

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E. Silvestrini, (a cura di), Artisti icone simulacri. Per un’antropologia dell’arte popolare, “La Ricerca Folklorica” n. 24, ottobre 1991.

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E. Silvestrini, Le effigi “da vestire”. Note antropologiche,in L. Bortolotti, 2005.

E. Silvestrini, Abiti e simulacri. Itinerario attraverso mitologie, narrazioni e riti, in R. Pagnozzato, 2003, pp. 15-65.


[1] L’elaborazione di questo testo per gli atti del Convegno di Capranica è avvenuta simultaneamente alla stesura di un mio altro saggio sul medesimo argomento dal titolo Etnografia delle vestizioni dei simulacri mariani,  per la rivista Erreffe (La Ricerca Folklorica), edita a Brescia da Il Grafo per il numero di prossima pubblicazione, curato da Elisabetta Silvestrini. Inevitabili e  numerosi i punti di contatto nell’elaborazione e le similitudini tra le argomentazioni dei due testi.

[2] Cfr.  B. Mancini, …Et lascio alle confraternite di Onano, Comune di Onano (VT), 1996.

[3] Ivi, p. 148.

[4] A. MARCOVECCHIO, Il culto delle statue vestite a Roma in età pontificia, in La Ricerca Folklorica, n. 24, Il Grafo, Brescia, 1991, pp. 63-71.

[5] R. PAGNOZZATO, Profilo storico del simulacro ligneo “da vestire”, in R. PAGNOZZATO (a cura di), Madonne della laguna. Simulacri “da vestire” dei secoli XIV-XIX, Regione del Veneto e Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1993.p. 105. Cfr. anche R. PAGNOZZATO ( a cura di), Donne, Madonne, dee. Abito sacro e riti di vestizione, gioiello votivo,”vestitrici”: un itinerario antropologico in area lagunare veneta, Padova, Il Poligrafo, 2003.

[6] M. Kilani, Antropologia. Un’introduzione, Bari, Dedalo, 1994, (ed. or. 1992), pp. 37-38.

[7] Tra le tante possibili, mi limito a tre segnalazioni riportate nella bibliografia in fondo a questo scritto.

[8] Una prima iniziativa, purtroppo restata isolata, avvenne nel dicembre 2000-gennaio 2001, quando l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Viterbo (per mezzo del Centro di Catalogazione dei Beni Culturali e del Laboratorio Provinciale di Restauro) realizzò una mostra dal titolo “Mater Misericordiae. I Culti mariani nella Tuscia tra storia e devozione”.  Al suo interno ci fu una sezione sul tema delle cosiddette Madonne vestite la cui ricerca e il cui allestimento furono curati da chi scrive e da Dolores Leuzzi.

[9] Cfr. C. Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988, [ed. or. 1983], e anche C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1988, [ed. or. 1973].

[10] Il dattiloscritto è stato redatto dalla suddetta vestitrice Carla Iori in occasione di una mostra allestita in parrocchia sulla Madonna del Carmelo nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso.

[11] Dall’intervista a Carla Iori, effettuata l’8 marzo 2004 da Marcello Arduini e Paolo Fortugno. Cfr. P. Fortugno, Riti di vestizione delle statue mariane, tesi di Laurea Magistrale in Antropologia culturale, Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, 2004, Relatore Dr. Marcello Arduini, Correlatore Prof. Sandra Puccini.

[12] A. Fagotto, Il popolo ti canta. La Madonna del Rosario e Piansano, Comune di Piansano, 1998, p. 13.

[13] Idem, p. 38.

[14] Idem,  p.25

[15] Cfr. B. Mancini, R. Luzi, Valentano Luoghi e Tempi del Sacro, Valentano (VT), 1995, pp. 27-35.

[16] Dalla registrazione con un gruppo di donne e di uomini del Gruppo Archeologico Verentum realizzata a Valentano il 19 ottobre 2000 da Marcello Arduini e Dolores Leuzzi.

[17] Idem. La testimonianza è stata resa da Bonafede Mancini

[18] Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 1965, [ed. or. 1925]

[19] Idem

[20] Si tratta di un fenomeno assai diffuso nel Lazio e non solo. Cfr. V. Cannada Bartoli, Il santo in casa. Analisi di un rito in alcune feste della Sabina romana, tesi di dottorato di ricerca in Scienze etnoantropologiche, VI ciclo, Università degli Studi La Sapienza di Roma, 1997.

[21] Registrazione del 12 gennaio 2000  a cura di Marcello Arduini e Attilia Profili. I brani che seguono sono riportati dalla medesima situazione. La trascrizione dell’intervista  è stata effettuata da Paolo Fortugno.

[22] Si riferisce ad una statua della Madonna del Rosario di proprietà della famiglia Ferruzzi che è stata acquisita dal MNATP nel 1997. Lo studio e la musealizzazione sono stati curati  da Elisabetta Silvestrini che ha anche organizzato un seminario  intitolato “Le Sacre Vesti” il 18 aprile del 1997, con la partecipazione di Riccarda Pagnozzato, Gianpaolo Gri, Chiara Basta, Carla Bianco, Pietro Clemente e Anna Mavilla, Luigi M. Lombardi Satriani, Marlène Albert -Llorca e la stessa Elisabetta Silvestrini.
Dalle notizie  del seminario fu reso noto che si tratta di un simulacro della Vergine col Bambino databile nel XVIII secolo, con un corredo di quattro abiti (tre del Settecento e uno dell’Ottocento) interamente restaurati. Veniva esposto e portato in processione durante le celebrazioni mariane dalla Confraternita del Rosario che aveva sede presso la Chiesa Collegiata di S. Nicola.
Durante l’anno la statua e il suo corredo venivano affidati in custodia ad un membro della Confraternita, la cui famiglia provvedeva a tenerla in casa con tutti gli onori, designando come responsabile una donna della famiglia, detta “camerlenga”.
Ogni anno il privilegio toccava ad una famiglia diversa. Intorno al 1855 il simulacro non venne più accettato in chiesa e allora rimase in via permanente presso la casa della famiglia Ferruzzi, che attraverso generazioni successive, provvide a curarla e a preservarla, così come è stata poi rinvenuta in tempi recenti quando è stata acquisita dal Museo Nazionale. (Cfr. anche il mio M. Arduini, 1999, pp. 22-23).

[23] A. Niero, p. 74

[24] Il convegno, organizzato dal CIRIV (Centro interdipartimentale di ricerche sul viaggio) nel febbraio 2010,  si intitolava “Immagini d’identità della Tuscia. Il territorio, i viaggi, la cultura”. Sono in corso di stampa per i tipi di Sette Città , casa editrice di Viterbo, gli Atti  a cura di Stefano Pifferi, all’interno dei quali  cfr. M. Arduini, S. Puccini, Frammenti e mosaici. Tra luoghi, memorie e tradizioni della Tuscia.

[25] Il concetto di identità culturale è assai controverso e dibattuto in ambito antropologico e non solo. Generalmente viene usato con grandi cautele e ne è stato mostrato il carattere ideologico. Qui mi limito, tra i tanti possibili,  a segnalare solo alcuni importanti contributi (Remotti, Fabietti, Bauman) nei riferimenti bibliografici.

[26] Cfr. E. J. Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione,Torino, Einaudi, 1987 (ed.or. 1983).

[27] Cfr. J.L. Amselle,Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri,1999 [ed. or. 1990] e G. Lenclud, La tradizione non è più quella di un tempo, in P. Clemente e F. Mugnaini (a cura di), Oltre il folklore: tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001, pp. 123-133.

[28] E. Silvestrini, 2003, p. 18)

[29] Indubbiamente negli ultimi tempi l’approccio degli studiosi deve aver sortito un effetto valorizzante, per cui in molte situazioni regionali italiane hanno avuto luogo iniziative di diverso tenore volte alla salvaguardia e alla tutela di queste effigi. A titolo d’esempio valga il convegno di Ferrara del 2005 di cui si riporta segnalazione nella bibliografia.

[30] M. ALBERT-LLORCA, La Vierge mise à nu par ses chambrières, in CLIO, Histoire, Femmes et Sociétés, 2/1995, femmes et Rèligions, Universitè de Toulouse-Le Mirail, 1995, pp. 201-228.

[31] Cfr P. Brown, Il culto dei santi, Torino, Einaudi, 1983 (ed. or. 1981), pp. 121 e segg.

[32] Idem, p.124

[33] R. Pagnozzato, 2003.

[34] M. Arduini, 1999, pp. 27-28

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