Viterbo LA STORIA DI VITERBO
Mauro Galeotti



Lo Statuto di Viterbo del 1251 (Foto Sergio Galeotti)

La Storia di Viterbo è una rubrica periodica nata da un’idea di Saggini Costruzioni e Mauro Galeotti con l’obiettivo di ricordare e raccontare il patrimonio della città di Viterbo. Ogni quindici giorni vi racconteremo ciò che ha reso la nostra città così bella.
Continuiamo dalla base di una convivenza civile, ossia dallo Statuto di Viterbo, quello del 1251.
Il precedente articolo Saggini Costruzioni e la Storia di Viterbo: Le curiosità nello Statuto di Viterbo del 1237

Statuto di Viterbo del 1251

Lo Statuto di Viterbo del 1251, alla sezione terza Extraordinaria, rubrica 27, stabilisce che la città è suddivisa in quattro quartieri corrispondenti al nome di una porta urbana, a cui facevano capo le contrade delle chiese per ognuna nominate.

Eccole.
Porta di san Lorenzo:
la Valle, san Lorenzo, san Tommaso, san Salvatore e Pianoscarano.
Porta di san Pietro:
san Pietro dell’Olmo, da cui deriva il nome, santa Maria Nuova, san Vito, sant’Antonino, san Giovanni in Pietra, san Leonardo, san Bartolomeo, san Fortunato, sant’Erasmo e san Pellegrino.
Porta di san Sisto:
san Sisto, san Matteo dell’Abate, san Niccolò delle Vascelle, san Giovanni in Zoccoli, san Simeone, san Biagio, san Martino, san Giacomo e santa Croce dei Mercanti.
Porta di san Matteo in Sonsa:
san Marco, san Luca, san Pietro del Castello, di sant’Angelo, san Faustino, Piano del Filello, santo Stefano, sant’Angelo in Spatha, santa Maria in Poggio, san Quirico e sant’Egidio.

Questa suddivisione di quartieri aveva sempre la sua valenza, ma quando si verificavano casi di estremo pericolo, la città doveva suddividersi in solo due quartieri al fine di avere maggiore coesione, ed erano quello di sant’Angelo, formato dalle contrade corrispondenti alle Porte san Sisto e san Matteo, e quello di santa Maria che vedeva riunite le contrade dalle Porte san Lorenzo e san Pietro dell'Olmo.

Per le mura, lo statuto stabiliva che dovevano essere nominati quattro balivi super fortilitiis; due provenienti dalla popolazione e due dalla granditia. Questi duravano in carica sei mesi e dovevano collaborare con i sindaci nel controllo delle mura, delle porte e delle torri.

Qualora il podestà non avesse svolto il mandato impostogli dal Consiglio, sarebbe stato punito con un’ammenda di cinquanta libbre da destinare al restauro delle mura e, come nel 1237, le rendite dei castelli venivano impiegate per le mura.

Il notaio comunale, nella formula del giuramento, dichiarava che se non avesse svolto i suoi doveri avrebbe pagato venti lire senesi da destinare alle mura.
I sindaci invece, che duravano in carica sei mesi, soprintendevano alla cura e restauro delle mura, delle torri, delle carbonare e delle riserve d’acqua. Se non svolgevano diligentemente le disposizioni erano puniti con cinquanta libbre. Stessa punizione veniva comminata se non rendevano conto del loro operato; la somma veniva devoluta per le spese relative alle mura.

Altre punizioni venivano inflitte agli ufficiali comunali qualora non avessero rispettato le decisioni dei balivi in merito ad eventuali ricorsi della popolazione sul loro operato. Infatti, il podestà doveva pagare un’ammenda di cento libbre, il giudice cinquanta, il tabellio e altri impiegati venticinque.

Tutte le somme venivano devolute per sostenere le spese delle mura. Inoltre il podestà, il notaio, il giudice ed i militi avevano, tra l’altro, l’obbligo di controllare la sicurezza delle porte, delle torri e delle mura cittadine. I giudici, che non avessero emesso sentenza entro quaranta giorni dalla denuncia, dovevano pagare venticinque libbre di denari paparini, da destinare alle mura.


Il podestà, il console e la curia non dovevano consentire ai forestieri di abitare in case ubicate a ridosso delle mura, pena cento libbre da destinare alle riparazioni della cinta muraria. Ciò era stabilito per non offrire al nemico possibili e facili punti di appoggio, per accedere nella città senza controllo. Inoltre era loro proibito dimorare nelle case poste sotto la giurisdizione di san Martino, di san Fortunato, di san Sisto, dei santi Giovanni e Vittore e in quella di santa Maria di Fallari. Quest’ultima, secondo Giuseppe Signorelli, era dei monaci Cistercensi i quali, venuti a Viterbo, avevano una cella conosciuta sotto questo nome.

Un imputato, assolto per i fatti accaduti nel 1247, non poteva essere più condannato; chi non osservava tale disposizione doveva pagare duecento libbre da utilizzare per le mura. I forestieri non potevano acquistare una casa se non era ubicata almeno a un tiro di sasso dalle mura castellane: iactum lapidis; ciò per motivi di sicurezza.

Il podestà veniva punito con il pagamento di cinquanta libbre, da devolvere alla ricostruzione delle mura, se questi non avesse nominato un curatore che provvedesse alla gestione del patrimonio di coloro che superavano le cento libbre; stessa pena era inflitta a coloro che avessero sperperato i loro averi nel gioco o altro modo non confacente.
Chi entrava in città con ortaggi era soggetto ad un’ammenda di cento marchi d’argento da impiegare per le mura.

Le torri della cinta muraria erano sotto l’attenzione di custodi i quali dovevano riferire qualsiasi anomalia; se qualcuno di questi era poco affidabile il podestà poteva sostituirlo.

In tutte le porte della città era fatto obbligo di collocare una o due catene, secondo la necessità, al fine di impedire il transito di animali rubati. Ogni porta era sorvegliata, tutto il giorno e tutta la notte, da due custodi, i quali potevano trattenere per loro la metà di quanto ricavavano da quel servizio. L’altra metà doveva essere versata alla Comunità. Questi custodi venivano esentati dal servizio militare, dalle cavalcate e da ogni tipo di imposta, inoltre, venivano sostituiti annualmente e se ricevevano ingiurie, chi li offendeva doveva pagare il doppio delle pene ordinarie. Era ovviamente proibito arrecare danno alle mura ed era vietato costruire vicino alle torri.

Almeno quattro volte l’anno il podestà doveva effettuare una visita alle torri, alle mura e ai barbacani per valutarne lo stato di integrità; se ravvisava l’opportunità, per l’esecuzione di qualche sistemazione, le spese dovevano essere affrontate dai proprietari dei barbacani medesimi.

Anche nel 1251, come nello Statuto del 1237, in caso di omicidio volontario, era prevista una ammenda di duecento libbre che venivano divise a metà tra il Comune ed i parenti dell’ucciso. Vigevano, poi, le stesse norme che ho già riferito in favore delle mura. Era proibito scalare le mura per oltrepassarle, chi lo avesse fatto di giorno pagava un’ammenda di dieci libbre di denari paparini, di notte la pena saliva a cinquanta libbre. Inoltre, non era consentito praticare fori o aprire porte nelle mura, chi trasgrediva doveva pagare un’ammenda di venticinque libbre e, ovviamente, l’obbligo di ripristinare il danno arrecato alle mura.

In merito alle carbonare i proprietari dei terreni, che si trovavano nel raggio di mezzo miglio dalle mura, dovevano scavare intorno alla città, per difesa, fossati larghi quattro piedi e profondi sei. Inoltre, le strade che li oltrepassavano dovevano essere costruite sopra di essi verso le mura.

Era consentito scavare le carbonare per aumentare la loro profondità e quindi la difesa della città; nessuno poteva opporsi allo scavo, era comunque proibito estirpare i cespugli spinosi ed i rovi che si trovavano nel fossato, pena dieci soldi.
Venivano scavate a spese delle contrade. Ad esempio la carbonara delle Pietrare era posta a carico degli abitanti della Contrada di sant’Angelo i quali, nel 1291, in fase di ampliamento, ordinarono i lavori a Gianni Zono. Doveva essere profonda due metri e mezzo e larga quattro.

Ancora devoluta alle mura era l’ammenda che doveva pagare il console, il giudice, il camerario o il notaio che avesse offerto danaro per essere eletto. Corruttore e corrotto dovevano pagare cinquanta libbre che si riducevano a venticinque se confessavano spontaneamente.

Il portonarius, ossia il portinaio, era responsabile dell’ingresso alla città a lui affidato. Di notte la porta veniva chiusa e il portinaio doveva evitare che uscissero o entrassero in città persone o cose sospette. Era sua facoltà di fingersi complice del ladro, per poi avere certezze del reato nel denunciarlo. Chi mancava pagava cento soldi. Se qualcuno opponeva resistenza alle intimazioni del portinaio, oppure forzava la porta, era punito con un’ammenda di dieci libbre, se era un milite; cento soldi se era un fante, ciò a discrezione del podestà, del console o del suo conestabile.

Dovere del podestà e del console era quello di conservare le mura e di difendere gli oggetti che erano sui barbacani. Chi avesse distrutto o tolto pietre ai barbacani o alle porte doveva pagare venti libbre, la stessa pena era inflitta al ladro il quale era obbligato a rifondere il danno. Se una porta della città veniva scardinata, la spesa per riattivarla, doveva essere affrontata dagli abitanti della contrada nella quale era la porta.

E ancora altre proibizioni. Non era consentito acquistare il Palazzo dei conti Ildibrandini, posto sulla Piazza san Silvestro, chi lo avesse fatto sarebbe stato punito con dieci libbre di denari paparini da devolvere alle mura.
Era proibito al podestà, al console, al giudice e ad altri incaricati del Comune di ricevere altro compenso oltre quello comunale, chi trasgrediva doveva pagare cinquanta libbre da utilizzare per le mura.

Se la guardia alla città non era svolta secondo le norme, i militi dovevano pagare dieci soldi, i fanti cinque soldi. Se veniva fatta adeguata giustificazione dell’inadempienza la pena poteva essere annullata. Il podestà, il console e i conestabili dei cavalli potevano consentire la vendita dei cavalli morti, ma se c’era stata negligenza da parte loro, dovevano pagare un’ammenda di cinquanta libbre, da devolvere alla costruzione delle mura.


Una nota curiosa! Un cittadino, nel 1404, volle costruire unum cessum fra le mura e casa sua per consentire allo scarico di quel gabinetto di entrare nel torrente sottostante le mura stesse, il Comune approvò.

Mauro Galeotti
da L'illustrissima Città di Viterbo

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