Viterbo LA STORIA DI VITERBO
Mauro Galeotti

Lo Statuto di Viterbo del 1469

Nello Statuto di Viterbo del 1469 si stabiliva, in merito alle mura, che i preposti alle porte, alle torri e alla città avevano i seguenti compensi.

Ai custodi delle porte, che erano di solito due, competeva un salario di due fiorini e mezzo al mese, i torrieri, invece, erano preposti alle torri e incassavano due fiorini d’oro al mese, quello preposto alla custodia della torre comunale aveva un appannaggio di quattro fiorini.

Se qualcuno provava a modificare il contenuto delle rubriche dello Statuto, o altra sua parte, era punito con duecento libbre di ammenda da destinare alle mura. 

Se non poteva pagare tale somma, gli veniva tagliata la lingua.

Chi contestava gli articoli dello Statuto doveva pagare duecento libbre, metà della pena veniva data al denunciante, se esisteva e se era persona credibile e di fede.

Venivano eletti, ogni sei mesi, quattro persone del popolo ed un notaio che dovevano soprintendere alla manutenzione delle mura, avevano l’obbligo di visitare le mura ogni mese provvedendo al rifacimento ove necessitava. Sempre ogni sei mesi dovevano essere eletti gli ufficiali che avevano il compito di mantenere funzionali le carbonare. 

Gli ufficiali erano: due del popolo, due de granditia e un notaio. Entro il primo mese dall’incarico il podestà e quattro ex priori dovevano far pulire e riparare quelle carbonare che ne avessero avuto necessità, pena venti libbre agli ex priori.

In caso di omicidio premeditato erano dovute cinquecento libbre divise tra il Comune ed i parenti della vittima, i quali se non si conciliavano con l’omicida entro un anno, perdevano la loro parte. Come d’altronde negli statuti precedenti.

Il portinaio era obbligato ad arrestare gli uomini disonesti, se non lo faceva veniva punito con cento soldi di pena. Pagava invece dieci libbre il nobile che usava violenza verso il portinaio stesso, cento soldi se era un popolano.

Era proibito scavalcare le mura della città con scale o altro modo senza il permesso del podestà, dei priori o dei gonfalonieri. Se l’infrazione era fatta di giorno l’ammenda era di venticinque libbre, se era di notte cinquanta.

Invece, qualora l’ingresso non consentito, avveniva attraverso una porta la pena era di dieci soldi. Qualsiasi foro, che fosse stato aperto nella cinta muraria, doveva essere chiuso a cura degli abitanti e non era consentito ospitare forestieri dentro la città, pena cento libbre d’ammenda.

Nelle carbonare era proibito scagliare frecce, pena quaranta soldi di ammenda e sopra ai barbacani era vietato il pascolo, che era consentito solo a capre e pecore, pena venticinque soldi. Il podestà doveva, inoltre, sequestrare tutti quegli animali a cui era proibito il pascolo e farli condurre al macello.

I proprietari dei barbacani, se non più funzionali, erano tenuti a ripararli, in caso contrario subivano una pena di cento libbre. Le finestre aperte sulle mura dovevano essere chiuse, pena dieci libbre paparinorum. Infine, lo Statuto stabiliva, per maggiore sicurezza, che dovevano essere acquistati dalla Comunità e demoliti tutti gli immobili addossati alle mura, al fine di poter realizzare una libera circolazione, ampia otto piedi, ossia circa tre metri, sul lato interno delle mura stesse.

Come visto, tante furono le accortezze usate dagli amministratori per salvaguardare quella che venne considerata la principale difesa della città, ma ci vorranno oltre centosettanta anni perché Viterbo abbia la sua cinta muraria completata, di circa cinque chilometri, tra cortine, torri e porte.

La cerchia delle mura di Viterbo è ben rappresentata nelle stampe d’epoca, ma lo è anche in pittura, infatti, nella Chiesa di san Francesco si conserva la tavola ad olio del 1572: Fatti d’arme occorsi a frate Marco da Viterbo, cappuccino. In essa è la Città di Viterbo, vista a volo d’uccello, dove si distinguono la Rocca Albornoz verso l’alto a destra, le mura e le torri merlate, le porte con antiporta e il barbacane. Una magnifica ed unica immagine che dà la precisa raffigurazione della città fortificata, stretta in se stessa, pronta a sopportare qualsiasi offesa esterna.

Tra le altre piante che rappresentano la città, innanzi tutto, è da esaminare quella nella Sala regia del Palazzo dei priori, realizzata in affresco, terminata nel 1589. E’ la Viterbo etrusca, suddivisa in quattro castelli Fanum Voltumnae, Arbanum, Vetulonia e Longula, dove le mura sono in parte merlate.

Una pianta ben più precisa venne realizzata nel 1596 da Tarquinio Ligustri, nato a Viterbo ai primi di Agosto 1564, come mi informa l’amico Noris Angeli, nella quale le mura sono raffigurate prive di merli a causa, ovviamente, delle riscontrate difficoltà di realizzazione.
La stampa a volo d’uccello di Viterbo del 1626 di Iudoco Hondio, Iudocus Hondius, nell’opera Nova et accurata Italie hodiernae descriptio, è molto schematica.

Un’altra pianta della città venne realizzata, nel 1680, ad Amsterdam da Pierre Mortier; le cortine e le torri sono senza merli che dovevano essere, per lo più, di tipo guelfo, considerando la costante presenza pontificia. Anche la Rocca, costruita dal cardinale Gil Alvarez Carrillo de Albornoz (1310 - 1367), più semplicemente Egidio Albornoz, doveva logicamente essere difesa da merli alla guelfa, sebbene in una stampa, tratta dal libro di Feliciano Bussi († 1741), è rappresentata con merli ghibellini. Infatti, su un prospetto all’interno della Rocca, nel rialzare il muro, furono inglobati stemmi guelfi che ben si notano da Via del Pilastro.

Un’altra bella pianta, a volo d’uccello, è quella di De Witt del 1725, derivante da quella del Ligustri.

Le uniche merlature ghibelline si trovano sul fronte delle Porte Romana e della Verità, probabilmente per solo utilizzo decorativo essendo state realizzate, la prima nel XVII secolo e l’altra nel XVIII.
Le porte erano difese dalle caditoie, come quella di san Sisto che, già nel 1460, l’aveva in legno, come riferisce il cronista Niccolò della Tuccia.

Non era trascurabile la funzione delle feritoie, fessure ricavate nelle mura, che consentivano un’ottima difesa colpendo gli assalitori, restando ben protetti. Venivano suddivise: in feritoia arciera, per i tiri con l’arco; balestriera, per la balestra e archibugiera, per l’archibugio.

A Viterbo, ancora oggi, si trovano sulla base dell’abside della Chiesa di san Sisto, feritoie per arco databili tra il XII e il XIII secolo. Quelle più numerose, per l’archibugio, sono sui merli del Palazzo Pamphili a san Pietro e sulla Rocca Albornoz. 

Poi, sempre alla Rocca, sono alcune feritoie per il cannone, per il fucile e per l’avvistamento. Dell’uso di triboli e bombarde a Viterbo si ha menzione nel 1374, dal cronista Niccolò della Tuccia.

Invece da una pergamena del 1204 si ha notizia di mastro Guglielmo, balestraio, che dichiara di aver ricevuto dal camerario comunale la metà di quanto dovutogli per aver costruito e accomodato le balestre del Comune.

Mauro Galeotti

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