Viterbo STORIA
Alessandro Gatti

La Chiesa di san Flaviano nel 1900 circa (Archivio Mauro Galeotti)

Quello della chiesa di San Flaviano in Montefiascone è definito dallo storico Carlo Fornari come uno degli esempi più antichi e rappresentativi dell’iconografia della morte presenti in Europa.

Un’atmosfera evocativa di come era visto il mondo nel pieno XIII secolo; tra epidemie e guerre che devastavano l’animo umano, già di per se fragile e volto alla caducità. Solitamente tre figure di nobile a cavallo che incedono, tra lo sfarzo della loro opulenza, per imbattersi in tre scheletri.

Le tre controfigure della prosperità e della ricchezza, le immagini di ciascuno di noi riflesse nello specchio del futuro. “Noi siamo quello che voi sarete e voi siete quello che noi eravamo”. A questo punto l’arte iconografica, che nel medioevo fu la Bibbia per il popolo analfabeta, si fonde e confonde con la poetica, e lo fa a tal punto che risulta difficile stabilire se il tema dell’incontro tra i tre vivi e i tre morti avesse incontrato prima un approccio scritto o iconografico. Sta di fatto che ha subito svariate trasformazioni, tante quante il tema della morte stesso.

Impresso sui dipinti di famose chiese medievali europee, quali San Flaviano a Montefiascone, la chiesa di Santa Margherita a Melfi, Sant’Ambrogio a Torino, la Cattedrale di Atri, il Camposanto a Pisa, l’Abbazia di Vezzolano ad Albagnano ed anche altre, il tema dei tre vivi e i tre morti lo si legge anche nelle miniature lasciateci da svariati ordini monastici.

Se in età antica e gli antichi, come sostiene anche lo psicanalista Raffaele Morelli, conoscevano l’anima come nessun altro, la morte era vista come una trasposizione precisa della vita nel mondo terreno in una vita nel mondo ultraterreno, nel Rinascimento essa è vista come il macabro. Nel rinascimento la morte assume connotazioni spiccatamente negative poiché rappresenta la fine della vita. Nel Medioevo, invece, sta la via di mezzo. La morte è il monito, l’avvisaglia, nonché destino ineluttabile di qualunque essere umano. In quella che gli storici hanno voluto definire età di mezzo non vi è bello o brutto, non vi è positivo o negativo, vi è un’esistenza condotta in miseria.

A questo punto l’uomo medievale deve dare spiegazione alla sofferenza umana e lo fa attraverso la via dell’espiazione e della punizione. In questo contesto spiccatamente oscurantista i tre scheletri incontrano tre ricchi nobili a caccia e ricordano loro che la ricchezza conduce alla morte. Se tutti soffrivano l’inedia quei pochi ricchi, all’infuori dei prelati illuminati da Dio, erano condannati all’inferno poiché corrotti dal benessere. Gli antichi rappresentavano la morte nell’arte funeraria, la morte era il prosieguo della vita e quindi era raffigurata nei luoghi destinati alla morte. Nelle piramidi egizie, ad esempio, erano raffigurate scene di vita quotidiana che prevedevano l’incontro con l’aldilà. Nelle tombe etrusche, invece, nei luoghi di sepoltura quasi mai è rappresentato un elemento ultraterreno.

Questo perché per gli Etruschi la morte era come la vita e nelle loro tombe affrescavano aspetti legati al vissuto di tutti i giorni; dalla tauromachia, alla coltivazione della vigna, alle scene di caccia. Se vogliamo gli Egizi nella loro rappresentazione, solo per citare un esempio, del Dio Anubi che pesa il cuore di un defunto con una piuma per valutarne le gesta, mettevano insieme il vivo con l’aldilà. In questo gli Egizi sembrano anticipare il Medioevo e a differenza degli Etruschi mostrano una differente visione del rapporto tra mondo terreno ed oltretomba.

Si rimanda il significato delle rappresentazioni all’intento della morte di ispirare i vivi alla meditazione, sulla scia di una filosofia antica orientale. Secondo una tradizione araba il poeta Adi, vissuto verso il 580 d.C., avrebbe detto

rivolto a Noman, Re di Hira, che cavalcava assieme a lui nei pressi di un cimitero: «Che la sventura

rimanga lontana da te! Conosci tu il messaggio di questi morti?». Ed enunciò compiutamente la

frase destinata ad essere presente in vari monumenti funebri e macabri contesti: «Noi fummo ciò che

voi siete, voi sarete ciò che noi siamo!»

Nell’esempio dei tre vivi e dei tre morti di San Flaviano, come anche in altri, uno scheletro rimane all’interno del feretro e questo a significare l’intento pedagogico-meditativo dell’esperienza tra il vivo ed il cadavere, la cui sola vista dovrebbe indurre a riflessione mistica. Questa tipologia, adottata a Montefiascone, Melfi, Albugnano e Fossanova, è di tipo italiano, mentre quella che la studiosa Carla Frugoni definisce di tipo francese vede tre figure cadavere rette in piedi e intente ad avere una interazione surreale con i vivi. Nella seconda modalità il dialogo e l’incontro è più dialettico e meno introspettivo.

Al di là di molteplici versioni o interpretazioni passa il messaggio di come il tema della morte si sia evoluto nel corso delle epoche e di come sia passato da una sfera quasi giocosa e assolutamente normale, ad essere temuto con macabra reverenza. Ricordiamo che le popolazioni mediterranee avevano con la morte un rapporto sano, gli Etruschi riempivano le loro tombe di oggetti della vita terrena per accompagnarsi durante il passaggio, i Greci e gli Spartani la vedevano come un’occasione di gloria ed il poeta romano Marco Pacuvio celebrava ogni giorno il suo funerale perché in esso moriva e rinasceva ogni giorno. Dal Medioevo ad oggi abbiamo iniziato a temere la morte ed è forse questo il massimo sintomo di una cronica involuzione.