Villa san Giovanni in Tuscia STORIA
Micaela Merlino

Agli Etruschi piacevano i miti greci, racconti pieni di avventure e di lotte, dove la fortuna si alternava alla sventura, aventi come protagonisti eroi audaci e coraggiosi, ma anche vulnerabili, divinità benevole, ma più spesso invidiose e vendicative, ed esseri umani dalle facoltà particolari o eccezionali, impegnati in imprese rischiose. Questo patrimonio mitico straniero era veicolato anche dal vasellame e da altri oggetti prodotti in Grecia, che attraverso i commerci giungevano in Occidente e i cui acquirenti privilegiati erano gli aristocratici etruschi.

I vasi dapprima venivano utilizzati nelle case, come vasellame da mensa e soprattutto in occasione dei banchetti, poi parte di esso era rifunzionalizzato a scopo funerario come corredo dei defunti, trovando una nuova collocazione e un nuovo significato all’interno delle tombe, quale indicatore del rango sociale e della ricchezza dei personaggi lì sepolti. Le prime testimonianze in Etruria di questi racconti “stranieri”si trovano in raffigurazioni di vasellame da mensa e in grandi contenitori di derrate di produzione locale, databili in Età Orientalizzante (VII secolo a.C.).

La saga greca più antica che si diffuse in Etruria fu quella delle gesta di Odisseo (Ulisse) e dei suoi compagni nel lungo nòstos (viaggio di ritorno) dalla Guerra di Troia, mentre solo successivamente le figurazioni vascolari rappresentarono anche episodi derivati dall’“Iliupersis” (Iliade).

Un’anfora attribuita al Pittore dell’Eptacordo mostra una delle prime scene riferibili al ciclo troiano, mentre su altri vasi, come ad esempio su un’anfora etrusco-corinzia, compaiono immagini riferibili all’agguato di Achille a Troilo. Una scena dell’ “Iliupersis” fu dipinta su un’oinochoe etrusco-corinzia rinvenuta alla metà del XIX secolo a Caere (Cerveteri), e attribuita al Pittore della Sfinge Barbuta. Con il tempo gli Etruschi apprezzarono anche miti collegati alla saga della Guerra di Troia, non narrati però nell’ “Iliade” bensì in altri poemi epici.

Da Vulci proviene una famosa anfora attica a figure nere attribuita al pittore ateniese Exechias, datata tra il 540 e il 530 a.C., conservata nel British Museum di Londra. Sul corpo di questo vaso è raffigurato un episodio che non compare nell’ “Iliade”, ma è raccontato in altre opere, quali l’“Aithiopìs” di Arktinos (prima metà del VII secolo a.C.): una monomachia (duello) tra l’eroe acheo Achille e Pentesilea, regina delle Amazzoni, figlia di Ares, il dio della guerra, e di Otrera.

Dopo l’uccisione del suo figlio primogenito Ettore per mano di Achille, il re Priamo chiamò Pentesilea per difendere la città dai Greci, e la regina arrivò a Troia insieme alle sue compagne. Si trattava di donne guerriere che vivevano in Asia Minore nei pressi del fiume Termodonte, dove avevano fondato la città di Temiscira. Fin dalla fanciullezza venivano addestrate alle armi, che utilizzavano nella caccia e nelle attività militari.

Per poter maneggiare l’arco con disinvoltura veniva loro tagliato il seno destro, secondo quanto raccontò Diodoro, tanto che il nome Amazzoni significava forse “senza mammella”.Vivevano in una società di tipo matriarcale dalla quale gli uomini erano rigorosamente esclusi, tuttavia periodicamente intrattenevano relazioni con i Gargarei, un popolo loro confinante, affinchè potessero concepire dei figli. Ma solo le femmine venivano portate a Temiscira e allevate, mentre i neonati maschi erano affidati ai Gargarei.

Già su uno scudo fittile di età sub Geometrica ritrovato a Tirinto compare questo duello, e sembra davvero essere la scena più antica finora conosciuta. Exechias scelse di dipingere il momento in cui il pathos del combattimento tra i due personaggi è al culmine: Achille sovrasta Pentesilea inginocchiata a terra, e le trafigge il petto con la lancia, mentre l’Amazzone in un gesto di disperazione volge il capo e lo sguardo verso il suo uccisore.

Secondo la leggenda greca, l’attimo in cui Thanatos (la morte) stava per rapire alla vita Pentesilea, coincise con il momento in cui Eros (l’Amore) s’impadronì violentemente dell’eroe greco. Egli, infatti, vedendo il suo bel viso, poiché l’Amazzone aveva l’elmo sollevato, e incrociando il suo sguardo triste e ormai languido, se ne innamorò all’istante. Troppo tardi, perché il ferro le era penetrato nella carne ferendola mortalmente, tanto che la regina spirò davanti ai suoi occhi. Allora Achille fu colto da una terribile angoscia, resa ancora più penosa da un grave senso di colpa.

E’ uno dei numerosi drammi d’amore di cui è ricca la mitologia greca, che raccontava storie infelici di sfortunati amanti, nella pessimistica convinzione che spesso i grandi amori finiscono in tragedia. Più tardi il duello tra Achille e Pentesilea, episodio che aveva avuto ed ancora aveva favorevole accoglienza presso l’immaginario degli Etruschi, fu riprodotto da artigiani locali come dimostra ad esempio uno specchio di bronzo da Vulci del 430 a.C. circa.

Sopra questo manufatto anche il nome etruschizzato dell’Amazzone “Pentasila”, contribuisce ad una corretta interpretazione della scena, e a Vulci fu rinvenuto pure un vaso sul quale la regina è raffigurata negli Inferi. Exechia fu ceramista (fabbricante) e ceramografo (decoratore di vasi) attivo in Attica tra il 550 e il 530-520 a.C., e la sua produzione fu molto apprezzata dagli Etruschi. Infatti in Etruria sono stati trovati sette vasi a lui attribuiti, e cinque di essi provengono proprio da Vulci.

Riguardo alla sfortunata Pentesilea, secondo una versione del mito Achille costruì vicino al fiume Xanto una pira, sulla quale depose il corpo della regina, raccogliendone poi le ceneri e seppellendole con tutti gli onori. Con il passare del tempo i ceramografi greci mostrarono una sorta di pudore, evitando di raffigurare la scena del cruento duello tra Achille e Pentesilea, preferendo illustrare, invece, il momento immediatamente successivo alla morte della regina, quando Achille amorevolmente abbracciò il suo corpo e se ne prese cura per la sepoltura. La ricerca del pathos lasciò il posto all’esaltazione di un sentimento di dolcezza, che forse intendeva ingentilire l’iroso eroe greco, colto in un momento di rara umanità oltre la crudele logica della guerra. Ma la scena potrebbe essere messa in relazione anche ad un’altra versione meno poetica del mito, secondo cui l’eroe si unì alla regina nonostante fosse spirata, dunque quell’abbraccio sarebbe da intendere come il preludio di un gesto nefando.

Un drammatico “colpo di fulmine” quello tra Achille e Pentesilea che i Greci raccontavano ora con accenti di grande sentimento, ora a tinte fosche, in una palese contraddizione che dimostra come il materiale mitico si prestasse ad essere continuamente rielaborato, per trasmettere nuovi messaggi e significati.

Micaela Merlino