Viterbo LA STORIA DI VITERBO
Mauro Galeotti (dal libro L'illustrissima Città di Viterbo)

Porta Faul nel 1880 in una foto di Leonardo Primi (Archivio Mauro Galeotti)

La Torre - Porta Faul si trova nel tratto di mura costruito nel 1268 e che va dalla Torre di Sassovivo alla Torre del Bacarozzo, posta a quota 293 sul livello del mare, così rilevo dal Piano regolatore del 1936.

La Torre di Faul, in fondo alla valle omonima, nella quale, poi, è stata aperta la porta, fu eretta, così scrive Cristofori, nel 1268 da Visconte Gatti il quale, oltre a far riparare le mura, fece costruire anche una fontana ricca di acque, così riferisce l’epigrafe alla sinistra della porta.

La Torre di Faul è citata nelle Riforme il 19 Dicembre 1485, come la torre presso la quale exit aqua fluminis. 

Ancora oggi, sebbene sia stata recentemente coperta, è l’uscita dalla città del Torrente Urcionio.

Sin dal 1547 si discuteva, in Consiglio generale, di erigere la porta, però solo venti anni dopo numerosi cittadini fecero le loro debite proteste perché fosse chiusa Porta di Valle, situata in una posizione poco favorevole e di troppo piccole dimensioni, e che ne fosse aperta, in sua vece, un’altra poco discosta.

Finalmente fu deliberata, in data 18 Dicembre 1567, l’apertura di Porta Faul, ed i priori presentarono il progetto al Consiglio con le seguenti parole: «Infiniti cittadini desiderano che si apra la Porta che sta in Faule, e si serri quella che si dice la Porta di Valle. E perché si accrescerìa grandissimo ornamento alla città e si farìa con non troppa spesa, i Signori ve lo propongono».

Allora il Consiglio, esaminata la proposta, decise di far eleggere «due cittadini, i quali coi Priori e col Vicelegato habiano autorità di aprire detta Porta di Faulle, con manco spesa però che sarà possibile».

L’opera fu assegnata allo scalpellino viterbese mastro Matteo Tolomei che la eseguì dietro ricompensa di novanta scudi e utilizzò il peperino della cava fuori Porta di san Sisto. Il disegno fu eseguito da Giacomo Barozzi da Vignola (1507 - 1573) che, in data 10 Aprile 1568, stipulò un contratto con lo scalpellino.

Il Pinzi scrive che era «assolutamente ignoto il progettista», basandosi sui documenti dallo stesso consultati, poi pone il Vignola in forma dubitativa.

Dal codice n° 57 delle Riforme, alla carta 281, leggo «seu disegnum decafactum (sic) per Vignolam architettû[m]», è la prova inconfutabile dell’autore nella persona del Barozzi.

Verso la fine dell’anno 1568 la porta doveva già esplicare le sue funzioni in quanto, in data 23 Settembre, trovo che un custode della porta percepiva la paga di dodici giulij mensili.

Da allora la porta fu chiamata Farnesia o Farnesiana per far onore al cardinale Alessandro Farnese, legato del Patrimonio del quale sono sopra l’ingresso lo stemma con un’epigrafe che appresso riporto.

Il 27 Aprile 1576 la porta è nominata anche Porta farnesia in fabuli, lo leggo nelle Riforme. Tre anni dopo, il 13 Novembre 1579, fu chiusa per le necessarie precauzioni contro la peste.

Il 7 Febbraio 1591 si dispone: «Che si mettino li ferri alle feratoie di faule et si proveda alli alberi canto le mura».

Gli alberi dovevano essere tagliati per impedire che gli stessi fossero utilizzati per superare le mura castellane ed entrare in città.

Il 30 Settembre 1608, si ricordò ai priori, un necessario intervento di restauro al ponte appontellato che oltrepassava il Torrente Urcionio, fuori Porta Faul, «et anco m° Tullio Cerchietti deve avere circa scudi dui per spese fatte nell’orloggio, et si devono pagare quattro some di calcina prese per assettar la detta fonte [della Rocca] e per assettare il ponte di Faule, li quali denari quando furno fatti detti lavori et presa detta robba si poteveno pagare […] et anco è necessario di riparare il ponte di faule quale è appontellato, perché alla prima piena anderà a terra, et bisognerà spenderci gran somma».

Il timore che la peste fosse portata da qualche forestiero in città, fa sì che il 30 Luglio 1624, per prevenzione, la Congregazione di Sanità ordinò che la porta dovesse restare «sempre serrata tanto di giorno, come di notte».

Anche il 1° Luglio 1630 la stessa Congregazione ordinò, per paura del contagio, «Che si muri la porta di faule come sono l’altre tre di Ascarano, di S. Pietro, e di S. Matteo, acciò che non possa aprirsi».

Due anni dopo la peste risultò essere scoppiata a Livorno, così anche il cardinale Barberini, il 7 Aprile 1632, avvertì di essere previdenti e ordinò la chiusura della porta relativamente aperta, inoltre, doveva pubblicarsi un bando dei forestieri «tanto per alloggiare nell’Hosterie tanto nelle case de’ particolari».

Il 24 settembre 1642 i conservatori della Città, scoppiata la guerra tra papato e la Città di Castro, ordinarono per precauzione, tra le tante altre cose, «Che si alzi la muraglia tra la porta di faule et il mulino [verso la Torre del Branca].
Che si aggiusti in modo l’uscita del fosso del Balasco, che non si possa per quello entrare.
Che si muri la porticella del Barbacane vicino alla porta di faule».

Porta Faul e la strada Bagni nel 1900 circa

Inoltre, in genere su tutto il recinto murario, si dovevano «tagliare e levare via tutti gli alberi che stanno vicini a’ dette mura» e «che si taglino et appiombino i tufi intorno alle muraglie della città in modo tale, che non facciano scala, e non diano commodità di salire. […]».

«Che si rimettino dentro alla Città tutti travi e legni che sono fuori delle mura in termine di tutto dimane, altrimente si abbrugino».

Del mulino di cui sopra esiste un disegno nel Cabreo del Convento della Verità del 1756 che lo raffigura con la facciata prospicente il ponte ad arco fuori Porta Faul, il tetto a doppio spiovente ed una finestrella con grata sopra l’ingresso. Il mulino è addossato alle mura che sono raffigurate con merli ghibellini e in basso è scritto Molino da grano fuori di Porta Faul, verso la Torre del Branca, in attività ancora agli inizi del XX secolo.

Altra chiusura della porta, per paura del contagio della peste, si ebbe dal Maggio del 1656, per ordine della Congregazione di Sanità. Fu proibito, inoltre, di far entrare cani in città e «quando bisogni si prohibisca l’ingresso alli padroni di quelli»; a Novembre si consentì la riapertura solamente per l’accesso dei Viterbesi.

Agli inizi del 1684 la porta «si dice habbi bisogno di riattamento».

Nel 1701 la porta lignea era in cattivo stato di conservazione e non assolveva bene allo scopo di difesa; per ripararla occorsero almeno sessanta scudi.

Trovo la notizia nelle Riforme che il Torrente Urcionio, il 26 Ottobre 1706, a causa delle incessanti piogge, carico d’acqua, straripò, il danno maggiore lo subì la Valle di Faul inondata e non furono risparmiati i battenti di Porta Faul divelti e portati via.

«Essendo che l’alluvione delli 26 ottobre 1706 oltre che haver atterrato in Faule parte di quelle mura castellane ruinasse a’ fatto le porte di legno della città, onde necessità dovessero farsi dette porte di nuovo paresse bene a’ Mon. Ill/mo Rev/mo Governatore come all’Ill/mi Rev/mi Conservatori giachè doveva farsi una porta di nuovo che questa si facesse per la Porta di S. Sisto [o meglio Romana], e che fosse ornatamente fatta per esser Porta Principale della Città e Romana, e che si adattasse per porta di Faule la detta Porta Vecchia di S. Sisto».

Porta Faul e mura castellane nel 1929

Nel 1708 vennero, infatti, riadattate le vecchie ante della Porta di san Sisto all’uscio di Porta Faul, «La Porta di S. Sisto ritrovandosi in poco buono stato per l’antichità fu risoluto che si rinovasse servirsi di questa per la Porta di faule» così è annotato sul libro dei Ricordi dei priori.

Il 18 Febbraio 1713 venne chiusa per paura del contagio e fu pagato il falegname «per aver aggiustato la porta».

In tempo di raccolta delle ulive non poco doveva essere il disagio dei contadini che avevano i loro terreni verso i Bagni e allora, nei verbali della seduta del Consiglio comunale del 29 Gennaio 1714, trovo scritto:
«La S. Consulta doppo sentita l’informazione di V.S. rimette al di Lei arbitrio il far riaprire la porta di faule in occasione della presente raccolta dell’olivi. Potrà ella valersi della notizia e Dio la prosperi. Roma 27 gennaio 1714. Di V.S. come fratello per il Card. Paulucci (firmato) A. Ranchieri segretario».

La porta fu aperta, ma dietro la sorveglianza continua di un soldato della Porta di santa Lucia, il quale fu distaccato con l’ordine preciso di far entrare in Città solo i Viterbesi conosciuti.
Nel quarto trimestre del medesimo anno, ai priori successori, si ricorda:
«Le feritoie de Faulle ad Arcione che furono fatte per rimediare l’alluvione sono ripiene; in occasione che verranno l’Aquilani le Signorie Vostre Illustrissime potranno farle ripulire».

Le ante in legno della porta furono rifatte, perché sembra fossero state bruciate dai Francesi. Il fabbro Domenico Schiena il 12 Marzo 1799, riparò: i ferramenti, aggiustando gli occhi a sei bandelloni; le serrature della porta e dello sportello, nonché il catenaccio maestro e quello più piccolo del medesimo sportello, realizzando dodici chiodi nuovi. Il suo lavoro fu pagato sei scudi, di sette che ne aveva chiesti.

Le opere da falegname furono commissionate a Francesco Giordani, il quale riscosse, con disposizione di pagamento del 23 Marzo 1799, ventinove scudi a saldo «del prezzo convenuto della nuova Porta della Città a’ Faulle come al di lui obligo sotto li 6 ventoso». Ma un triste evento doveva colpire le nuove ante in legno della porta.

«L’improvviso incendio accaduto la notte del dì 3 corrente [Maggio 1816] di una delle Porte di questa città mi astrinse ad ordinare l’immediata ricostruzione della medesima, il di cui lavoro trovasi già presso al suo compimento» è una nota alla Sacra Congregazione del Buon Governo del 12 Maggio 1816.

Fu bruciata «per mano delittuosa fin qui ignota alle indagini del Governo» e si decise di utilizzare lo stesso disegno del 1799 quando «fu rinnovata per l’incendio francese», vi furono impiegati cinquantacinque scudi. L’intervento del fabbro fu risparmiato in gran parte perché «li ferramenti si sono salvati nella massima parte».

Altri interventi di restauro vennero proposti, il 13 Giugno del 1830, da Giacomo Zei. Infatti, fu necessario che si riparasse la «torre formante la Porta di Faulle», abbassandola dell’altezza per far gravare meno peso sulle fondamenta che presentavano crepacci e che si rifacesse il tetto, ristabilendo la stanza sopra alla porta per farla usare dal portinaio, che abitava in un locale troppo ristretto e «pericoloso nella stagione estiva per l’aria cattiva prodotta dal contiguo fosso».

Nel Maggio del 1831 la porta fu chiusa ad opera di mastro Francesco Coccia, su disposizione del generale Galassi, per la «difesa della città» con «muro di pietra» eseguito a scarpa distante quattro palmi dal fusto della porta; quello spazio fu riempito «con fascine e terra puntellato con legni».

Altri urgenti restauri furono eseguiti nel 1846.

Con manifesto del 1885 il Comune vietò di gettare gli sterri nel fossato della Rocca Albornoz, ormai quasi completamente riempito e consigliò di portarli fuori Porta Faul, in una corrosione creata dal Torrente Urcionio. Circa il 1945, mi riferisce Attilio Carosi, furono costruiti due pilastri con mattoni, a sostegno dell’arco della porta.

Si arriva ai giorni nostri, quando la Ditta Alberto Ciorba esegue le riparazioni del tetto con inizio dei lavori avvenuto il 22 Aprile 1974.

Oggi la porta aperta sulla torre dimezzata nell’altezza, come ho già riferito, è coperta da un tetto. Presenta all’esterno lo stemma della famiglia Farnese, subito sotto è l’epigrafe del 1568 che riferisce:
Ex auctoritate / Alex(andri) Farnesii car(dinalis) / leg(ati) perp(etui) populus / Viterb(iensis) Portam / Farnesiam aperuit / valliam minus com / modo loco positam clusit an(no) MDLXVIII.

Tradotta: Per ordine del cardinale Alessandro Farnese, Legato perpetuo, il popolo di Viterbo, chiuse la Porta di Valle situata in luogo disagiato, aprì questa che chiamò Farnesiana nell’anno 1568.

Ai lati sono due stemmi, a sinistra del Comune e a destra del vice-legato Ansoino Polo, sopra questi è un grande giglio, simbolo dei Farnese.

All’interno sono ancora visibili i cardini di pietra che sorreggevano la porta lignea ora non più esistente. Sembra che le ante in legno siano state bruciate nel vicino mattatoio e che nella lunetta interna sopra alla porta ci fossero delle pitture.

Avanti a Porta Faul è stato realizzato un largo con un’ampia rotonda che agevola e snellisce il traffico, in quell’occasione è stato coperto in parte il Torrente Urcionio ed è stato demolito un ponte, ivi esistente, che ne aveva già sostituito uno a schiena d’asino.

L’area occupata dallo svincolo è stata denominata Largo Martiri delle foibe istriane. Una lapide in peperino, posta su un paletto di ferro, dopo essere stata spezzata dall’imbecille di turno e della quale sono stati conservati i pezzi in loco, recava scritto:
Largo Martiri delle foibe istriane / la Città di Viterbo a perenne ricordo / di migliaia di Italiani sacrificati / per la sola colpa di essere Italiani / 16 Ottobre 1999.

Successivamente le stesse parole sono state incise su un pannello di ferro fissato allo stesso palo.

Nei pressi, il 7 Aprile 2001, è stato deposto un anonimo masso in peperino con inciso il nome di Carlo Celestini, uno dei martiri delle foibe istriane.

Nacque a Viterbo il 6 Marzo 1922 e fu assassinato ed infoibato a Djakovo in Croazia nel Maggio 1945. Sulla viva pietra è stato scolpito:
In ricordo del nostro concittadino Carlo Celestini sacrificato nelle foibe. Viterbo, 6 Marzo 1922 / Djakovo, Maggio 1945.

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