Viterbo STORIA VISSUTA
Liberamente tratto dall’opera “I profumi semplici della vita” di Maria Antonietta Ellebori

Non so per gli altri, ma per me gli anni vissuti sui banchi di scuola hanno scavato nel fondo dell’anima e lasciato un solco, ben disposto alla semente che il turbinio del vento avrebbe portato. La scuola ci avrebbe “abilitato” a saper farne la differenza ed ad assumerci la responsabilità delle azioni.

Compagne di scuola e… pane e frittata

Nella seconda metà degli anni cinquanta, frequentavo da esterna un scuola privata parificata, gestita dalle suore del Preziosissimo Sangue.

Era sita in un enorme edificio a due piani di stile vittoriano in una zona residenziale della periferia, quasi al limite della costa scogliosa bagnata dal mare.

Delimitata da un alto muro, vi si accedeva da un enorme cancello verde di ferro, che non permetteva la visuale interna.

Suonata la campanella, una suora apriva la porticina laterale.

Appariva un piazzale lastricato e ben tenuto, sul quale si affacciavano le porte della palestra, della cappellina e del portone che portava ai piani superiori, dove erano le aule scolastiche ed ancora più su il dormitorio delle interne del collegio e delle suore.

Nella parte destra una nicchia con la Madonnina di Lourdes circondata da una siepe e sul davanti un piccolo giardino. Al centro una palma, alta quanto il fabbricato, mostrava penzoloni ciuffi di datteri, mai giunti a maturazione.

Nel collegio vivevano le interne, appartenenti alle famiglie più che benestanti di possidenti o commercianti della zona del viterbese ed anche tra noi esterne, la maggior parte lo erano, mentre soltanto alcune, me compresa, lo dovevano soltanto ai sacrifici dell’intera famiglia sostenuta dal lavoro di un operaio.

Alcune insegnanti erano suore, molto colte e ben preparate all’insegnamento.

Ricordo la preside, dal portamento solenne, sempre calma e pacata, con gli occhiali tenuti da un clip sul naso, perché il viso era contenuto in un ovale di piegoline inamidate; quando rideva le si illuminava il viso; ci insegna lettere, e mai il commento alla “la divina commedia” fu così interessante a chi l’ ascoltava, tanto è vero che lo ricorda ancora adesso.

C’erano anche altre professoresse laiche; in una scuola di sole femmine, personale docente compreso, l’unico uomo era il professore di religione, un prelato molto colto di origine sarda.

Ho vissuto quel periodo con estremo senso di responsabilità, sapevo quanto stavo gravando sul menage familiare, e mi impegnavo al massimo nel profitto; ma non era faticoso, perché mi piaceva immergermi nelle disquisizione di filosofia o nei teoremi da verificare.

Trascinavo con me quell’accenno di timidezza che portava l’adolescenza, accentuata dall’entrare in un ambiente che sapevo superiore al mio, ma con il tempo divenni più sicura; avevo capito che dallo studio potevo mirare a quello che nella famiglia non avrei mai potuto avere, tranne l’esempio dei valori di onestà, rettitudine, dignità e sincerità nel comportamento abituale.

Acquistando sicurezza, diventavo sempre più brava nei profitti, tanto è vero che superavo l’anno scolastico con una borsa di studio, che compensava appena in parte i sacrifici della famiglia.

Amavo di più le materie letterarie e la filosofia, ma, chissà perché eccellevo nella matematica, a dimostrazione della parte razionale di me, che riusciva a dimostrare i teoremi con una facilità... scontata.

Era il primo trimestre del terzo anno scolastico; ormai avevo familiarizzato con molte compagne e la timidezza era quasi soltanto un ricordo, mentre rimaneva il riverente ossequio verso le insegnanti, che, lo capii in seguito, voleva essere, soprattutto, un ossequio alla loro cultura.

Avevamo già svolto un compito in classe di matematica ed avevo preso otto( il voto massimo dato per un compito esatto).

Ero seduta al terzo banco e dietro di me c’era una compagna alta, allampanata e negata per la matematica, alla quale ero molto legata dalla simpatia scherzosa che trasudava.

Si era raccomandata di aiutarla ed avevo promesso di farlo.

Conclusi il primo passaggio del problema, che, ancora ricordo, era sulla rotazione di una figura piana con applicazione dei sistemi geometrici; ricopiai ben benino su un foglietto e glielo passai.

Svolsi la parte seguente e feci altrettanto.

Avevo ancora il foglietto in mano quando vidi accanto a me l’ombra della suora e trasalii.

Lei mi chiese: “A chi lo stavi passando?”.

Arrossii, ma rimasi in silenzio.

Continuò: “Se non lo dici, ti metto due!”.

Pensai… se prendo due, con il voto di prima mi viene di media cinque, ma se lo mette alla mia compagna( perché lo avrebbe dato anche a lei) quella non si riprende più, ma quello che più mi tratteneva era il… tradimento, qualunque fosse stato l’esito.

Tenni la bocca chiusa e non proferii parola, sembrando concentrata a guardare il pavimento.

Nell’aula era caduto un silenzio di tomba, tanto che si sarebbe sentita volare una mosca.

La suora tentò per altre due volte, poi quando finalmente alzai gli occhi e la guardai, lei capì che non avrei mai parlato e ritornò sui suoi passi.

Copiai in bella il mio compito, che, pur senza un errore, prese un bel due vergato con la matita rossa.

Sulla pagella del primo trimestre, per la prima volta ebbi quel cinque nello scritto (nell’orale avevo sette), in compenso conquistai la solidarietà di quella compagna e la stima di tutta la classe, suora compresa.

Già nel trimestre successivo ero ritornata alla media usuale.

(Una nota di differenza con lo studio di oggi era che non si usavano le calcolatrici e tutto veniva fatto a mano.)

Comunque la diversità di ceto sociale delle compagne di classe si notava anche nel momento della ricreazione, quando uscivamo nel corridoio per fare la colazione: chi aveva il panino ripieno di prosciutto crudo, chi di salame, chi, come me, con la frittata che faceva rimanere il pane del giorno prima morbido e gustoso.

A volte succedeva che qualche compagna mi chiedesse un “mozzichetto”, tanto se ne sentiva il profumo.

Questo perché la mia mamma aveva un segreto.

Batteva l’uovo e ci aggiungeva un fogliolina di menta romana carpita direttamente dal vaso che stava sul davanzale della finestra.

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