Viterbo STORIA
Mauro Galeotti

                     Vecchia osteria a Viterbo negli anni '50

Mi ricordo che da bambino ero affascinato dalle gomme americane a forma di pallina.

Erano contenute in appositi distributori nei quali era una fessura per inserire 10 lire, poi bastava ruotare una manopola e turututu... l'ambita pallina scivolava in basso per essere presa e masticata.

Una soddisfazione enorme per un bambino come me che poteva gustare la dolce sfera colorata ciancicandola fino a che la parte zuccherina svaniva.

Ma come procurare le 10 lire?

Facile.

Ebbene le potevo "prelevarle" dal cassetto di mia nonna fruttivendola, quando lei non c'era. Ma togliere 10 lire dalla ciotola nel cassetto poteva essere notato, allora "prelevavo" un po' per volta le lirette, fino a raggiungere le 10 lire.

A quel punto mi recavo in un'osteria buia e fredda in Via san Bonaventura, che prendeva le lirette per dare il resto a chi beveva il vino e mi dava 10 lire d'un solo pezzo.

A quel punto correvo dove era il distributore di gomme americane e ne prendevo una... era una goduria...

Non fu una goduria quando mio padre venne a sapere come "prelevavo" le lirette, infatti, mi mise sulle sue ginocchia e giù sculacciate a non finire.

Da quel momento i miei prelevamenti, come fosse un bancomat di oggi... terminarono, avevo capito bene che avrei dovuto non farlo.

Il sedere dolorante e arrossato ne era la prova efficace.

Ma a proposito di osterie a Viterbo, ecco di esse un ricordo.

Nel 1473 i tavernieri si unirono con gli albergatori e stilarono uno Statuto. 

Di quest’ultimo a noi è giunto quello del 1565, che è conservato nell’Archivio storico del Comune di Viterbo, presso la Biblioteca degli Ardenti.

Il loro ritrovo era nell’Ospedale di san Tommaso di Canterbury, popolarmente detto del Boccaletto, che fu chiuso dopo il 1774, pur rimanendo il locale di loro proprietà.

Altre residenze (1473) furono le Chiese di san Pellegrino e di santo Stefano, nella quale erano presenti almeno fino al 1552.

I priori stabilirono, in data 9 Luglio 1495, che: «nesuno ardisca stare nele taverne dopo lo terzo sono della campana ad pena di mezzo ducato per ciascuno che lì sarà trovato la qual pena incorrerà lo tavernaro che ritene lì detti homini».

La chiusura era ovviamente per una maggiore sicurezza pubblica, ma il rispetto delle proibizioni doveva essere sempre controllato, per la facilità in cui vi cadevano venditore e bevitore, ognuno coi propri buoni motivi: soldi e piacere.

A titolo di curiosità: il 7 Dicembre 1592 nell’Osteria all’insegna del Leone, appartenuta ai Nini, fu redatto un contratto, per l’affitto della Chiesa di santa Maria delle Rose, al Cunicchio, tra il padre cistercense Francesco Bartolini, priore della Chiesa di san Marco, e l’Arte degli Osti.

Un Bando del 15 Aprile 1611, del vicelegato Fabrizio Landriani, proibisce agli uomini sposati e con prole, siano loro cittadini o artigiani, di andar à bettole, ò hostarie à magnar, ò bere, ò giocare, sotto pena di scudi 25.

La stessa pena subivano gli osti quali ricettaranno tali persone.

Il delegato apostolico Giuseppe Zacchia, con notificazione del 18 Agosto 1823, tra l’altro ordina: «Tutti i caffettieri ed osti dovranno chiudere le loro rispettive botteghe ed osterie alle ore 3 in punto della notte, senza ammettere alcuna tolleranza.

I bettolieri poi ed altri venditori di vino ed acquavite a minuto dovranno chiudere alle ore 2 della notte in punto. Ogni trasgressione sarà punita con la multa di scudi 10 da pagarsi irremissibilmente. 

A questa pena verranno similmente assoggettati tutti coloro che impedissero ai padronali di chiudere le rispettive botteghe, osterie e cantine».

Gennaro Sisto, delegato apostolico, con notificazione del 14 Novembre 1834 ordina agli osti, bettolieri e venditori di vino, di non somministrare più vino a coloro che dimostravano di «essere di già ebri». 

L’ubriaco trovato nelle osterie o nelle bettole o in qualsiasi altro luogo pubblico «e quasi pubblico, e così vagare per le strade, e per le piazze, sarà in via di polizia condannato al carcere segreto per 15 giorni a pane ed acqua ed a misure più rigorose se sarà recidivo».

Il vino è una brutta bestia, lo è sempre stato per chi ne abusa. 

Leggo sulla Gazzetta di Viterbo del 1° Settembre 1877: «Rissa. Il vino costa caro, e i commestibili non si vendono a buon mercato: tuttavia le bettole sono ordinariamente piene e nei giorni di festa riboccano di gente.  Nella scorsa domenica in una bettola della Rocca avvenne una rissa: secondo il solito, si mise mano ai coltelli, ed un disgraziato, che s’intromise per pacificare i rissanti, riportò in premio una grave ferita al basso ventre, per la quale a capo a tre giorni è morto».

Egerton R. Williams Jr. nella sua opera Hill Towns of Italy, del 1903, così descrive il nostro vino: «E’ il toccasana nella vita di questa gente [i Viterbesi]. Dopo aver bevuto il loro vino, ho spesso di domandarmi come potevano vivere malgrado un cibo così povero. Il vino di questa regione ha un gusto straordinario, in nessun luogo ho trovato un vino che eguagli quello di Viterbo, Montefiascone ed Orvieto.

Quello di Viterbo è prodotto sui pendii circostanti, sia rosso che bianco, e viene bevuto fresco come quasi tutti i vini italiani. E’ fragrante e l'invecchiamento lo rende più corposo. Tuttavia non è né troppo dolce né troppo leggero, ed è prodotto in tale quantità da essere venduto a buon mercato. Il vino, prodotto dagli stessi contadini, è ovunque delizioso ed abbondante».

 

 

 

 

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