Vincenzo Ceniti Console Touring

Lo chiamavano Cacazeppetti poiché era piuttosto avaro, “stitico” come si direbbe a Viterbo.

Per altri il nomignolo deriverebbe da alcuni antenati fornai di Pianoscarano che alla fine dell’Ottocento erano soprannominati Cacazeppetti.

Parliamo del sor Ludovico Meschini che agli inizi degli anni Cinquanta recuperò un antico casale adiacente alla chiesetta campestre delle Farine (lunga la Cassia sud a poco meno di tre chilometri da Viterbo) per attivarvi una trattoria altrettanto campestre che chiamò “Le Farine”.

Per i più anziani quel tratto di strada  è ancor oggi conosciuto come “le curve del Ciriciaccolo” dal nome di una vecchia osteria nei pressi del vicino bivio di Ponte Sodo. L’aveva creata agli inizi del secolo uno dei contadini del posto, Orlando Segatori. Il figlio Armando, 97 anni ben sopportati, mi dice che tutti gli abitanti di quella zona erano e sono detti i “Ciriciaccolo”.    

Ma torniamo a Ludovico Meschini. Negli anni Sessanta cedette la gestione della trattoria “Le Farine” al figlio Veraldo che la condusse fino alla chiusura, intorno al Novanta. Il giovane aveva  precedenti di pugile in una città dov’erano ancora  vivi i ricordi di  Giggetto Malè campione italiano dei pesi medi nel 1949 e di una vivace Società pugilistica animata da Alberto Ciorba. Veraldo, quando si presentò in palestra per farsi arruolare gli ruppero subito il setto nasale per facilitargli la carriera che però fu breve. Quel naso storto lo accompagnerà per tutta la vita. 

Non solo trattoria, ma anche “locanda” (secondo le tipologie del tempo), con 5/6 camere per i forestieri nel piano superiore. Una struttura antesignana degli attuali B&B o se volete  un agriturismo dei primordi con tanto di orto, cantina, “gallinaro”, conigliera ed altro. Anche un piccolo spaccio di generi alimentari dove si trovava di tutto, dal sapone, alle alici in buatta, dal prosciutto al pane.  

Gli avventori venivano accolti in due piccoli locali e in una sala più grande con ampia vetrata, per un totale di una cinquantina di posti che d’estate aumentavano all’ombra di un provvidenziale pergolato. La trattoria risulta ancora attiva nel 1987 per un pranzo di battesimo con amici di mia conoscenza. 

Il particolare di avere a due passi una chiesa consacrata di buon lignaggio trecentesco (ricostruita nel  1320 da Silvestro Gatti come ricorda  una lapide sopra la porta d’ingresso) favoriva frequenti occasioni di banchetti:  matrimoni, comunioni, anniversari ed altro. Senza considerare le bisbocce tra amici e le rimpatriate di cacciatori. Non per niente la chiesa delle Farine era stata amministrata alla fine dell’Ottocento dalla Società dei Cacciatori di Viterbo il cui primo presidente, nel 1886, fu tale Saverio Saveri. La chiesa fa parte oggi della parrocchia di San Pietro e dal 1940 (anno più, anno meno) è in affidamento ai Padri Giuseppini del vicino Istituto San Pietro, davanti alla porta omonima

Negli anni Cinquanta-Sessanta, prima dell’apertura dell’autostrada del Sole,  la Cassia, su cui s’affacciava la trattoria, era piuttosto frequentata dagli automobilisti in viaggio da Roma a Firenze (e viceversa), per cui la clientela non mancava. Ricordo che nelle belle giornate primaverili, ma non solo, si andava a piedi da Cacazeppetti per una passeggiata che si concludeva con una merenda all’aperto, sostenuta da frequenti sorsate di cannellino di cantina.   

Nella brigata della trattoria c’erano la moglie di Veraldo Ada e sua sorella Rosa. La prima governava la cucina;  la seconda serviva ai tavoli e preparava le specialità della casa come le fettuccine al lansagnolo (mattarello). Ogni fine settimana Rosa riempiva d’acqua e farina una conca di plastica – tipo bagnarola per i bambini  – ci buttava dentro una cinquantina di uova e maneggiava con le robuste mani fino a creare un impasto dorato che spiaccicava poi sulla spianatora per stenderlo appunto col lansagnolo. Da qui le fettuccine fatte in casa che duravano per alcuni giorni e si condivano di volta in volta con burro, sugo e parmigiano.  

Il secondo piatto non era un optional come potrebbe esserlo oggi: c’era da scegliere tra polli alla diavola, conigli alla cacciatora, costarelle e salsicce alla griglia, cacciagione, funghi porcini, fagioli, ed altro. Il tutto veniva cucinato su una grande stufa a legna che d’inverno dava calore a uomini e cose. I  prezzi modici incoraggiavano soste per forestieri “di passo”. Oggi al posto di quella trattoria c’è rimasto solo un fabbricato a ridosso della strada, abbandonato e senza alcuna destinazione.