Adelchi Albanesi nel 1937 (Archivio Mauro Galeotti)

Vincenzo Ceniti                                    

Volete bene alla Madonnina?”. Noi ragazzi cresimandi del 1946 rispondemmo in coro “Siiii!”.  E’ il ricordo più caro e remoto che ho di Adelchi Albanesi, vescovo di Viterbo dal 1942 al 1970 anno della sua morte a 87 anni.

Ma c’è anche il ricordo di una “esse” strisciante, la “erre” moscia,  il velato accento piacentino ed una “e”  grave che si esaltava all’invocazione  “Vèrgine Maria”.                                                                                                                                               Quella Cresima del 12 maggio 1946, con la città ancora in macerie, era abbinata, come si usava allora, alla prima Comunione che si era celebrata di buon mattino alle ore 8,00. Raduno  a  Santa Rosa, intorno alle 11,  dove confluirono tutti i comunicandi delle varie parrocchie di Viterbo.  Credo che fosse stata una delle prime Cresime, se non la prima, dopo la fine della guerra. Arrivai al santuario con mio nonno in carrozza, nel senso che prenotò una delle botticelle che stazionavano  a piazza delle Erbe. Era questore in pensione e se lo poteva permettere. Sull’altare mi teneva per mano il padrino, un fratello di mio padre tornato da poco dalla prigionia. . 

Interno della chiesa parato a festa con un nugolo di parenti e amici e le clarisse di clausura  a pregare dietro le grate. Nessuna ripresa;  foto e video saranno una consuetudine degli anni avvenire. Lui, il vescovo, severo, elegante e solenne con lunga stola,  mitra e  pastorale, coadiuvato da alcuni sacerdoti e chierichetti  Credo che la messa non sia stata celebrata,  ma solo il rito della Cresima. Al catechismo ci dissero  che quel sacramento ci avrebbe trasformati in soldati di Dio. Nell’interminabile omelia, come sua consuetudine,  si rivolse a noi per strapparci risposte assertive a domande banali e ingenue, tipo “Promettete di essere più buoni? “ E noi  “Siii!”  A mente ricordo alcuni amici cresimandi: Michele De Facendis, Carlo Di Carlo, Vittorio Jovenitti, i fratelli Magni (Mario, Bruno e Piergiulio), Lucio Pollastrelli, Mario Pierani.                                                                                                                     

Tanta festa per quel piacentino di fine Ottocento (nacque nel 1883 a Castel San Giovanni presso Piacenza) quando nel 1942, dopo alcuni anni all’episcopato di Bagnoregio (dal 1938), venne a Viterbo per occupare la cattedra dell’allora diocesi di Viterbo e Tuscania. In quella circostanza mostrò il suo amore per Santa Rosa facendo l’ingresso in città il 7 giugno 1942 da porta Romana su cui si poggia la statua della santa patrona della città.

Grande devozione per la “madonnina” come la chiamava con gioia ed affetto che  manifestò in più occasioni. La  “Peregrinatio Mariae” del 1949 per le vie di Viterbo fu da lui gestita in collaborazione con padre Tarcisio Adua priore del convento di San Francesco e don Sante Bagnaia parroco della Quercia. La tegola miracolosa della Madonna fece il giro dei quartieri della città e in ogni chiesa parrocchiale il vescovo celebrò la messa, anche quella di mezzanotte notoriamente frequentata da soli uomini.                                                                                                                                                       

Spesso nei pomeriggi si faceva accompagnare al Santuario della Quercia per il rosario dal suo autista-segretario tuttofare mons. Eligio Lelli nativo di Civitella d’Agliano a bordo, se non vado errato, di una Lancia nera, conosciuta come la macchina del vescovo. Era particolarmente legato al dogma dell’Assunzione che Pio XII proclamò nel 1951. Fu suo l’impegno di far commissionare a Francesco Nagni per l’anno mariano del 1954  la statua dell’Assunta che oggi è posta accanto alla ex chiesa degli Almadiani. Adelchi Albanesi aveva le stesse radici piacentine di Tebaldo Visconti, il papa uscito dal famoso conclave viterbese, che succedette col nome di Gregorio X a Clemente IV nel 1271.

Chi lo aveva preceduto, Emidio Trenta (alto e ieratico), non deve aver avuto vita facile trovandosi a che fare con un periodo drammatico  (1915-1942):  Grande Guerra, Fascismo, leggi razziali e i primi echi della seconda guerra mondiale. Di buon lignaggio ascolano,  si riconoscono a mons. Trenta tanti meriti per la creazione del Seminario Regionale Pontificio della Quercia aperto nel 1933 e per aver avviato nel 1919 il  giovane don Alceste Grandori alla sua missione sacerdotale nella parrocchia di San Leonardo a Viterbo.  

Non fu vita facile neanche per il nostro vescovo Adelchi che si trovò alle prese con i bombardamenti  (chiese in gran parte distrutte, compresa la Cattedrale. Se ne contarono una quindicina), i morti, la fame, i poveri, la ricostruzione. La guerra lo vide in prima linea ad organizzare a Viterbo gli aiuti, sostenere i più bisognosi, autorizzare  le celebrazioni liturgiche in alcuni rifugi antiaerei della città (soprattutto sotto palazzo di Vico e sotto via Marconi). Più di una volta celebrò lui stesso la messa nelle grotte tra il sibilo delle bombe. Nei ricoveri organizzò anche una processione del Corpus Domini. Fu lui a permettere alla suore di clausura di San Bernardino di uscire dal monastero di piazza della Morte per  raggiungere nei bombardamenti del 1943-44 il rifugio di palazzo di Vico ove ero ricoverato anch’io con la mia famiglia. Ricordo bene la scena del loro arrivo e la loro sistemazione in una grotta accanto alla nostra.

Adelchi Albanesi non è stato un grande oratore, ma ad ogni manifestazione cui veniva invitato faceva sentire a chi lo ospitava il suo apprezzamento e il suo affetto con parole semplici e sincere.  Alla vigilia della sua partenza per la sessione inaugurale del Concilio Vaticano II  dell’11 Ottobre 1962, il clero viterbese partecipò ad una messa “augurale” da lui celebrata in Cattedrale. Si ha notizia di frequenti riunioni tenute a Viterbo per commentare a religiosi e fedeli  i nuovi indirizzi conciliari.  

Dal 1964 lo stato di salute gli impedì ogni piena attività e fu pertanto coadiuvato da mons. Renato Spallanzani. Nel 1967 dovette dimettersi per motivi di salute e fu nominato amministratore apostolico Luigi Boccadoro (già vescovo di Montefiascone e Acquapendente) che dopo la morte di Adelchi Albanesi (21 marzo 1970) gli succedette nella carica.                               

I funerali in Cattedrale nel pomeriggio del 23 marzo di quel 1970 vanno ricordati per la solennità. La sala Gualtiero adiacente a quella del Conclave nel palazzo dei Papi ospitò la camera ardente visitata da centinai di viterbesi per l’ultimo saluto al “Pastore buono” come era chiamato. Il rito venne presieduto dal card. Mario Nasalli Rocca (ex allievo di Albanesi) e co-celebrato da Luigi Boccadoro, Eligio Lelli, Dante Bernini, Sante Bagnaia e l’ultimo parroco in ordine di tempo da lui ordinato, Gianni Carparelli. Presenti i cardinali Angelo Dell’Acqua, Agostino Casaroli (futuro segretario di Stato), Antonio Santarè e numerosi vescovi di diocesi limitrofe.                      

Al termine della messa si formò il corteo funebre scortato dai Carabinieri e dalla Guardie di P.S. in alta uniforme con una grande folla di fedeli che raggiunse piazza del Plebiscito dove il sindaco Santino Clementi gli tributò il saluto della città. Venne provvisoriamente sepolto nella cappella del clero al  cimitero di Viterbo ma successivamente, come da suo desiderio più volte espresso in vita,  la salma venne traslata nel Santuario di Santa Rosa.