Viterbo Strada Signorino, "la tagliata etrusca" negli anni '60 (Foto Secondo Bruti, archivio Mauro Galeotti)

Cava di sant’Antonio e Strada Signorino a Viterbo
Mauro Galeotti

Da ragazzo mi ha sempre incuriosito il nome "Signorino", riferito alla strada fuori Porta Faul, da grande mi sono dedicato a farne la storia e sapere chi era Signorino, credevo fosse un giovane ragazzo, invece...

Strada Signorino, già Cava di sant’Antonio, è di origine etrusca, si tratta di un camminamento scavato nel tufo con pareti alte anche dodici metri, dove in più punti il cielo è coperto dalla vegetazione rigogliosa e spontanea.

Castel d'Asso nel 1908 circa (Archivio Mauro Galeotti)

Inizia da fuori Porta di Valle e Porta Faul per raggiungere il bivio delle Strade Castel d’Asso e Risiere, con essa si entra in un mondo fatato, di misteri e di storia, infatti non sfugga all’inizio della strada da Via san Paolo l’imponente portale in peperino con lo stemma vescovile rappresentato da quattro branche di leone della famiglia Brancaccio, di cui furono vescovi di Viterbo i cardinali Francesco Maria dal 1638 al 1670 e Stefano dal 1670 al 1682.

Strada Signorino, prende il nome dal nobile Signorino Signorini, proprietario dei terreni esistenti lungo la strada, poi passati alla famiglia Tedeschi di Viterbo.

I Signorini discendevano da famiglia fiorentina che divenne nobile viterbese nel XVI secolo. Lo stemma, secondo lo storico Mario Signorelli, è: d’oro, allo scaglione d’azzurro. Ma lo stemma che vedo in una serie di disegni settecenteschi, conservati nella Biblioteca degli Ardenti, è differente, infatti, porta un cappello di cardinale sul campo.

Strada Signorino già conosciuta anche come la Cava di Gorga, nel 1200 fu teatro di scontri tra Romani e Viterbesi. Cesare Pinzi, noto illustre storico viterbese, riferisce che alla fine dell’800, la cava era detta «Cava di Sgorga, [ed] era situata vicino a poggio Gazzello, presso l’antica via di Pontesodo».

Voglio riportare la descrizione dell’attacco dei Romani contro i Viterbesi nel 1200, che mi sembra di particolare e curioso interesse. 

Leggo, infatti, sul libro di Ignazio Ciampi, “Cronache e Statuti della Città di Viterbo” del 1872, il quale riporta le notizie tratte dal cronista viterbese Niccolò della Tuccia:

«Anno 1200…li Viterbesi coprirno una cava, che si chiama la Cava di Gorga, e la fecero fogliata, e pareva che sopra essa fosse un bello e spazioso piano: poi tutto l’orto acquatile da quel lato allagorno d’acqua, e però erano tutti fanghi.

Li Romani vennero tutti a schiera e serrati l’uno appresso l’altro come pigne; ed essendo sopra detta cava fogliata, per lo gran peso di loro la cava sfondò, e ne cascorno tanti dentro nella cava, che più de mille ne morirno.

L’altri che passavano, giungendo alli detti orti tutti loro cavalli si ficcavano ne’ fanghi, e non potevano sfangarsi senza loro gran detrimento; e loro fanti a piè non ci volevano entrare».


Il cronista viterbese Niccolò della Tuccia

Simile racconto è riportato da altri cronisti viterbesi tra i quali Anzillotto o Lanzellotto, vissuto a cavallo della metà del sec. XIII, e frate Francesco d’Andrea dei Minori vissuto nel secolo XV.

Non di meno interesse, con le parole di Francesco d’Andrea, è la descrizione dell’assedio da parte dell’imperatore Federico II a Viterbo, nel 1243. 

«Poi che lo imperatore vidde li dicti fanti [erano più di seimila provenienti da Firenze, Pisa, Pistoia, Pietrasanta, Siena, Lucca e Arezzo], comandò che fussero trovati assai legni per fare castelli di legnami et anche ponti per posser rompere le steccata; et fe’ fare XXVI castelli et ponti et una manganella, la quale posero ad Sancto Pavolo [Paolo, verso la Strada Signorino]; per la qual cosa li Viterbesi di novo rinforzorno le steccata, et ferno maggior fossi et fecero una buffa [una macchina per lanciare le pietre] grande et una piccola, et si le pusero nel piano sopra Sancta Maria della Ginestra, et continuo gettavano nel castello di Sancto Lorenzo et nel campo de l’imperatore; et fecero molte manganella et altri edifitii et molti pulzoni con le teste di ferro, con li quali rompevano le castella di legno, et ferno molti graffioni [uncini di ferro] o veramente petre lupo [piè di lupo] con le rustiche di legno, con li quali pigliaveno li castella et li gettavano in terra; et fecero più vie sotto terra, onde escivano ad offendere li nimici.

Et fore delle carbonare fecero le steccate, acciò che le castella di legno non si potessero acostare, ficcandoci assai passoni de legno; et sparsero assai tribuli de ferro, acciò che intrassero nelle piante delli piedi delli inimici appiede e a cavallo».

Lo storico Cesare Pinzi

L’imperatore dotò invece il suo esercito di vari mezzi di offesa tra questi, scrive Cesare Pinzi: «Innalzò dipoi su carro un alto e sorprendente edificio, addimandato “maristalla”; di tale lunghezza da rassembrare al guscio di una nave. 

Potea questo capire ben trenta guerrieri.Era sul dinnanzi tessuto di squamme di ferro, per proteggerlo dai bolzoni lanciati dalle catapulte; e avea al sommo un rostro ricurvo, robusto e sì sporgente, che, dall’opposta ripa del fosso, giungea fino allo steccato; ove afferrati i pali, così saldamente vi si tenea, da permettere ai combattenti dentro racchiusi, di tempestare con dardi pietre, lancie e saette i difensori del vallo.

Saldate poi ai fianchi avea catene con fortissimi uncini, i quali comunque scagliati, si appigliavano alla palizzata, per svellerla e rovesciarla».

Non manca un fatto miracoloso accaduto su questa strada, infatti, lungo la strada stessa è un’edicola ricavata sulla parete tufacea, con affrescato l’avvenimento del Febbraio 1506, in cui il cavaliere viterbese Giovambattista Spiriti, al ritorno da Roma, inseguito dai banditi e raggiunto al Guado del Corgnalo, fu salvato per intercessione della Madonna della Quercia. 

Affresco alla Cava di sant'Antonio il miracolo della Madonna della Quercia  a Giovambattista Spiriti

Infatti, sopraggiunto in prossimità della tagliata etrusca, «larga più di 10braccia, e profonda più di 60», come leggo dal codice conservato dalla Fondazione Besso di Roma, trovandosi a percorrere i terreni soprastanti alla stessa, con alle spalle i banditi che lo pressavano davanti al burrone della strada etrusca, vistosi perduto, chiese aiuto alla Madonna della Quercia.

Sentì una voce, «Tieniti Spirito che io salto».

D’un balzo il cavallo, quasi fosse in volo, saltò dalla parte opposta della tagliata tufacea e salvò il suo cavaliere. L’affresco, di cui sopra, è stato restaurato nel 1992 dal pittore Rolando Di Gaetani ed inaugurato il 4 Ottobre dello stesso anno; porta la scritta, «Fermati passegiero, il capo china, alla Vergine Maria nostra reggina 1854».

L’affresco raffigura la Madonna della Quercia sulla tegola posta sulla quercia ai piedi della quale è sant’Antonio e a destra gli assalitori a piedi che armati di frecce inseguono Spiriti che in sella al suo cavallo oltrepassa il dirupo.

La lunetta col miracolo s Spiriti nel chiostro della Basilica di santa Maria della Quercia

Il miracolo è raffigurato sulla lunetta n° 7 del Chiostro con la cisterna nella Basilica di santa Maria della Quercia a La Quercia.

Giovambattista Spiriti

Gianfranco Ciprini, noto cultore della storia della Madonna della Quercia, riporta uno scritto tratto dal “Libro dei Miracoli” pag. 156, conservato nella Biblioteca Besso di Roma.

«L'anno 1502 [1506 questo è l’anno esatto] il sig. Gio.[vanni] Battista Spiriti viterbese colonnello di gran valore ritornando di Roma a cavallo dalla ambasciaria fatta papa Giulio secondo per la sua città, nel luogho detto il Guado fu all'improviso assalito da molti suoi inimici tanto a piedi quanto a cavallo con armi anco avvelenate.

Fu da quelli ferito in diverse parti e costretto pure a cavallo fuggirsene verso un gran precipitio detto la rupe di S. Antonio, larga più di 10 braccia, e profonda più di 60: vedutosi dunque il Nobil Cavaliero serrata ogni strada naturale per la dìfesa, o scampo, si voltò a quella che è più potente di un ordinato esercito e disse: Santissima Vergine della Quercia liberate delle mani de questi inimici.

A questa voce dissero quelli privi di senno dall'ira e dal furore. Né Cristo né la madre ti camperà dalle nostre mani. All'horrenda bastemmia ripieno di zelo e confidenza replicò: la Madonna della Quercia et il suo Figlio mi camperà et essendo già sopra le labbra della rupe, parveli dì sentire una voce sopra il cavallo, passa dall'altra banda.

Mirabil cosa. Spronato il cavallo come se questo animale fosse stato alato saltò felicemente dall'altra parte senza lesione alcuna restando gl'inimici delusi e confusi Portò questo signore la sua statua di un huomo ferito a cavallo, che al presente si vede e fu sempre devotissimo di questa casa».

La “statua”, ossia il cavallo e lo Spiriti cavaliere, era posta davanti l'altare maggiore della Basilica di santa Maria della Quercia, a cornu Evangelii.

Vicino al bivio della Strada Signorino con Strada santa Maria in Silice, fino a un po’ di anni fa, era ben visibile la grande grotta chiamata Grotta del Cataletto e in merito Mario Signorelli, figlio dello storico per eccellenza Giuseppe, riferisce questo scritto del padre.

«Fu veramente ardua impresa quella condotta a termine dal canonico [Giacomo] Bevilacqua e dai suoi alunni nell’esplorare la Grotta del Cataletto, favoloso meandro sotterraneo degli Etruschi.

Entrativi alle ore 7del mattino, solo a tarda sera la spedizione riusciva a sortire fuori presso il Casale del Boia [sulla Strada Bagni]. Laceri e contusi, sembravano tanti spettri e non osavano parlare di quello che avevano veduto e che ritenevano opera diabolica.Mi raccontarono che il cunicolo si diramava in tanti altri laterali, quasi tutti ciechi, con vani di una certa ampiezza.

Ogni tanti metri erano praticati nella volta sfiatatoi che permettevano di respirare sufficientemente: il corridoio era alto in alcuni punti metri 1,80, poi improvvisamente si abbassava facendo credere si fosse al termine di esso. Strisciando come serpi per una decina di metri, il vano praticabile riprendeva quota per divenire poco dopo normale.

Chiesto al Bevilacqua se avrebbe acconsentito a ritornare insieme a me, sviò il discorso e lo vidi fremere: vago terrore s’era impossessato di lui. Onde poco dopo venne a morire...».

Giacomo Bevilacqua nacque nel 1844, morì nel 1912; così scrive, in data 1° Novembre 1912, nel suo “diario” monsignor Simone Medichini († 13 Gennaio 1916 a 85 anni), letto da Francesco Pietrini:

«Iersera circa le ore 10 e 30 morì l’Arciprete Giacomo Bevilacqua nell’età di 68 anni (nato a Viterbo nel 1844) di male cardiaco proveniente da cancri pedagrici già viaticato.Era di molto ingegno e valeva non poco di cose di archeologia nostrana». 

Lo storico Mario Signorelli

Sempre Mario Signorelli, che assai spesso ama fantasticare, riferisce:

«Nella non lontana Caverna [dalla Grotta del Riello nella Valle del Cajo] sulla Strada del Signorino, che i più schivano nelle ore notturne, aleggia ancora il racconto del famoso Cataletto d’Oro, che quattro demoni traevano fuori nelle notti illuni, tra un tripudio di canti e di suoni.

Un mio concittadino, Federico Primavera, uomo assai savio e posato, mi ha riferito più volte che, nelle notti di luglio, quando dormiva all’aperto per sorvegliare i cordelli del grano in carratura, venne risvegliato dall’incedere di un prestigioso corteggio di diavoli dal pelame fulvo, che trasportavano detto catafalco, scintillante d’oro, pregno di luminosità tutta propria».

Sul cataletto, a forma di trono, era trasportato un uomo vestito sontuosamente. Non nascondo che da bambino, e forse anche oggi, quando mi trovo a passare davanti alla Grotta del Cataletto, allungo il passo... spontaneamente!

Il Ministero per i Beni e le attività culturali nella Dichiarazione di notevole interesse pubblico “Dal Bullicame e Riello alle Masse di San Sisto” (Ampliamento del vincolo di cui al D.M. 22/05/1985) così, nel Gennaio 2019, si esprime nella Relazione generale in merito alla Strada Signorino.

Il Bullicame nel 1925 (Archivio Mauro Galeotti)

La permanenza della viabilità antica: costruita a partire dall’età arcaica si tratta di un sistema di strade che mettevano in comunicazione i centri etruschi dell’area. Queste strade, tuttora esistenti ed utilizzate, furono realizzate in gran parte tramite lo scavo dei banchi tufacei e costituiscono le cosiddette “vie cave” o “tagliate”.

Tra le più significative sono quelle di strada Freddano e quella “del Signorino”; quest’ultima è sicuramente una delle tagliate più spettacolari di tutto il viterbese, con un lunghezza di oltre due chilometri, presenta ancora un notevole effetto suggestivo dovuto soprattutto all’altezza delle pareti tufacee, che in alcuni tratti superano i 10 metri di altezza.

Il territorio è stato fortemente condizionato dalla presenza della via Cassia, sia nel periodo romano che medievale, quando assunse la denominazione Francigena.
Il tracciato antico è ancora individuabile tra i campi, dove si è conservato, anche per lunghi tratti, il selciato originale. Inoltre sono ancora visibili resti di ponti, terrapieni e altre strutture di epoca romana.

Viterbo Ponte Camillario nel 1917 (Archivio Mauro Galeotti)

Tra i ponti si annotano quelli di Camillario e di S. Nicolao. La frequentazione di questo percorso, seppur riadattato in parte a tracciati moderni, negli ultimi anni sta ritornando in voga tra quella parte di pellegrini che vogliono recarsi a Roma seguendo le vie di pellegrinaggio storiche.

Ponte san Nicolao nel 1900 c. foto Romualdo Moscioni di Viterbo (Archivio Mauro Galeotti)

Ed ancora:

La tagliata del Signorino deve il nome al proprietario dei luoghi, il nobile Signorino Signorini. In origine costituiva probabilmente l’antico percorso viario proveniente dalla zona costiera che, passando da Castel d’Asso, si dirigeva all’insediamento etrusco esistente sul colle del Duomo.

È sicuramente una delle tagliate più spettacolari di tutto il viterbese, con un lunghezza di oltre due chilometri, questa strada, benché abbia subito nel corso dei secoli numerose manomissioni e allargamenti, nonché fruttata in alcuni punti come cava di pozzolana (per questo nota anche come Cava di S. Antonio o di Gorga) continua a mantenere i caratteri tipici delle tagliate di epoca etrusca e presenta un notevole effetto suggestivo dovuto soprattutto all’altezza delle pareti tufacee.

Attualmente sono alte in media 4/5 metri, ma che in alcuni tratti superano i 10 metri di altezza.
Le tagliate del Freddano e quella del Signorino, oltre a diramarsi in altre tagliate minori, in località S. Nicolao sono collegate trasversalmente da un’altra tagliata attraversata dall’antica via Cassia.

La tagliata del Freddano si biforca nella strada dei SS. Valentino e Ilario, conducendo sul promontorio su cui nel medioevo sorse l’omonimo centro abitato.

La tagliata del Signorino si dirama nella strada di S. Nicolao a occidente e verso oriente nella strada del Salamaro. Più a sud invece si biforca a oriente nella strada Mezzogrosso e più avanti ancora nella strada Gesù Nazareno.

Ed ancora:

Per quanto riguarda gli insediamenti rurali e lo sfruttamento agricolo dell’area, ricoprono sicuramente interesse gli interventi di bonifica effettuati dall’ing. Lorenzo Tedeschi tra fine dell’Ottocento e i primi del Novecento nelle sue tenute in località Risiere.

Lorenzo Tedeschi verso il 1890 (Archivio Mauro Galeotti)

Egli realizzò un innovativo impianto di irrigazione alimentato da una piccola autonoma centrale idroelettrica chiamata "Officina Elettrica" e, a partire dall’antico casale del Signorino (oggi noto come Villa Tedeschi), effettuò un grande intervento di appoderamento regolare a maglia ortogonale con relativa costruzione di casali colonici per ogni podere.

Di questi, oggi ne sono conservati almeno 3, individuati anche nel P.R.G. come Zona A2 e identificati con le relative schede (n. 24, 27 e 29 del fg. 10).
 

Ed ancora: 

Va infine ricordato che l’area oggetto della presente relazione, in particolare la tagliata di strada Signorino, in uno dei punti più alti e suggestivi è stata scelta quale scenografia dal regista Mario Monicelli, nel film del 1966 “L’armata Brancaleone”.


Si tratta di uno dei film più noti del cinema italiano e tra i capolavori del regista, in cui viene rievocato un medioevo che, se nell’intenzione non ha nessun valore filologico e storiografico, risulta efficace sia dal punto di vista prettamente teatrale perché impostato su tratti e vicende umane del tutto plausibili, che paesaggistico in quanto ricostruisce un paesaggio in cui è ancora la natura a predominare sull’operato dell’uomo
.

  

Chiese prossime alla Strada Signorino 

Chiesa di san Paolo a Valle

Si trovava, riferiscono gli storici Pietro Egidi e Cesare Pinzi, presso il Ponte di Signorino.

Nel 1198 la chiesa risulta appartenere al Monastero di san Salvatore di Siena, nel 1235 fu testimone di un violento scontro tra Viterbesi, Romani e Tedeschi, come riferiscono Francesco d’Andrea e Niccolò della Tuccia.

Quest’ultimo, infatti, scrive:

«certi cavalieri tedeschi dell’imperatore uscirno a far battaglia con Romani, affrontaronli al piano della Sala, e furno cacciati in sino a S.Paolo: poi uscì fora Guglielmo capitano, e cacciò Romani sino al ponte della Cava, e molti morirono tra una parte e l’altra, e furno fatti assai progioni tra di loro».

Citata ancora nel 1304, nel 1333 si dice appartenente a Farfa.

Nel 1436 è nominato un mulino in Contrada san Paolo a Valle e della Tuccia, all’anno 1473, dichiara che la chiesa è scaricata unitamente alle altre chiese lì prossime dedicate a san Valentino, sant’Antonio e a santa Maria di Risiere, «le quali quattro stanno di fori scarcate». 

Infine del 1562 è la menzione di una Cava di san Paolo «a pie’ del campo del Salamaro». Cesare Pinzi, nel 1887, scrive che «se ne veggono ancora le vestigia».

  

Chiesa di santa Maria di Risiere

Nel 1141 su un terreno donato al Monastero di san Martino al Cimino fu iniziata la costruzione della Chiesa di santa Maria di Risiere con annesso ospedale detto, nel 1208, de Resciole, o hospedalicchio.

Federico I Barbarossa, nel 1170, si accampò col suo esercito al Risiere; scrive in proposito Niccolò della Tuccia:

«Tornando poi esso imperatore da Roma con grande esercito, alloggiò nel tenimento di Viterbo in una Contrada chiamata S.Maria de Risiede».

Anche nel 1199 la zona fu residenza di un accampamento dei Romani, lo ricorda Francesco d’Andrea:

«Li Romani vennero a campo ad Viterbo allogiorno ad Risieri».

Nel 1344 appartenne all’Ordine di Gerusalemme, nel 1355 era in rovina e nel 1473 risulta scaricata.
Enzo Valentini scrive «in un cabreo dei primi del Seicento viene descritta come “...una chiesa antica rovinata fatta a modo di torre intitulata la Torre di Risieri...”».

 

Chiesa di san Valentino in Silice

La prima menzione della Chiesa di san Valentino de burgo è del 908, e nel 967 si trova ancora tale denominazione in un diploma di Ottone I, ma già nel 788, come dato dal Regesto di Farfa, esiste il luogo denominato S.Valentinum in Silice dai massi di basalto che selciavano la Strada Cassia.

Nell’829, scrive Cesare Pinzi, per ordine di Siccardo tredicesimo abbate di Farfa, la chiesa fu spogliata dei corpi dei santi Valentino ed Ilario che erano per la chiesa stessa «fonte d’ogni suo credito e il suo maggiore tesoro».

Il 24 Maggio 1082, di passaggio verso Roma, sostò nella chiesa l’imperatore Arrigo IV, accompagnato da Berardo abate di Farfa, il quale dimostrò che quella chiesa era una antica pertinenza della sua abbazia, usurpata da alcuni chierici.

Arrigo ordinò che la chiesa ritornasse in possesso di quell’abbazia; infatti, nel 1084, la chiesa fu restituita al Monastero di Farfa.

Nel Borgo san Valentino, l’11 Novembre 1123, è presente papa Callisto II e nel 1133 l’imperatore Lotario.

Nel 1137 la chiesa fu distrutta dai viterbesi con il Borgo di san Valentino, fu ricostruita e ceduta, nel 1139, da papa Innocenzo II al Capitolo di san Lorenzo.

Poiché non conteneva più i corpi dei santi Valentino ed Ilario le fu mutato il nome in santa Maria in Silice.

 

Chiesa di santa Maria in Silice

La Chiesa di santa Maria in Silice, fu eretta nel 1139, ad opera dell’arciprete di san Lorenzo Azone, o Azzone, sulle rovine dell’altra Chiesa di san Valentino in Silice.

Gli fu dato il nuovo titolo sin dal 1188 come si legge in un testamento dettato da Maccabeo di Viterbo che si apprestava a partire per la Tarrasanta. Scrive lo storico Corrado Buzzi, questo «fu forse possibile per il fatto che la chiesa non conteneva più le reliquie dei santi Ilario e Valentino trasferite da oltre due secoli all’abbazia di Farfa».

E’ menzionato, nel 1264, uno spedale di santa Maria in Silice in quell’anno, infatti, Maddalena, vedova di Pietro Dulcani, poi sposa di Benvenuto Somei, resa oblata, dona le sue sostanze all’ospedale, che doveva ancora essere in attività fino a pochi anni prima della metà del XIV secolo.  

Si ha memoria di due legati alla chiesa, pro fabrica, nel 1276 e nel 1281.

Della Tuccia la dichiara scarcata nel 1473, ma un frate, due anni dopo, la scelse quale dimora e nel 1480, ritornata efficiente per l’utilizzo, venne affittata ai frati di santa Maria del Carmelo.

Nel 1492 era soggetta alla Chiesa di santa Maria della Ginestra e due anni dopo il Capitolo di san Lorenzo l’affittò a Francesco di Gerardo di Bologna.  

Dal 1532 la chiesa non fu più officiata, poi, nel 1612, il Comune concesse un contributo chiesto da Felice di Giovanni Pietro, il quale lo impiegò per riparare il tetto; inoltre, la fece restaurare e dipingere.

Ultima citazione è del 1624, quando la chiesa è detta dei canonici di san Lorenzo.

Oggi, presso le Terme INPS, sono rimasti alcuni resti riadattati a casale per contadini.

Cesare Pinzi nel 1893 suddivide l’edificio rimasto in tre costruzioni di epoche diverse, la più antica quella da riferire alla Chiesa di san Valentino, poi altri resti del XII secolo con pitture in ocra rossa e infine sassi irregolari con frantumi di laterizi opera non anteriore al XVI secolo.

 

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