Napoleone Bonaparte al tempo della Prima Campagna d’Italia (1796-1797)

“Viva Santa Rosa!” La rosa viterbese contro la rivoluzione
Prima parte: il 1798

Stefano Aviani Barbacci 

Molti anni fa, nel corso di una visita al museo archeologico di Bolzano, mi capitò di leggere in una sala dedicata alla vicenda dell’eroe tirolese Andreas Hofer, i nomi di Viterbo e Vitorchiano in un elenco di località in cui si erano verificati moti popolari contro l’occupazione francese nell’età napoleonica.

Rimasi sorpreso: sapevo dell’insurrezione tirolese del 1809, ancor oggi assai celebrata in Alto Adige, in Trentino e a Verona (dove Hofer fu fucilato), ma poco o nulla sapevo di quelle altre che avevano causato la fine del cosiddetto “biennio giacobino” nella Penisola italiana.

Di tali avvenimenti ha trattato, tra gli altri, il prof. Massimo Viglione nel suo interessante libro “La Vandea Italiana” (la prima edizione è del 1995) che, malgrado il carattere disperso e frammentario delle fonti, cerca di restituire un quadro d’insieme dei caotici e trascurati avvenimenti che scossero la Penisola dall’autunno del 1798 alla tarda estate del 1799. Come lui stesso scrive, quando alla fine del 1798 in Italia “esplode l’insorgenza generale”, la capillarità della rivolta è tale “da risultare estremamente difficile delinearla geograficamente e ordinarla cronologicamente”.

Tra il 1798 e il 1799 Napoleone Bonaparte non si trovava più in Italia: aveva convinto il Direttorio a finanziare (con 500 casse di valori e opere d’arte frutto della spoliazione di Roma) una spedizione in Oriente che sarebbe risultata tuttavia fallimentare, concludendosi con la distruzione della flotta francese nella rada di Aboukir da parte dell’ammiraglio Horatio Nelson e la resa di ciò che restava dell’armata francese in Egitto. Il dispendioso impegno militare francese in Egitto, Palestina e Siria si sarebbe rivelato inutile e avrebbe affrettato la perdita dell’Italia sotto i colpi degli eserciti alleati della II Coalizione.

Al fulmineo passaggio del Bonaparte nella Penisola, tra il 1796 e il 1797, aveva fatto seguito lo stabilirsi delle Repubbliche Cisalpina e Cispadana e poi la nascita della Repubblica Romana. La caduta dello Stato Pontificio, l’11 Febbraio 1798, parve quasi un evento apocalittico, suscitando viva emozione nei ceti popolari. Nell’anziano papa esule (aveva 80 anni) avviato ad un destino incerto di prigionia in Francia si volle vedere un novello martire. Pio VI (al secolo Giovanni Angelo Braschi) transitò per Viterbo il 22 Febbraio e la sua carrozza fu accolta presso la Chiesa della Trinità da una gran folla guidata dal vescovo della città, il cardinal Muzio Gallo. Cadde la neve quella notte, ma i Viterbesi attesero all’addiaccio pur di salutare ancora il papa al mattino e riceverne la benedizione.

 

Fante di linea francese nella Prima Campagna d’Italia (1796/1797)

Prima di ripartire, Pio VI fece visita alle clarisse del Santuario di Santa Rosa da Viterbo, desiderando sostare in preghiera di fronte al corpo incorrotto della Patrona della città. Coinvolta nelle vicende politiche del suo tempo, ferita al braccio da una freccia nel corso di un assedio, la giovane mistica del XIII secolo era da tempo assurta a modello di intrepida fedeltà alla Chiesa. Pietro Baldassarri, nella sua “Relazione delle avversità e patimenti del glorioso papa Pio VI, negli ultimi tre anni del suo pontificato” (edito nel 1840), ci racconta che Pio VI fece aprire la teca che custodiva il corpo di Rosa e “presa riverentemente una di quelle sante mani, vi stampò con edificazione di tutti gli astanti, alquanto pietosissimi baci”.

Anche a Viterbo il popolo viterbese avrebbe assistito impotente a profanazioni, saccheggi e requisizioni messe in atto dalle autorità francesi. Il gesto del papa divenne pertanto, al di là delle sue stesse intenzioni, un punto di riferimento per la coscienza collettiva e il culto della Santa Patrona (figura identitaria che ha alimentato nei secoli un legame singolare con la città che la sociologia delle religioni e della politica definirebbe senz’altro una “religione civile”) avrebbe fatto da catalizzatore del risveglio dell’orgoglio civico, legittimando la causa della controrivoluzione. Se dunque in altre parti d’Italia si gridava “Viva Maria!”, a Viterbo il grido di guerra sarebbe stato “Viva Santa Rosa!

A parte qualche rivolta isolata, l’insorgenza anti-francese ebbe inizio nella Primavera del 1798 in territori che per lo più erano stati parte dello Stato Pontificio. In autunno, si sarebbe estesa nella gran parte dell’Italia centrale e anche a Viterbo, con la notizia che un esercito napoletano (al comando del generale Karl Mack von Leiberich) avanzava dal Sud contro i francesi. La notte che i napoletani passarono il confine della Repubblica Romana (tra il 23 e il 24 Novembre) suonarono a martello le campane delle chiese di Magliano, Sutri, Attigliano e Montefiascone e poi di tutto il Viterbese. Il 27 Novembre a Roma la folla abbatteva l’albero della libertà e le truppe francesi riparavano verso il Nord e verso la Tuscia.

In città vi fu grande euforia e la gente affollò il Santuario di Santa Rosa. Oltre che figura religiosa, Santa Rosa era un simbolo della libertà civica avendo contribuito, nel lontano 1243, alla difesa vittoriosa delle mura prese d’assalto dall’esercito dell’imperatore Federico II. Il governo repubblicano fu rovesciato e i suoi rappresentanti tradotti in stato di arresto in alcuni palazzi patrizi e alberghi. Il governo provvisorio era guidato dal “moderato” conte Giuseppe Zelli-Pazzaglia che, d’accordo col cardinal Gallo, consentì tuttavia ad alcuni prigionieri eccellenti di fuggire dal proprio palazzo e da Viterbo. La folla la prese a male: lo Zelli fu esautorato dal suo incarico, prevalse la linea refrattaria al compromesso propugnata dal giovane Francesco Dominioni e il governo della città passò nelle mani di “quattro costituenti la congregazione del Governo provvisorio”.

 

Ancora oggi Santa Rosa da Viterbo protegge la seicentesca Porta Romana

Il 27 Novembre 1798, Viterbo respinse l’attacco di un battaglione francese inviato da Civitavecchia per riportare l’ordine e liberare i rappresentanti del Direttorio. Abbandonati i morti e i feriti intrasportabili nei campi fuori Porta Romana, i transalpini sgombrarono il convento di S. Maria di Gradi (dove si erano inizialmente acquartierati) e fuggirono verso i Monti Cimini col favore del buio. Per ringraziare la Patrona si svolse per le vie di Viterbo un trasporto straordinario della celebre “macchina”, con la statua di Santa Rosa posta in alto e abbigliata con raffinati abiti parigini ritrovati nel baule di una dame francese.

L’armata del Mack tuttavia, ormai pervenuta nella Tuscia, risultò sconfitta il 5 Dicembre del 1798 dal brillante generale francese Championnet (Jean Antoine Vachier detto Championnet). Pur se inferiori di numero, i francesi sorpresero le colonne napoletane ancora in marcia e distanti l’una dall’altra attorno a Civita Castellana. Alcuni soldati napoletani, sopravvissuti agli scontri, giunsero comunque a Viterbo, ma la città si ritrovò senza alcuna speranza di ricevere più sostanziosi soccorsi. Resistette fieramente da sola per 3 settimane e il 17 Dicembre respinse un nuovo assalto delle truppe del generale François Étienne Kellermann il quale, nella speranza di appiccarvi un incendio, aveva anche ordinato il cannoneggiamento della città. Ma quando si comprese che fuori dalle mura ogni resistenza era stata ormai schiacciata, i viterbesi si accordarono (il 27 Dicembre) per la capitolazione*.

Alla fine di quell’anno i comandanti francesi nella Penisola potevano dirsi in parte soddisfatti: erano riusciti a salvare la situazione e a cogliere anche qualche nuovo successo. Il 12 Dicembre i napoletani si ritiravano anche da Roma e nel Gennaio del 1799 la “rivoluzione napoletana” apriva le porte della capitale del Sud allo Championnet che vi proclamava la Repubblica Partenopea. Ma, come è noto, ogni rivoluzione divora i suoi figli e l’invitto campione della causa repubblicana sarebbe stato presto richiamato a Parigi ed arrestato. L’Italia giacobina sarebbe rimasta un edificio precario, puntellato dalle armi francesi e a rischio di crollare ad ogni successiva spallata.

La spallata decisiva sarebbe arrivata dal Nord, nell’Aprile del 1799, quando un esercito russo comandato dal generale principe Aleksandr Vasil'evič Suvorov, si sarebbe affacciato alle porte della Penisola.

Ma di questo racconteremo nella prossima puntata.

NOTE

(*) La città trattò la resa senza cedere al panico, con la milizia fieramente schierata a presidio delle porte e delle mura. Le condizioni prospettate dal barone Alexandre-Edme de Méchin, in veste di mediatore, risultarono assai miti e onorevoli per i viterbesi, si parlò di “oblio del passato, rispetto assoluto della religione, delle persone e delle autorità, di punizione di quelli che hanno profittato dei beni pubblici” e infine (questo interessava ai francesi) di “pagamento delle forniture militari”. Entrati in città, tuttavia, i francesi daranno alle fiamme il Convento della Trinità e pretenderanno l’abbattimento delle porte lignee e di un tratto delle mura lungo 100 m. in segno di sottomissione.

 

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