Il generale russo Aleksandr Vasil'evič Suvorov, in Italia nell’Aprile del 1799

“Viva Santa Rosa!” La rosa viterbese contro la rivoluzione
Seconda parte: il 1799

Stefano Aviani Barbacci 

Per leggere la prima parte: http://www.lacitta.eu/storia/51869-viva-santa-rosa-la-rosa-viterbese-contro-la-rivoluzione.html

La Primavera del 1799 trova i francesi sconfitti dagli austriaci ed espulsi da Verona, i cavalli dei cosacchi (la cavalleria leggera di Suvorov) che pascolano nella pianura veneta e Bonaparte ancora bloccato in Palestina nell’estenuante assedio di San Giovanni d’Acri. Non solo, la cosiddetta “Armata della Santa Fede” (la milizia popolare mobilitata in funzione anti-francese in Calabria e Campania) punta su Napoli al comando del carismatico cardinal Fabrizio Ruffo di Calabria e il generale francese Étienne Jacques Macdonald (che ha sostituito lo Championnet a Napoli) medita ormai di abbandonare la capitale del Sud al suo destino.

Suvorov è uno dei più celebrati comandanti della storia russa, un personaggio che i contemporanei giudicarono bizzarro e geniale, annienta gli eserciti della Repubblica Cisalpina in una successione di scontri in Lombardia che portano alla caduta di Milano il 29 Aprile 1799. Strappa il Piemonte alla Francia e ne restituisce il trono ai Savoia. Quando le truppe del Macdonald, in marcia da Napoli, si approssimano al fiume Trebbia è ormai troppo tardi e anche quell’esercito viene infine disfatto dai russi. Napoli intanto capitola e il cardinal Ruffo firma una pace con i repubblicani, il 19 Giugno, che di lì a poco apre al ritorno sul trono (il 10 Luglio) del Re Ferdinando IV di Borbone.

Nel frattempo al Nord si era raccolto un esercito (Maggio 1799) sotto le insegne di Giuseppe Lahoz-Ortiz, un ex giacobino, già comandante della Legione Lombarda della Repubblica Cisalpina, il quale deluso a causa del trattato di Campoformio e del malgoverno francese in Lombardia era passato con i suoi dalla parte dei controrivoluzionari. Interessante notare che il Lahoz pensava già ad un’indipendenza della Penisola tanto dalla Francia che dall’Austria e a buon diritto potrebbe essere celebrato tra i precursori dell’unità nazionale.

Il Lahoz guidò truppe “regolari” italiane alla liberazione delle Marche e puntò su Ancona (uno dei capisaldi francesi nella Penisola) che investì con forza perdendo la vita il 10 Ottobre 1799 nel corso di un violento contrattacco nemico. La guerra fu funestata da episodi di saccheggio e da eccidi con numerose vittime civili. Alcuni episodi emblematici al riguardo (la riconquista francese di Macerata, il 5 Luglio) ci sono noti grazie a un testimone d’eccezione: Monaldo Leopardi, padre del più famoso Giacomo.

Fante leggero della Legione Lombarda, al seguito del Lahoz nel 1799

Nel medesimo periodo si costituì ad Arezzo la cosiddetta “Inclita Armata”, fedele al Granduca di Toscana Ferdinando II e legittimata da un proclama del Suvorov che chiamava le popolazioni italiane all’insurrezione generale. Tra Giugno e Agosto operò in direzione dell’Umbria e del Lazio (Dipartimento del Trasimeno) col sostegno di austriaci e russi. Si parlò allora di “armata austro-russo-aretina”, accreditando con ciò una partecipazione “alla pari” di quella milizia toscana ad un esercito alleato della II Coalizione. L’Inclita Armata scese nel Lazio investendo le attuali province di Viterbo e di Rieti. Nella Tuscia furono liberate Acquapendente, Castro (?), Sutri, Nepi e Civita Castellana.

Quando fu chiaro che l’armata austro-russo-aretina si avvicinava, la popolazione viterbese espulse (10 Luglio 1799) la guarnigione francese dalla città e chiese al cardinal Gallo, benvoluto e con fama di amministratore onesto, di presiedere un nuovo governo provvisorio fedele al papa (la città avrebbe dedicato al Gallo il busto che si trova oggi nella Cattedrale presso l’ingresso della sacrestia). Il governo fu invero guidato dal più giovane mons. Giovanni Battista Bussi e si diede incarico al marchese Bartolomeo Especo (patrizio viterbese di origini andaluse dal cognome Espejo y Vera, imparentato con i Marescotti e proprietario della Villa di Pratogiardino) di arruolare la milizia col compito di operare al fianco degli orvietani per proteggere la Tuscia.

Sconfitta da miliziani orvietani e viterbesi la guarnigione francese di Bassano Romano, il comandante del Dipartimento del Cimino, generale François Valterre (Waltér o Wolterre secondo le diverse fonti) intervenne contro Ronciglione (31 Luglio) che diede alle fiamme massacrandone la popolazione come monito per i ribelli. Le bandiere strappate agli insorti furono esposte a Palazzo Ruspoli, a Roma, e poi bruciate in Piazza Colonna. Il Valterre puntò allora verso Viterbo e di nuovo si prospettò il rischio di un assedio. La popolazione, memore dei fatti precedenti, invocò la protezione di Santa Rosa. Il governo provvisorio da parte sua, sperando di evitare che la città fosse investita direttamente, inviò la milizia incontro ai francesi, predisponendo un fortunato agguato presso Vetralla dove una colonna nemica fu completamente disfatta.

Una diversa colonna poté tuttavia avvicinarsi per altre vie, tentando un assalto contro Porta Romana. Era il 4 Agosto del 1799 e i francesi furono di nuovo respinti. Quando poi si diffuse la notizia dell’approssimarsi dell’armata austro-russo-aretina, i transalpini rinunciarono al proposito di prendere la città. Il Valterre, ferito alla gamba sinistra, si salvò a stento riparando a Roma la sera del 6 Agosto. Come i Viterbesi sanno, tuttora Porta Romana è presidiata da una statua di Santa Rosa e il fornice mostra alcune scheggiature prodotte dal tiro dell’artiglieria nemica (all’epoca del Kellerman) all’indirizzo della porta e della città. Una palla da cannone volata oltre le mura senza far danno si conserva nel museo della casa di Santa Rosa come ex voto.

Il 15 Agosto, a Novi Ligure, gli austro-russi coglievano ancora una grande vittoria contro le ultime truppe francesi nella Penisola, restando il Suvorov padrone assoluto del campo. Ma anche le controrivoluzioni divorano i propri figli e, un po’ per gelosia e un po’ per timori politici, si volle allontanare l’eccentrico principe dall’Italia, inviandolo in Svizzera contro la Repubblica Elvetica. Il 19 Agosto la bandiera pontificia tornava a sventolare su Castel S. Angelo, ma Pio VI non avrebbe più rivisto Roma, morendo in esilio il 29 Agosto del 1799. L’insulto alla sua persona, l’abolizione delle feste religiose, il saccheggio delle chiese e il furto (o la distruzione per alimentare i fuochi dei bivacchi) di opere d’arte e di fede venerate da secoli, contribuirono a dare sostanza e forma a quella che Viglione, riprendendo il giudizio di alcuni contemporanei, ha chiamato “la Vandea italiana”.

  

Un’immagine tipicamente settecentesca di Santa Rosa da Viterbo

E veniamo per di qui ad un ricordo personale che vorrei riferire perché non vada perduto. I Viterbesi ben conoscono Palazzo Chigi, nella via omonima, cui si accede da via San Lorenzo, proprio all’altezza del già menzionato Palazzo Zelli-Pazzaglia. Dal memoriale del barone Alexandre-Edme de Méchin (pubblicato a cura di Fernando Funari nel 2011), sappiamo che a Viterbo furono trattenuti in stato di arresto, personaggi di rango legati all’amministrazione francese.

Il de Méchin, in particolare, trascorse 27 giorni in prigionia nel Palazzo Zelli-Pazzaglia. A quel tempo, gli ufficiali e i funzionari di rango erano trattati quasi come ospiti, ai comuni soldati toccava invece di restare in custodia nei magazzini o nelle più misere stalle.

Visitando il Palazzo Chigi in gioventù, sentii raccontare dalla signora Anna Egidi e dai figli (che vi abitavano) di un certo “fantasma del francese” che ne frequentava le sale. La sua presenza si sarebbe talora rivelata dal fumo di una pipa… Una figura familiare (per così dire) anche alla generazione precedente e tuttavia nessuno avrebbe saputo dire perché lo si chiamasse a quel modo. Perché francese? Ora, la possibile presenza di qualche soldato francese prigioniero o ferito, magari intento a fumar tabacco con una lunga pipa di legno o terracotta (un tipico complemento dell’equipaggiamento militare dell’epoca*), ci consente forse di azzardare una spiegazione…

Dopo la rivoluzione, i francesi in Italia furono considerati “stranieri”, non tanto per la lingua (invero diffusamente parlata) o la provenienza d’oltralpe, ma perché, col rinnegamento della fede comune dei padri, avevano infranto il patto che li univa al corpus christianorum. Lo spiega magistralmente Franco Cardini nella sua prefazione agli atti di un convegno sull’insorgenza tirolese, pubblicati nel 1997 col titolo “Andreas Hofer, eroe della fede”. Dunque, la possibile morte di un soldato francese ferito, in custodia in quelle sale, e l’incertezza nel popolo riguardo al destino della sua anima**, ben potrebbe aver dato luogo (a parere di chi scrive) a questa favola, trasmessa di generazione in generazione all’interno della famiglia Egidi.

 

NOTE

(*) La pipa era un tipico accessorio nello zaino di ogni soldato del tempo. Nella “Storia aneddota popolare di Napoleone e del grand' esercito” di Emile Marco de Saint-Hilaire (edito a Milano nel 1844), alcuni soldati al bivacco, dopo gli scontri di Lonato e Castiglione del 4 e 5 Agosto 1796, osservano che per la rapidità dell’azione “non hanno avuto il tempo di fumare una pipa di tabacco”.

(**) I rivoluzionari d’oltralpe erano considerati apostati e senzadio e Pietro De la Tour Fontanet, nel suo “Prospetto imparziale della condotta del popolo di Viterbo in tutta l’epoca della Rivoluzione, cioè dal Febraro 1798 a Settembre 1799”, parla di “cadaveri impuri” nel riferirsi ai caduti francesi lasciati sul terreno dopo il fallito assalto contro Porta Romana del 27 Novembre 1798.

  

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