Cellere CRONACA Intervista immaginaria a Dante Alighieri, il sommo poeta
Mario  Olimpieri

 

La tomba di Dante Alighieri a Ravenna

In.= Intervistatore
D.= Dante Alighieri

In. Grande vate, da secoli tu riposi in questa tomba, e dinanzi a te saranno transitate le persone più diverse e avrai sentito i commenti più disparati nei tuoi confronti; adesso voglio improvvisarti un’intervista, sperando di ricevere (Dio sa come) le tue preziose risposte.

Intanto inizio con una personale, ma credo anche universale, curiosità: tu hai mirabilmente descritto nella Divina Commedia l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso e hai assegnato ai tuoi personaggi la loro rispettiva sede nei tre regni; ma tu (ed ecco la curiosità) in quale dei tre regni ti trovi? In quale la volontà divina ti ha collocato, dopo aver esaminato le azioni della tua vita?

D. Non voglio offrirti un’esauriente risposta; però ti dico che io ho sede dove ogni essere umano desidera che io mi trovi.

In. Se vuoi conoscere il mio pensiero, allora affermo con certezza che tu stai godendo le gioie del Paradiso, attorniato dalle gerarchie celesti, e riverente e gaudente presso il Sommo Iddio. Però (e qui permettimi un po’ di scherzare) devi sapere che molti studenti spesso ti “mandano all’inferno”, per via dell’impegnativo studio del tuo complicato poema, e soprattutto quando sono costretti a imparare a memoria molti versi dei vari Canti.

D. La risposta è implicita nella tua domanda; infatti, hai asserito che quegli studenti sono obbligati, e questo è un grave errore perché io non ho scritto con l’intento di tormentare alcuno, ma di proporre la mia opera ai volontari lettori. Riguardo alla difficoltà degli argomenti, devi sapere che lo zucchero si dà ai cavalli e non agli asini, e che le vie del sapere sono tutte in salita, ma enorme è la gioia di chi raggiunge poi il faticoso traguardo. Infine, per quel che concerne il linguaggio, non è mia colpa se sono trascorsi tanti secoli da che scrissi la Divina Commedia; tutto si evolve, compreso il linguaggio: io, ad esempio, mi spostavo a piedi o con la cavalcatura; voi invece usufruite oggi di comode e veloci autovetture.

In. Hai più di mille ragioni, Dante; e poi, sappi, che gli stessi ragazzi che in verde età si sono lamentati dei tuoi scritti, da grandi e senza l’assillo della scuola, dei professori e degli esami, hanno con entusiasmo ripreso a leggere le tue opere, apprezzandole e gustandole.

D. Dici bene, caro intervistatore; ma, a proposito, nemmeno ti sei presentato e non conosco il tuo nome.

In. Mi chiamo Mario Olimpieri, e anch’io mi diletto nello scrivere poesie.

D. Bravo, continua; intanto il tuo cognome è di buon auspicio, poiché fa rima con Alighieri, e poi, contento tu, contenti tutti: scrivi sempre con impegno e onestà e vedrai che qualche piccola soddisfazione potrà sempre giungere.

In. Ti ringrazio infinitamente, mio gran maestro, ma ritorniamo all’argomento che stavamo sviluppando.

D. Sì, certamente; infatti, volevo completare il mio pensiero, chiarendo che la Divina Commedia, senza considerare la noia procurata ad alcuni studenti, è fonte di enorme soddisfazione per tantissime persone che spontaneamente la leggono, la imparano a memoria e trasmettono agli altri questa loro passione. Conoscerai certamente l’attore comico Roberto Benigni; se mai ti dovesse capitare d’incontrarlo, esternagli tutta la mia stima e gratitudine per la sua convinta e suadente diffusione della mia maggiore opera.

In. Lo farò senz’altro perché anch’io, molto tempo indietro, rimasi incantato dinanzi al televisore ad ascoltare l’interpretazione e la spiegazione dei magnifici versi del Paradiso, e scrissi in quell’occasione, alla tua stregua, questa poesia intitolata La divinaserata, alludendo al fatto che Benigni mi aveva consentito di trascorrere davvero una serata eccezionale. Adesso te la propongo e fammi poi conoscere il tuo spassionato giudizio.

  

 La divina serata

  

   Non dite che mia mente è nell’oblio

se affermo d’aver visto ieri sera

il volto dell’eterno, eccelso Iddio.

   Quel che adesso vi svelo è cosa vera

e son deciso e pronto qui a giurare

che la deposizione mia è sincera.

   Mi conducea per mano un ver giullare

dai precedenti nobili ed insigni,

dedito ognor a ridere e scherzare:

   sì sì, quel toscanaccio di Benigni.

Celiando incominciò il suo tragitto,

poi perse i detti ameni (e mai maligni)

   ed il mio cuore fu da lui trafitto

perché con sua promessa affascinante

mi fe’ restar di stucco e alquanto zitto.

   Mi assicurò lì subito all’istante

che ben presto mi avrebbe assai stupito

e incominciò a parlar di un certo... Dante,

   di un suo vïaggio nell’empireo sito,

fino al cospetto dell’Alto Fattore,

dalla cui visïone incenerito

   ei non rimase, ché il buon Creatore

miracolo gli fece sovrumano

di resistere a tanto suo splendore.

   La guida ancor di più strinse mia mano

e sicura promise che anch’io,

(sebbene il sole fosse ormai lontano),

   vedere avrei potuto il Sommo Iddio.

Giunti in prossimità di un verde prato,

in pieno soddisfece il mio desio:

   indicommi un bel fiore lì sbocciato

e disse a me, che titubante ero,

essere proprio quello il Dio cercato;

   ed affermo che Dio vidi davvero.

Proseguimmo il cammino e un po’ più avanti                                                 

scorgemmo nel bel mezzo di un sentiero

   due pettirossi allegri e saltellanti.

Il cuore mi batteva, e il passo incerto

fe’ dire al duca mio: “Che fai, t’incanti?”.

    “Sì”, risposi, “ché Dio ancor scoperto

ho in queste delicate creature;

l’ho visto, credimi, ne sono certo!”.

    Sorrise il mio maestro, e più premure

ver’ me manifestò; colse un trifoglio

dicendo: “Fissa con pupille pure

    sì misteriosa pianta”, e con orgoglio

giuro che vidi lì Dio uno e trino

assiso nel fulgore del suo soglio.

    Poi, come uscito da un sogno divino,

ebbi di nuovo la normal visione;

più non c’era la guida a me vicino,

    e provai una strana sensazione.

Perduto l’iniziale turbamento,

in possesso tornai della ragione;

    procedetti con passo molto lento,

sentendo l’animo rinvigorito,

il cuore in pace, forte e assai contento

    perché gran verità aveo capito:

tutto è Dio quel che vedo e tutte belle

son le creature del mondo infinito,

    dall’umil bruco alle fulgenti stelle.

 

D. Ma bravo; anche tu hai scritto in terzine dantesche e mi sei davvero piaciuto, soprattutto quando hai ben usato similitudini e pensieri poetici. 

In. Certamente tu, caro Dante, ti saresti espresso in maniera davvero divina e con celestiale bravura; io purtroppo…

D. Adesso non ti buttare giù e non deprezzarti troppo; sii felice del tuo modo di scrivere, e poi il giudizio lascialo formulare ai lettori, sempre giudici sovrani.

In. Ti ringrazio.

A questo punto avrei ancora da porgerti tante domande e da sciogliermi parecchi dubbi, però, per questione di spazio e per non annoiare troppo i pazienti lettori, voglio affrontare un solo argomento, quello relativo alla famosa Pia del Canto V del Purgatorio.

Sappi che giorni indietro ho avuto modo di leggere un libro sull’argomento, nel quale l’autore ha formulato varie tesi, impostato ipotesi, ma al termine, non solo non ha chiarito i suoi dubbi, ma li ha anche aumentati nella mia persona.

Un po’ di colpa l’hai anche tu, Dante, perché durante il tuo incontro nel Purgatorio con il nostro personaggio non hai svelato alcunché di preciso e ti sei espresso vagamente e appena in sette misteriose righe.

Tu hai scritto:

    Deh, quando tu sarai tornato al mondo

e riposato della lunga via,

– seguitò il terzo spirito al secondo –

     ricorditi di me che son la Pia.

Siena mi fe’, disfecemi Maremma:

salsi colui che ‘nnanellata pria

     risposando m’avea con la sua gemma.

 

Pia, e basta, per far scervellare scrittori, lettori e cantastorie di tutti i tempi; ma quale Pia? La maggioranza si è pronunciata per la giovane e leggiadra Pia de’ Tolomei ed ha riconosciuto in Nello Pannocchieschi, marito geloso e ambiguo, colui che l’aveva sposata “ ‘nnanellata” e poi fatta uccidere, erroneamente, per infedeltà coniugale. Il sicario sarebbe stato un certo Ghino, che avrebbe preso Pia per i piedi, mentre era affacciata alla finestra del castello di Pietra, facendola precipitare nella valle sottostante, così profonda “che mai di lei non si seppe novelle”.

Devi sapere, caro Dante, che da noi in Maremma questo triste episodio è spesso ricordato dai nostri vecchi ed ha posto in fermento moltissime menti, e ognuno commenta il tutto un po’ a modo suo; ora io ti prego, sii chiaro; questa è l’occasione migliore affinché tu mi possa svelare l’arcano, ed io, a mia volta, potrò comunicarlo agli altri.

D. Non ti voglio deludere, e tu sarai il primo a conoscere l’intera verità e a fartene portavoce verso tutti i dubbiosi. Ebbene, devi sapere che la Pia da me incontrata durante il viaggio nel Purgatorio era…

<Signori, la visita è terminata; prego, avviatevi verso l’uscita, con ordine e sollecitudine. Scusi…, dico anche a lei signore; perché rimane lì fermo e non segue le altre persone?>.

      “Le chiedo scusa, ma avrei proprio bisogno di ricevere l’ultima e più importante risposta…”

<Ma da chi, se non c’è più nessuno? Via non si faccia troppo pregare…>.

      “Ma Dante doveva svelarmi…”

<Non sia ridicolo: ha pure una certa età…!>.

In. Caro Dante, che cosa ne sa questo ligio custode di quanto stava avvenendo tra noi? Anche lui ha ragione, ma un finale così non ci voleva, proprio adesso che avrei chiarito ogni dubbio sulla Pia; sarà per un’altra volta: oggi parto per Cellere, e chissà quando potrò ricapitare qui a Ravenna; ma tanta è la mia curiosità che presto tornerò a farti visita. Ci puoi contare! 

                                               F I N E

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