Viterbo STORIA Via Marconi? 62 anni fa, nel 1952, la “Macchina” la percorse per il VII Centenario della morte di Santa Rosa
di Vincenzo Ceniti

La Macchina di santa Rosa
di Rodolfo Salcini

Nel 1952 Rodolfo Salcini realizzò un nuovo modello che non incontrò il favore dei Viterbesi. Criticato anche il passaggio a via Marconi.

Di nuovo via Marconi a fare da quinta alla “Macchina” di Santa Rosa che quest’anno, in omaggio al riconoscimento Unesco, prolunga il secolare percorso aggiungendo un’andata/ritorno da piazza Verdi fino al monumento dei “Facchini”. Questo, almeno, è quanto proposto al Comune dagli stessi facchini

L’unico precedente della storia è quello di sessantadue anni fa, allorquando nel 1952 la “Macchina”, per il VII Centenario della morte di Santa Rosa, fece la stessa appendice, con dietrofront davanti alla Chiesa degli Almadiani.  

Allora la variante al percorso la decise il Comune (sindaco Felice Mignone con i suoi sodali Vincenzo Ludovisi, Gaetano Barili, Michele Lomonaco, Carlo Minciotti) d’intesa con la Prefettura (prefetto Orlando Limone) per dare importanza, si diceva, alla nuova direttrice di Viterbo (“La via del futuro nello sviluppo urbanistico della città”) che stava prendendo forma e tono dopo l’abbattimento  del “dente” di palazzo Monarchi (davanti all’attuale farmacia Montalboldi), che ostruiva la vista del Teatro dell’Unione da piazza del Sacrario.

E che Teatro! In quel 1952 l’Unione usciva ristrutturato e abbellito (spesa finale 65 milioni di lire) dopo una forzata chiusura in seguito ai danni della guerra. La riapertura avvenne il 4 settembre con la “Manon” di Massenet interpretata dal tenore viterbese Cesare Valletti (nel ruolo del Cavalier Des Grieux) che, visti i modesti fondi di bilancio, si esibì gratuitamente (altri tempi).

Via Marconi accoglieva da poco anche la nuova ed elegante sede dell’Ente Provinciale per il Turismo (presidente Giuseppe Siciliano de’ Gentili) e il Salone Fiat gestito da Augusto Garbini. Di lì a poco, lungo la via, avrebbero aperto anche il Salone Lancia di Adriano Graziotti e il ristorante “La Scaletta” di Goffredo Proietti.   

Ma veniamo alla “Macchina”. Quella del 1952 (costo finale 15 milioni di lire) fu un pomo della discordia che alimentò non poche polemiche. Si veniva da un vecchio ed abusato modello d’impronta gotica di Virgilio Papini, cui i Viterbesi erano abituati e affezionati, anche se un po’ annoiati.

Al concorso “internazionale” del 1951 venne preferito dalla Commissione (tra i membri Angelo Canevari e Francesco Nagni) il bozzetto del giovane e aitante architetto viterbese Rodolfo Salcini (allora poco più che quarantenne), assistente alla facoltà di Architettura dell’Università di Roma.

Al suo fianco collaborarono lo scultore Francesco Coccia, già segretario della “Quadriennale di Roma” e Ugo Viale, Ordinario di Scienza delle Costruzioni dell’Università di Roma.

L’appalto per la costruzione venne affidato a Romano Giusti che si avvalse per la direzione tecnica di Domenico Smargiassi e per quella artistica di Angelo Canevari, oltreché di operai e tecnici di Viareggio specializzati nella costruzione dei carri di Carnevale.

La “Macchina” di Salcini fu un pugno allo stomaco per molti viterbesi che non condividevano l’”innovazione rivoluzionaria” del giovane architetto. Via il tradizionale impianto gotico, il traliccio in legno, i lumini a cera e spazio ad una intelaiatura di metallo leggero, illuminazione cangiante al neon per simulare una pioggia di rose.

A bocce ferme e con animo sereno va ricordato – come a quel tempo osservarono alcuni – che la “Macchina” di Salcini, seppur radicalmente innovativa, era frutto di un attento studio dell’ambiente scultoreo e dell’architettura viterbese (case e fontane soprattutto). Del resto l’adeguare il modello ai tempi era stata sempre una delle preoccupazioni dei costruttori attraverso gli anni.

Non solo contestata, ma anche “sequestrata”. Quella “Macchina” venne contestata a tal punto che alcuni proposero una sottoscrizione popolare per far passare, mezz’ora dopo quella ufficiale, una seconda “Macchina” con uno dei modelli non premiati. Altri proposero una sottoscrizione privata per realizzare una “Macchina” con i bozzetti esclusi.

Lo scultore Coccia, collaboratore di Salcini, chiese il sequestro della “Macchina” all’autorità giudiziaria perché la realizzazione di alcune figure non era stata conforme al progetto: gli angeli erano più “carnosi” che mistici. Per il bene di Santa Rosa l’istanza venne ritirata in tempo a fronte di un equo indennizzo stabilito da un’apposita commissione di artisti di “chiara fama”.

Ma non finisce qui.

Si polemizzò anche sulla direzione del trasporto. Negli anni precedenti con Papini, costruttore e ideatore, non c’erano problemi. Ma tra Salcini e il costruttore Romano Giusti sorsero preoccupanti rivalità. Prevalse il buon senso e la “Macchina” venne affidata a Giusti con il consenso dei “facchini”.

Da ridire anche sulla mancata utilizzazione di alcune parti delle vecchie macchine com’era scritto nel contratto. E qui scesero in campo gli eredi dei Papini a reclamare i loro diritti. Anche in questo caso ci fu un bonario accomodamento. La nuova “Macchina” aveva un’armatura metallica e le vecchie strutture di legno non potevano essere utilizzate.

Polemiche anche sul tragitto. Portarla a via Marconi, si diceva, significa svilire la tradizione e lo stesso spettacolo, data la sproporzione tra la “Macchina” e i moderni caseggiati della via.

In un primo momento, per sollevare i facchini dall’eccessiva fatica, si pensò di eliminare dal percorso la salita di Santa Rosa e di terminare il trasporto in piazza Verdi. Le suore ci misero più di una “preghiera” e alla fine la “Macchina” arrivò fino al sagrato del Santuario.

Ho assistito a quel trasporto e ricordo le molte critiche rivolte alla decisione di via Marconi. In effetti in quel tratto la “Macchina” perse quel pathos che si accende quando passa tra le vie strette della città.

“Mai più un simile esperimento” fu detto un po’ da tutti. “Con la tradizione non si scherza”.

Ed ora qualche curiosità.

Per l’assemblaggio delle parti inferiori si utilizzò la chiesa di Santa Maria della Verità (non ancora riconsacrata). Venne anche effettuata intorno alla metà di agosto, di buon mattino e con successo, una prova di portata, con il solo traliccio metallico (alto 27/28 metri opera dei f.lli Felicetti), opportunamente zavorrato, tra piazza San Sisto e piazza Fontana Grande (e ritorno).

I “facchini”, oltre a vino e dolciumi offerti da privati, ricevettero un compenso simbolico a testa di 300.000 lire. Alla gara per il bozzetto, che come detto era a livello internazionale, parteciparono anche alcuni progetti di artisti scandinavi che pervennero però a termini scaduti.

Come antivigilia delle “Feste di Santa Rosa” venne ospitato in agosto al campo sportivo il Carro di Tespi (dell’Enal) con la rappresentazione dell’”Aida” diretta da Romeo Arduini. Tra gli interpreti il baritono viterbese Raffaele De Falchi (Amonasro).

Le Feste durarono una settimana. Nel cartellone: concerti bandistici, concorso pirotecnico, riapertura dell’Unione con quattro rappresentazioni: due di “Manon” e due di “Traviata” ambedue dirette da Riccardo Santarelli, illuminazione del Palazzo dei Papi nel versante valle di Faul, tombola di lire centomila e corse al galoppo alla Quercia.

Le celebrazioni religiose includevano, tra l’altro, il solenne Pontificale con il card. Clemente Micara, vicario generale del Papa, la processione con il cuore della Santa (pomeriggio del 4 settembre), la traslazione del corpo di Mario Fani dal Cimitero di San Lazzaro al Santuario di Santa Rosa e una rappresentazione sacra sulla Santa.

Il 3 settembre venne anche disputato, nel pomeriggio del 3 settembre, un incontro di calcio tra la Roma e la Viterbese finito col punteggio di 12 a 1. Tra i giallorossi Adami, Bortoletto, Venturi, Tre Re, Bronèe, Galli e Renosto. Nelle fila della Viterbese, tra gli altri, Amorosi, Brugiotti, Patara, Bernini, Lucaccioni.   

Va considerato che le “Macchine” di quegli anni non avevano la risonanza che hanno oggi e l’affluenza di pubblico cui siamo abituati da alcuni anni a questa parte.

Intanto non c’era la diretta partecipazione durante il trasporto delle autorità cittadine che si limitavano a salutare i facchini a piazza del Plebiscito. Pensate che il Comune era rappresentato da un solo consigliere “addetto al trasporto” il prof. Michele Lomonaco.

Non c’era la folta presenza dei giornalisti né, ovviamente, della televisione. E’ emblematico il fatto che alle ore 17 del 3 settembre si tenesse a in piazza del Plebiscito un concerto bandistico. Oggi sarebbe impensabile.

Ultima annotazione.

In quel 1952 venne ufficialmente riaperta al culto la Cattedrale di San Lorenzo, dopo i lavori in seguito ai bombardamenti aerei, con la consacrazione dell’Altare Maggiore da parte del Vescovo Adelchi Albanesi.

Vincenzo Ceniti
Console Touring di Viterbo

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