Viterbo STORIA
Mauro Galeotti

Viterbo 1924 Carro di Carnevale "Torre della bella Galiana" in Via Roma, già Via dell'Indipendenza e Via della Calzoleria (Archivio Mauro Galeotti)

Viterbo 1926 Carro di Carnevale "Carro del mondo" in Piazza Fontana Grande (Archivio Mauro Galeotti)

Viterbo 1928 Carro di Carnevale "Visione imperiale" in Piazza Fontana Grande (Archivio Mauro Galeotti)

La prima testimonianza che ho trovato del Carnevale a Viterbo è dell’11 Febbraio 1198, infatti, Francesco Orioli ricorda una pergamena, con quella data, in cui il podestà Rainerius Peponis, Raniero di Pepone, a nome dell’Università viterbese e dei rettori della città, stipulò con i quattro condomini di Valentano di fare guerra o pace secondo quanto ordinava il Comune di Viterbo «e di pagare in carnevale ogni anno X libre di buoni sanesi».

Altra menzione del Carnevale è del 1227, ce la tramanda Lanzillotto, il più vecchio cronista viterbese, il quale cita il Carnevale a Viterbo, infatti, scrive:

«del mese di Febraro il Venerdì del Carnevale li Brettoni dettero la Battaglia alla Torre de Bartolomeo de Panza».

Lo stesso cronista riferisce all’anno 1244, «Adì 12 di Febraro il Sabato di Carnosciale [Carnevale] certi Selvajoli di Viterbo andorono a predar Vetralla et pigliarono quantità grande di pecore».  

Anche nello Statuto di Viterbo del 1251 - 1252, nella rubrica 138, è citato il Carnevale viterbese in merito alla Corsa all’anello che si teneva in città.

Nella rubrica 234, del medesimo Statuto, sono specificati i giochi che erano tenuti durante gli ultimi tre giorni di Carnevale, tra i quali anche la Corsa col sacco.

Le gare con i cavalli erano le più sentite ed apprezzate dal pubblico.

Al vincitore era dato un animale oltre il premio; domenica e lunedì era donato un montone con il pepe, o similari, a simboleggiare la virilità; il martedì alcune galline, o simili, simbolo della vittima sacrificale durante il rituale della morte del Carnevale.

In un atto del 1281, contenuto nella Margherita comunale, è ancora ricordata una corsa di cavalli in assetto di guerra col premio di galline al vincitore. In questo caso, per il Carnevale, erano chiamati ad organizzare i giochi, Pietro e Manfredi di Vico quando il Comune di Viterbo definì l’infeudazione, in loro favore, del Castello di san Giovenale.

Nel 1307 in un accordo tra il Comune di Viterbo e Poncello Orsini, quest’ultimo, per ottenere in feudo il Castello di Vallerano, dovette obbligarsi a far correre un palio per Carnevale.

Un altro riferimento al Carnevale è tratto dagli Allibrati della Chiesa di sant’Angelo in Spatha e porta la data 12 Febbraio 1346; sono interessati gli Ebrei della città:

«Judaei Civitatis Viterbii pro redditu quo tenentur Communi Viterbii in festo Carnisprivii solverunt librae C».

Altra memoria è all’anno 1391:

«Dopo la victoria havuta li Viterbesi pigliarono Angelo di Casella […] et fo pigliato il martedì di Carnesciale [Carnevale]».

Ora la parola a Niccolò della Tuccia, il quale all’anno 1461 ricorda:

«A dì 15 del mese di febraro, fu la domenica di carnevale. In quelli tre dì, cioè domenica, lunedì e martedì, fu fatta per la città di Viterbo grandissima festa di mascare [maschere] de’ giovani contravestiti di moltissime fogge, più che fusse fatta di molti anni innanzi, e mesticaronsi insieme a fare detta festa Gatteschi e Maganzesi con grand’amore e piacevolezza tra loro, che pareva, a vederli, una devozione; e questo avvenne per cagione che ogni uno aveva caro stare in pace a casa sua».

Il priore, fra’ Francesco da Viterbo, del Convento di santa Maria del Paradiso, il 23 Marzo 1469, pose alla discussione del Consiglio comunale la possibilità di proibire l’uso della maschera durante il Carnevale.

Il 30 Aprile 1475 il Consiglio generale del Comune stabilì un regolamento per i giochi con i cavalli e i somari, da realizzare anche durante i tre giorni del Carnevale: festivitate carnis privii.

Ecco alcune disposizioni di quell’anno.

Negli ultimi tre giorni delle Feste di Carnevale si effettuavano corse di cavalli viterbesi e di cavalle viterbesi col fantino, di asini col ciucaio, corsa dei pedoni tutti partenti da Porta Faul alla Colonna Monaldesca, Columna fabulis, che era nei pressi della Chiesa di santa Croce sulla Valle di Faul, una balestra e un elmo erano il premio per la Quintana e venti soldi al vincitore della Corsa all’anello. Tutte le manifestazioni si tenevano a Faul.

«Allora in Faul», leggo dalla Gazzetta di Viterbo del 23 Giugno 1877, «non esisteva la vigna, che vi è stata piantata sul principio di questo secolo: era tutto campo. Nel carnevale si facevano più corse di cavalli, cavalle, asini ed uomini, il tiro alle frecce, ed il gioco dell’anello: la corsa dei cavalli, che in questa circostanza dovevano esser viterbesi, si faceva in Faul, e il pallio, che davasi in premio, veniva piantato sulla colonna [di ser Monaldo], che tuttora esiste presso l’antico cimitero dell’ospedale [presso la Chiesa di santa Croce a Faul]. Nelle altre circostanze i pallii si esponevano fuori delle finestre del palazzo comunale, come si è costumato fino ai nostri giorni per le corse di S. Rosa».

Un bando del 14 Febbraio 1529 stabilisce:

«Per parte et commandamento de Monsignor Reverendissimo viceligato [si] fa banno et publico proclama che nella festa de hoggi sotto la pena de quatro ducati de oro per ogni persona tanto maschio quanto femina da applicarsi alla fabrica del palazo che nissuno ardisca o prosuma farsi mascara [maschera] o fare et ballare ma vadino a vedere correre li Palaii [leggi Palii] accustumatamente. Altramente serrà exeguita la pena di facto per chi contra farrà etc.».

Un altro bando comunale del 20 Gennaio 1531 avvisa:

«Per parte et commissione et mandato del Reverendo Monsignor Bontempo Prothonotario apostolico della Provincia del patrimonio Vice legato.

Se fa bando et publica grida che nisciuna persona de qual grado stato conditione tanto forense quanto vitorbese ardischi nè presumi mascherarse de nisciuna sorte, nè de dì, nè de nocte sotto pena et alla pena de tre tracti de corda et cinque ducati de oro da applicarsi per un terzo alla camera apostolica et per un terzo alla fabrica del palazo et l’altro terzo alli executori per ciaschuna volta contra farà al dicto Bando senza nostra expressa licentia o del Capo executore al quale sian tenuti notificarsi nanti che si maschirino».

Una memoria del 1590 ci ricorda che gli Accademici Ostinati erano compensati per una commedia eseguita durante il Carnevale di quell’anno.

Nel periodo di Carnevale del 1597, il 13 Febbraio, venne effettuata la Gara del Cerchio, quali premi venivano dati: scopette, stringhe di seta, stringhe di capicciuola, specchi quadrati, guanti fini, speroni e legacci.

Nel secolo XVII il Carnevale a Viterbo fu animato da palii con cavalli, cavalli trottaroli, asini, corse all’anello, giostre del Saracino, corse di fanti a piedi e commedie.

Nel 1604, in onore del Carnevale, fu organizzato, in Piazza del Comune, un Castello della Cuccagna, niente altro che il nostro albero della Cuccagna. Per la corsa dei cavalli nel medesimo anno, in premio al vincitore era dato un damaschetto verde e rosso.

Anno 1622 «Per la Corsa del Saracino.

Volendo li molto Illustrissimi Signori Conservatori del Popolo dell’Illustrissima Città di Viterbo tra gli altri trattenimenti di Carnevale ordinano la Corsa del Saracino con le solite lance e concedere gli infrascritti premi alli vincitori per il presente pubblico bando si fa intendendosi a tutti quelli, che vogliono esporsi à simile impresa, che saranno ammessi con l’osservatione delli sottoscritti capitoli, e non altrimente».

Anno 1636 «Corsa del Saracino.

Volendo gli Illustrissimi Conservatori del Popolo dell’Illustrissima Città di Viterbo tra gli altri trattenimenti di Carnevale ordinare la Corsa del Saracino con le solite lance e concedono l’infrascritto premio alli vincitori per il presente pubblico bando si fa intendere a tutti quelli che vogliono esporsi a simile impresa che saranno ammessi con l’osservatione delli sottoscritti capitoli e non altrimente».

Lo Statuto di Viterbo del 1649 riferisce:

«Inoltre che nelle corse di palii in altre occasioni fuori delle fiere si osservino i medesimi capitoli, con l’istesse pene, e nella corsa de i ronzini di Carnevale corrono i cavalli che non hanno mai vinto palio alcuno».

Nel 1660 fu costruito un nuovo palco nella «Sala della Comedia» all’interno del Teatro dei Nobili che si trovava nel Palazzo del Podestà, in Piazza del Comune, ciò fu possibile grazie al contributo richiesto in quell’anno in una commedia tenuta a Carnevale.

In tempi più vicini a noi, nel 1810, i veglioni autorizzati in maschera nel Teatro del Genio erano quattro, «nelle sere di Mercoledì 21, Lunedì 26, Mercoledì 28 Febbrajo, e Lunedì 5 Marzo […].

Questi si danno dagl’Impresarj colla conosciuta decenza degli altri Anni, e sotto le regole della polizia, che verranno publicate dall’Autorità competente. 

L’Ingresso, ossia il Bollettino, è di bajocchi dieci».

Nel 1814 erano proibite le «maschere satiriche, e tendenti a qualificare il carattere di persone Sagre e Religiose, e di qualsivoglia altra costituita in officio autorevole, pubblico e ministeriale, e d’indossarne, o portarne gli abiti, le insegne, i distintivi, come sono altresì vietate quelle, che possono offendere, o compromettere la decenza, e la tranquillità dell’ordine pubblico, come ancora vietiamo di portare qualunque sorta di armi, tanto offensive, che difensive».

Lo stesso anno non era consentito attraversare negli ultimi otto giorni di Carnevale le strade corriere con carri carichi d’olio, carbone, letame, fieno, paglia e botti. 

Il delegato apostolico Gregorio Fabrizi, il 19 Gennaio 1826, a mezzo pubblicazione di un Editto per le maschere, consentì l’uso della maschera dal 21 Gennaio al 7 Febbraio.

Erano esclusi i giorni festivi, il Venerdì, la Vigilia e la Festività della Purificazione della Madonna. Si poteva uscire di casa mascherati non prima delle ore 20 «ed al tocco delle ore 24 dovrà ciascuno levarsi la Maschera dal volto».

Dopo la mezzanotte era consentito l’uso della maschera solamente all’interno delle sale da ballo, ed era proibito mascherarsi da religioso, da impiegato governativo, da impiegato giudiziario e da autorità. «Le donne segnatamente dovranno osservare nel loro vestiario di maschera tutta quella decenza, che è consentanea all’onestà, al buon’ costume, ed alla Cristiana modestia».

Era proibito a chi si mascherava di dire motti, parole o fare gesti immorali e ingiuriosi; di fare strepiti e causare tumulti; di entrare nelle abitazioni altrui; di sporcare le strade o le piazze con immondizie; di portare sassi, bastoni ed armi in genere.

Chi era trovato mascherato «soprafato dal Vino, sarà immediatamente arrestato, e punito sommariamente».

Chi voleva organizzare feste da ballo in maschera nella propria abitazione, doveva essere autorizzato dalle autorità governative ed era responsabile sia di ciò che fosse accaduto durante l’intrattenimento che della identità delle persone ospitate.

Nel 1830 da Gennaro Sisto, delegato apostolico, era proibito il lancio dei confetti e l’anno appresso era vietato il divertimento detto dei Moccoletti.

Il delegato apostolico Marcello Orlandini, con notificazione del 16 Gennaio 1845, intima:

«Che anzi a rimuovere possibilmente ogni causa di disordine resta rigorosamente interdetto l’accedere al corso [delle maschere] con armi di qualunque specie anche non proibite alla delazione, lo scagliare qualche frutto, confetti di gesso, e puzzolana de’ quali ultimi rimane anche proibito lo spaccio, e la fabbricazione».

Inoltre:

«Nell’ultima sera di Carnevale volendosi fare il divertimento delli moccoletti, dovrà questo terminare all’ora di notte in punto, rimanendo però proibito il togliere dalle mani altrui gli stessi moccoletti, accostarli agli abiti di chicchesia, ed accendere fiaccole di pece, di olio, di grasso, e di qualunque altra specie atta a tramandar fetore, ed a lordare le vestimenta».

Il delegato proibì ai ragazzi, privi dell’accompagno del genitore, di entrare nella sfilata delle maschere, «sì perchè taluni soverchiamente piccoli possono facilmente essere sopraffatti in ispecie nei giorni di molto concorso dall’affollamento del popolo, sì perchè altri di maggiore età si permettono soventi volte insolentire e recar molestia alle persone in maschera».

Andrea Pila, commissario pontificio straordinario, con notificazione sul carnevale del 9 Gennaio 1850, tra l’altro ordina:

«E’ proibito affatto l’uso della maschera, e qualunque contraffazione sul volto, non solo con barbe finte, ma eziandio con tinture, ed altri artifizj, sì di giorno, che di notte, ed in qualsiasi luogo, tanto pubblico, quanto privato, inclusivamente ai teatri, festini e veglioni».

Nel 1870 il delegato apostolico Giovanni Battista Santucci, con notificazione del 19 Febbraio, proibisce, tra le altre cose, «l’ingresso con maschera nelle bettole, trattorie, locande e in qualunque altro ridotto. […] Niuno con maschera o senza potrà scagliare qualsiasi oggetto o materia atta a nuocere le persone, od imbrattare il vestiario, essendo permesso soltanto il gettito di confetti regolarmente confezionati, e di piccoli mazzetti di fiori».

Nel 1872 il sotto prefetto C. Pallotta proibisce di «far getto di coriandoli di gesso» e nel 1888, il sotto prefetto Fabris dispone:

«E’ proibito portar armi, bastoni e far getto di aranci, farine, gesso e di tutto ciò che può recare alle persone danno o molestia e provocare in qualsiasi modo pubblici e privati disordini».

La Gazzetta di Viterbo del 22 Febbraio 1873 lamenta:

«Finora niente di buono, come sempre. Non un carro, non una carrozza e nemmeno gettito di coriandoli. 

Solo una novità abbiamo avuto le maschere di domenica. […] il Giovedì grasso ci spiacque essere spettatori di un fatto. Il Capo delle Guardie Municipali prese a percuotere con calci un di quei tanti ragazzi che fan chiasso dietro le maschere; e siccome questi si risentiva di quel brutale trattamento lo agguantò e trascinò per le orecchie.

Questo feroce agire mosse l’indignazione di tutti; e giustamente; perocchè non ci par egli modo cotesto di correggere ed impedire i disordini, ma piuttosto di accrescerli.

E noi preghiamo il Sig. Sindaco ad ammonire le sue guardie di usare quel garbo e quelle civili maniere che si convengono fra gli uomini, che per quanto ineducati e pessimi non sono poi bestie; e a nessuno piace di essere trattato come e peggio delle bestie».

Nel 1874, per meglio regolare i divertimenti del Carnevale, fu proposto di creare una apposita associazione che ne curasse lo svolgimento. Per organizzarla ne prese carico la Società dei Coreofili, la quale riunì più individui in una commissione; lo stesso anno, con regolare Statuto, fu così istituita la Società del Carnevale.

In quell’anno aveva sede nel Convento di san Paolo ai Cappuccini, dopo la soppressione dei conventi da parte dello Stato italiano, convento che fu adibito anche a caserma, scuola.

Le serate danzanti erano organizzate dalla Società del Buonumore al circolo e al teatro. 

L’anno seguente fu dato alle stampe il Bullettino del carnevale viterbese: Il Frisigello.

Ma chi era Frisigello?

Era la sesta nobiltà di Viterbo, così ci ricordano i cronisti Cola di Cobelluzzo e Niccolò della Tuscia, era uno jollaro, scolaro, un giullare abilissimo, che si chiamava Frisigello, o Fisigello, Frisignello, Cristigello, Gristigello a seconda del cronista che scriveva, del quale si faceva memoria nel porticale della Chiesa di sant’Angelo in Spatha. 
Egli «faceva giochi maravigliosi di nove maniere, il quale in quel tempo non trovava pari, et ne fu fatta certa memoria nel porticale della chiesa di s. Angelo della spada nella pariete d’avanti», così ricorda Niccolò della Tuccia.

Perché allora non proporlo a pieno titolo: maschera di Carnevale di Viterbo?

Le società, nel 1889, che si contendevano il pubblico viterbese con i loro veglioni erano: del Carnevale, di cui era presidente Giuseppe Contucci; della Follia, presidente Aristide Saveri; dell’Unione, ne era presidente l’avvocato Fabio Ludovisi; del Buonumore, presieduta da Publio Battigalli; la Democratica; la Società dei Veglioni e quella dei Capricciosi.

Della Società dell’Unione ho un carnet del 1889 per la serata di ballo in maschera all’Unione organizzata il 4 Marzo. In quell’occasione era prescritto l’abito da passeggio e le persone in maschera dovevano farsi riconoscere all’ingresso.

Il reggente la Regia questura della Provincia di Viterbo, Ceniti, con manifesto del 22 Gennaio 1930, ordina:

«Durante il prossimo carnevale è rigorosamente vietato comparire in maschera nelle vie, nelle piazze e negli altri luoghi all’aperto. […] Sono vietate, in ogni caso, le maschere che destino ribrezzo, che offendano il buon costume o la Religione e che usino abiti e distintivi militari od ecclesiastici».

Consentiva:

«il lancio delle stelle filanti ed il getto di coriandoli, sempre quando questi ultimi non siano commisti a corpi contundenti e non siano raccattati da terra». Le mascherate in quei tempi erano assai belle e rifinite nei dettagli.

Nel 1924 l’Unione per il risorgimento del Carnevale realizzò due bei carri, il primo aveva per titolo Maschere italiane; il secondo Torre della bella Galiana, che vinse un doppio premio di milleduecento lire. Un altro carro era intitolato Ippodromo.

Verso il 1925 fu fondata la Società del Carnevale, fu eletto presidente per acclamazione Igino Garbini.

Nel 1926 furono realizzati i carri: Carro mitologico; Carro del mondo, con rappresentate le cinque razze umane, premiato col primo premio di mille lire; del Club musicale viterbese e quello della Radiotelefonia, «che fu una modesta satira a questa recente grandissima invenzione».

Nel 1928 fu realizzato un carro che sosteneva un tempio, era intitolato Visione imperiale, era trainato da una coppia di buoi ed animato da personaggi vestiti da antichi Romani.

Negli anni ‘50 e ‘60, dopo un periodo di stasi, fu ripresa la tradizionale sfilata dei carri allegorici, ma ben presto tutto è tornato come prima e vani sono stati gli sforzi di alcuni animatori viterbesi perché la tradizione riprendesse negli anni successivi.

Ma la volontà dei Viterbesi ha fatto sì che negli anni ’80 ci fosse una ripresa, in quegli anni sui carri era anche il mio amico Alfio Pannega con un cappello di paglia e un sacco di per “maschera” e così anche agli inizi del 2000 e per ultimo il 6 marzo 2011 con una rossa Ferrari, due grandi animali, una balena e un tartarospo, un bosco stregato con mostri gufi e pipistrelli, Asterix e Obelix con una raffigurazione degli eroi gallici, i mitici anni ‘70 con i figli dei fiori e il gigantesco Super Mario Bros.

Il Carnevale è stato realizzato grazie alla collaborazione tra l’Associazione Culturale D.E events e l’Associazione Carnevale di Vitorchiano, nonché con il sostegno ricevuto dall’Amministrazione Comunale, dalla Provincia di Viterbo e dal Consiglio Regionale del Lazio.

In questi ultimi tempi, se il Carnevale viterbese si è risvegliato, il merito va al genuino Lucio Matteucci, di Viterbo Civica, e il comitato organizzatore del Carnevale a Viterbo, i quali hanno fatto comprendere, all'amministrazione comunale, quanta voglia ha la gente di liberarsi un po' da Facebook, da Google, da Tweet, da Instagram, dai social tutti, per stare insieme, gomito a gomito, per ridere, per cantare, per ballare, per saltare, per mostrare la maschera, maschera che non nasconde nulla, anzi evidenzia la voglia di essere protagonisti di una festa allegra, come se tutti fossero per un giorno attori sul palco del teatro della vita.

 

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