Viterbo UNA PERSONA CHE NON DIMENTICHERO' MAI
Agostino G. Pasquali

Spanzaformiche

Nella memoria di quell’incredibile computer umano che è il mio cervello c’è una sezione dedicata a persone e fatti memorabili. Come ogni buona memoria di massa, la mia è suddivisa in sezioni e cartelle virtuali.

Oggi apro la cartella ‘Una persona che non ho dimenticato’ e mi compare un ‘file’ dedicato al professor Manlio Volpari (di lui ho già scritto il 17 agosto scorso) e poi un altro ‘file’ dallo strano titolo: Spanzaformiche. Nome curioso e suggestivo. Apriamolo insieme.

                                                                        *     *     *

     In quel periodo, seconda metà degli anni ’60, abitavo a casa dei miei suoceri e lì conobbi un uomo eccezionale. L’ho visto poche volte, ma sono bastate per renderlo indimenticabile come persona, ma purtroppo non come nome che nella mia memoria è cancellato, o forse non l’ho mai saputo; però lui era e resta per me: il signor Spanzaformiche.

     Un mattina, proprio mentre stavo uscendo per andare al lavoro, mio suocero mi disse:

   - Guarda che oggi pomeriggio viene Spanzaformiche che deve sturare il lavandino di cucina che non scarica più tanto bene. Io oggi devo andare fuori città e torno stasera. Quindi ricevilo tu gentilmente e offrigli un caffè. Ti dirà: “No, grazie”, allora offrigli un fernet e ti dirà: “Quello sì, grazie”. Per il resto non ti preoccupare, conosce la casa e sa cosa fare…”

     Risposi:

     - Va bene, ho il pomeriggio libero e ci penso io. Ma chi è che viene? Spanza… chi? che?

     Mio suocero si mise a ridere e spiegò:

     - Viene un tipo un po’ buffo che sa aggiustare tutto in casa, io l’ho soprannominato ‘Spanzaformiche’. Aspetta un attimo che ti spiego. È un netturbino che lavora nella zona di San Faustino. Un giorno passavo di li e lo vidi intento a dare sul terreno dei colpi di pala alternati a strisciate e intanto sfogava una certa rabbia borbottando imprecazioni e parolacce. La scena era così buffa che mi fermai a guardare e gli chiesi: “Cosa sta facendo?” Restò con la pala alzata e mi rispose con un forte accento toscano (*): “Ma ’un lo vvede da ssé? E sto a spanzà le maledette formihe. Gli è un formihaio che ‘un riesco a eliminà. Ci ho buttà Ʒiù, dentro il nido, e il DDT e la nafta… nulla, ‘un gli ffa nnulla. Allora provo a spanzalle una per una.” Così ci siamo conosciuti, abbiamo fatto amicizia e da allora per me lui è ‘Spanzaformiche’, ma tu non lo chiamare così perché lui mica lo sa. È un soprannome buffo, potrebbe essere offensivo, quindi deve restare qui in famiglia.

     Mio suocero era una persona allegra, dotata di una notevole intelligenza e inventiva che impiegava non solo nel lavoro (aveva una tabaccheria), ma anche nell’improvvisare battute di spirito e nell’inventare soprannomi. Questi di solito erano così azzeccati e buffi che non li poteva divulgare, ma li usava solo in famiglia. Per esempio aveva soprannominato ‘Pompetta’ la benzinaia dalla quale si riforniva, perché quella aveva l’abitudine di chiedere al cliente: “Il pieno o solo una pompetta?” intendendo per pompetta mille lire; chiamava ‘Leccabul’ un cliente che si presentava spesso a comprare i francobolli per diverse lettere e per incollarli li inumidiva leccandoli; rifiutava di usare la spugnetta che stava sul bancone, perché diceva: “La usano tutti e perciò non è igienica.”

                                                                   *     *     *

     Spanzaformiche arrivò dunque puntuale, accettò e sorbì con evidente piacere il fernet, e si mise al lavoro. Aprì gli sportelli del sottolavello e li tolse “pe’ llavorà più homodo”. Smontò il sifone e lo trovò in ordine, quindi disse a me che lo osservavo:

     - Il tappo l’è più Ʒiù… (e qui una bestemmia). Mi ʃi vole la sonda e speriamo ‘he basti, se no s’ha da rrompe il muro.

     Aprì un borsone che aveva portato e ne trasse una incredibile serie di attrezzi. Sembrava Eta Beta quando tira fuori gli strumenti dal gonnellino (questo esempio vale per chi ha conosciuto quello strano personaggio nelle storie di Topolino). Mentre estraeva brontolava:

     - Gli è sempre hosì. Quel che tu ʃerchi ha da stà ‘n fondo, pé ultimo (e giù un’altra bestemmia).

     - Ma allora è vero che i toscani hanno la parolaccia facile. Ma lei non ha paura di andare all’inferno? – gli chiesi.

     - Lei ha raƷione. Ma ‘un le diho miha co’ cattiveria. Gli è una brutta abitudine ‘he l’ho presa da ʃittino e ‘un mi riesce di levalla. La mi perdoni pure lei, tanto son sihuro ‘he il buon Dio m’ha di Ʒià perdonato.

     Trovò la sonda, una specie di serpente metallico avvolto a spirale, e cominciò ad inserirla nel tubo di scarico. La sonda entrava con difficoltà, avanzava un po’ e s’impuntava, ma lui ruotandola riusciva a farla procedere. Intanto commentava per me: “Qui trovo una hurva, Mad… bona!... e ancora un’altra hurva. Ma ‘he l’ha fatto un serpe ubriaco ‘sto scarico? Di…bono!”

     Dopo il mio rimprovero cercava di evitare o almeno moderare le bestemmie ed era evidente la buona volontà che metteva sia nel fare il lavoro che nel parlare civilmente.

     Quando riuscì a far penetrare tutta la sonda la agitò con moto rotatorio e alternato, poi la estrasse e sentenziò:

     - Penso d’avé sturato. Ora ʃi resta solo da provallo.

     Rimise a posto il sifone e apri l’acqua che defluì regolare e rapida. Il problema era stato risolto.

     Sistemò i suoi attrezzi e pulì accuratamente il pavimento che s’era ovviamente imbrattato con il sudiciume uscito insieme alla sonda.

     Prima di congedarlo gli chiesi quanto gli dovevo. Mi rispose: “Nulla, ho llavorato per un amiho.” E poi avrò mmodo di chiedere a llei di rihambià la hortesia. Tra amiʃi ʃi si aiuta. No?”

                                                                      *     *     *

     Prima di continuare il racconto devo premettere che, a quel tempo, ero funzionario di un Ente previdenziale e mi occupavo in particolare di pensioni.

     Riprendo il racconto.

     Dopo qualche giorno Spanzaformiche mi si presentò in ufficio e mi disse che durante il suo lavoro gli capitava di parlare con gente di tutti i tipi e di conoscere situazioni curiose, strane, ma anche drammatiche; inoltre, data la sua abilità nell’aggiustare i guasti, riceveva spesso richieste di intervento per piccole riparazioni da gente povera che non si poteva permettere di pagare un artigiano specialista. E lui era disponibile, ovviamente nel tempo libero, e lavorava gratis.

     Sapevo già che era un tuttofare, una di quelle persone straordinariamente abili che sanno riparare i malfunzionamenti di un impianto idraulico (me lo aveva dimostrato) o di un impianto elettrico, che sanno sistemare i guasti di un mobile o di un muro stuccando e verniciando come provetti artigiani. Ora sapevo che a tutto ciò aggiungeva pure l’impegno nel sociale.

     Il giorno prima una povera vedova, che era in attesa della pensione di reversibilità da oltre un anno, gli aveva chiesto se poteva fare qualcosa. Ovviamente la questione non rientrava nel suo campo di abilità e allora aveva pensato di rivolgersi a me. Pare che il caso fosse complicato da contributi esteri e che la burocrazia avesse ‘congelato’ la domanda perché richiedeva un impegno di tempo che l’ufficio competente non poteva sottrarre al lavoro corrente. Potevo ricambiargli il favore? Mi disse con aria fiduciosa:

     - Io gli ho ffatto scorre l’acqua? E llei mmi faccia scorre sta domanda. Gli è un’opera bona.

     Chiesi al settore competente di portarmi il fascicolo e mentre aspettavo cominciammo a parlare.

     Venni così a conoscere meglio le numerose attività che svolgeva nel tempo libero dal lavoro e rimasi sorpreso quando mi disse che era pure attore e che aveva lavorato addirittura nel film ‘Il vigile’ del regista Luigi Zampa, recitando a fianco, anzi a tu per tu con Alberto Sordi.

     Notata la mia evidente incredulità mi chiese:

     - L’ha visto il film? Sì? L’han Ʒirato qui a Viterbo… beh! il netturbino ‘he si vede proprio all’inizio, quello ‘he scambia du battute con Alberto Sordi, quello son io. È vero, più che reʃitare ho ffatto il mi lavoro, ma il dottor Zampa, m’ha apprezzato e m’ha detto ‘he potrei avé un futuro nel cinema… poiché ho il fisiho adatto, un volto interessante e una bona disinvoltura pé ffa il caratterista.

     - E lei non ne ha approfittato? Perché non è andato a Cinecittà?

     - ‘Un so’ miha strullo! Ho il mi posto fisso, fo qualche lavoretto nel tempo libero. Icché me ne vo’ a Roma a fa’ il disoccupato cronico? L’ha visto il film? Beh, io la penso Ʒiusto home il vigile Celletti. Il posto fisso in comune l’è il massimo da desiderà. Mi diha… in sincerità però: lei lascerebbe il su posto qui pé andà a tentà la fortuna a Cinecittà?

     - Certo che no! Ho un buon lavoro

     - E allora perché l’avrei da lascià io? Presto passerò ai servizi amministrativi e il mi lavoro sarà home il suo. Allora sarem colleghi e, se permette, ci darem del tu. E collaboreremo a migliorà questa soʃietà inƷiusta che se uno l’è debole ‘un l’aiuta nessuno. Io, ‘un l’ha hapito? io son nato pé aiutà il prossimo.

                                                             *     *     *

     Indro Montanelli ha scritto che i toscani si dividono in due tipi: toscanacci e toscanucci, intendendo che i primi sono bruschi, sinceri e però inclini alla rissa e alla satira, i secondi invece sono insignificanti (v. il capitolo dedicato a Giuseppe Giusti nel saggio ‘Figure e figuri del Risorgimento’).

     Questa è una delle rare volte che mi sono trovato in disaccordo con Montanelli. Ho lavorato quattro anni in Toscana e di toscani ne ho conosciuti tanti; alcuni erano -ucci e altri erano -acci, ma credo che la maggior parte fossero brave persone però dotate ognuna di un carattere particolare. Come del resto succede dappertutto. Spanzaformiche apparteneva sicuramente all’ultima categoria, né uccio né accio, ma persona eccellente, indimenticabile.

Agostino G. Pasquali

 (*) Note per chiarire la trascrizione fonetica del diletto toscano:

- La lettera ‘h’ sostituisce la ‘c’ dura dell’italiano quando in toscano deve essere pronunciata aspirata.

- Il segno ‘Ʒ’ rappresenta la ‘g’ dolce toscana. Si pronuncia come la lettera ‘j’ dei francesi

- Il segno ‘ʃ’ rappresenta la ‘c’ dolce strisciata. Si pronuncia come la ‘sc’ italiana di scena, ma un po’ meno strisciata.

 

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