Cellere CRONACA BRIGANTESCA

Domenico Tiburzi

Domenico Tiburzi,
detto Domenichino,
celebre brigante maremmano,
fu “Re della macchia”,
“Re di Montauto”,
“Re del Lamone”.
Il popolo lo ritenne
“Giustiziere e Livellatore”. 

 

Cari lettori, voglio qui narrare

(e spero che vi possa interessare)

l’avventurosa storia d’un brigante,

che visse per tant'anni latitante

 

per non marcir nelle patrie galere,

dai giorni cupi e dalle notti nere.

 

Domenico Tiburzi si chiamava,

e a Cellere di Castro dimorava.

 

Nel Milleottocentotrentasei

(un anno che fatidico direi),

 

in questo paesello ebbe i natali,

ed i suoi dì iniziarono fatali;

 

precisamente il ventotto di maggio,

di sua vita intraprese il gran vïaggio.

 

Lucïa Attili e Tiburzi Nicola

per quel figliolo una richiesta sola

 

avrebbero avanzato nella vita:

un’esistenza limpida e pulita;

 

ma al loro primogenito bambino

era assegnato un avverso destino.

 

Da bimbo, ed ancor più d’adolescente,

manifestò già d’esser prepotente,

 

sebbene fosse basso e mingherlino                                        

(infatti, detto fu Domenichino);

 

e la sua mamma, assai prëoccupata,

alle amiche diceva sconsolata:

 

“Questo ragazzo il buon Iddio mi guardi,

ed al più presto, prima che sia tardi.

                     

Nulla di buono, ahimè, per lui prevedo;

che possa ravvedersi più non credo”.

 

Infatti, giunse al primo suo delitto

quando sparò preciso e ben diritto

 

ad Angelo Del Buono dipendente

del marchese Guglielmi, possidente.

 

Per pascolo abusivo, in modo fiero,

rimproverò Tiburzi d’umor nero,

 

che, accecato dall’ira e dal furore,

spedì Del Buono al Sommo Crëatore.

 

Fu questo il primo anel d’una catena,

che lo condusse poi di pena in pena.

 

Abbandonar dovette la consorte

e i due figlioli in un’eguale sorte.

 

Mandato alle Saline di Corneto,

svelò ai suoi compagni, in gran segreto,

 

la süa irremovibile intenzione

di preparare un’abile evasione.

 

Riuscì nel proprio intento, e in latitanza

per anni ed anni visse con baldanza;

 

fu della macchia incontrastato re,

e fucile e pistola avea con sé:

 

gli amici più sicuri e più fidati

per non venir sorpresi ed ammazzati.

 

Per vivere creò a suo vantaggio

la tassa che chiamò sul brigantaggio:

 

essa colpiva i ricchi proprietari,                                             

padroni di terreni estesi e vari.

 

Infatti, il contadino del passato,

soggetto ad un signore spesso odiato,

 

la terra non “avea” da coltivare,

eppur doveva sempre lavorare,

 

perch’eran altri tempi, un altro mondo

e, invece delle “quote”, il latifondo

 

veniva lavorato dalla gente,

che viveva, però, miseramente

                                                            

e, conducendo una vita precaria,

moriva poi di stenti e di malaria.

 

Tiburzi, ch’era un tipo assai ribelle,

decise di non perdere la pelle

 

in un lavoro duro da bracciante

e diedesi a far vita da brigante,

 

perciò si stabilì con decisione

un poco a Montauto e un po' al Lamone:

 

due selve veramente impenetrabili,

sol conosciute da persone abili.

 

Compagni suoi di macchia eran Biagini

ed anche Biscarini, Pastorini

 

e Giuseppe Basili, ch’era detto,

seppure alto e grosso, “Basilietto”,

 

coi quali egli commise grassazioni,

sequestri di persona ed estorsioni.

 

Per questi fatti gravi ed eclatanti,

il rinomato gruppo di briganti

 

veniva dalle Forze dello Stato

più ostinatamente ricercato,

 

e in uno scontro duro ed infernale

cadeva il Biscarini al Paternale,

 

la grotta dalla qual fuggì in mutande                                     

Tiburzi, con spavento molto grande.

 

Ma il Pastorini lo ebbe maggiore

quando sentì Tiburzi, con rancore,

 

rimproverargli la grave insolenza

di raccontare, pure alla presenza

 

di donne, a un lauto pranzo inebrïante

quella fuga affannosa ed umiliante.

 

Ma “Cenciarello” osò addirittura

sfidar con la pistola la bravura

 

del suo gran capo, egregio tiratore

benché offuscato dal vin traditore.

 

Commise Pastorini il grave sbaglio

di non colpire in pieno il suo bersaglio;

                                                             

Tiburzi, invece, gli sparò preciso,

e secco lo centrò in mezzo al viso.

 

Ma il lungo elenco dei morti ammazzati

altri nomi ben presto avrà segnati.

 

Uccise col Biagini anche Basili

perché, con delle azioni proprio vili,

 

molestia spesso dava ai commercianti

che, invece, sostenevano i briganti

 

fornendo loro viveri anche a credito

e condonando a volte qualche debito.

 

Basili avea, però, gran forza bruta,

e andava allor colpito a sua insaputa;

 

così, durante un sonno assai profondo,

di...colpo fu mandato all’altro mondo,

e in questo modo l'avventura umana

Basili terminò a Cerreta Piana.       

 

Rimase con Tiburzi sol Biagini,

con cui commise ancor degli assassinii;

 

il più feroce avvenne contro il Vestri                                    

quando, con dei motivi un po’ maldestri,

 

chiarire volle un certo suo operato,

temendo di venir presto ammazzato.

 

Accusato di vile tradimento,

era giunto all’estremo suo momento:

 

Biagini scaricò una fucilata,

e poi Tiburzi, in maniera esecrata,

 

il collo gli tagliò quasi di netto,

usando l’affilato suo stiletto.

 

“Così – gridò – finiscono le spie

che osano svelar le tracce mie,

 

e tu spïaccia infame m’hai tradito,

ed oggi con la morte sei punito;

 

le spïe son peggiori della vipera,

fan parte d’una razza assai pestifera!”.

 

Presenti eran del Vestri due somari,

della vendetta umana proprio ignari;

                                                             

fecero anch’essi una fine spietata,

subendo al ventre una gran coltellata.

 

Per il delitto Vestri, i fuorilegge

furono condannati dalla Legge

 

alla pena più dura, ossia alla morte,

complicando ancor più la loro sorte,

 

però, protetti dalla macchia folta,

riuscirono a salvarsi un’altra volta.

 

Per dar maggior sostegno, ai due briganti

s’unirono Luciano Fioravanti

 

(amico del Biagini e suo parente

ed uomo forte, giovane e valente)

 

e Bettinelli, detto “Principino”,

dal gusto nel vestire sopraffino,

 

ucciso poi da Fioravanti stesso                                             

per un delitto inutile commesso.

 

E da questo momento quel quartetto

si assottigliò, divenendo un terzetto

 

molto unito, affiatato e assai tranquillo,

e di Domenichino fu il pupillo

 

il bravo Fioravanti, ognor stimato

perché obbediente, attivo e in più fidato.

 

Ma trovandosi un dì a Montauto,

e non pensando a quello che accaduto

 

sarebbe lì ben presto ad un di loro,

cercarono di offrirsi del ristoro

 

in una grotta, detta di Gricciano,

mentre le Forze dell’Ordine un piano

 

avevan preparato con gran cura

per arrivar decisi alla cattura

 

dei tre famosi e scaltri latitanti:

Tiburzi con Biagini e Fioravanti.

 

Tiburzi ad un ginocchio fu colpito,

eppur riuscì a fuggire con l’ardito

 

e giovane Luciano tra le piante,

come sa fare un vero latitante;

                                                     

però Biagini, il fedele “Curato”,

a terra cadde: infarto od ammazzato?

 

Trascorse un anno intero dall’evento,

ma la vendetta per il tradimento

 

colpito avrebbe il celebre fattore

del marchese Guglielmi, gran signore.

 

Di Raffaele Gabrïelli parlo,

e niente più poteva ormai salvarlo

 

perch’era responsabile accertato

che nell’agosto dell’anno passato,

 

forse perché da buon vino tradito,                                         

Tiburzi non avea presto avvertito

 

che “una battuta di caccia”, in quei giorni,

tenuta si sarebbe nei dintorni,

 

e se Biagini quindi cadde morto,

avvenne per quell’uomo poco accorto.

 

Giunto con Fioravanti a Pian di Maggio,

Tiburzi gli parlò di quel messaggio,

 

e il Gabrïelli fu terrorizzato

perché glielo tonò in modo irato:

 

“Ricordi, Raffaele, il sei d’agosto?”.

E, senza che gli avesse ancor risposto,

 

sparò a bruciapelo al disgraziato:

Biagini era così ben vendicato.

 

Il fattoretto Giovanni Amicizia

divulgò la terribile notizia,

 

e così pure Pietro Nicolai,

un altro fattoretto, che nei guai

 

credette d’esser messosi quel giorno

quando vide Tiburzi andar lì attorno;

 

sbiancò nel viso, ma poi si riprese

perché le carni vide ancora illese.

 

Ma , dopo aver commesso quel delitto,

viepiù il pattugliamento venne fitto

 

da parte delle Forze dello Stato

perché Tiburzi, vivo od ammazzato,

                                                             

doveva, ed al più presto, essere preso

poiché le leggi aveva sempre offeso.

 

Nel frattempo, a Viterbo il “processone”

iniziava per tutte le persone

 

che avevan della Legge fatto oltraggio

con l’essersi invischiate al brigantaggio.

 

Più gruppi si chiamarono al processo                                     

per accertare quale fosse il nesso

 

tra i vari manutengoli imputati

ed i briganti ancor non catturati.

 

Farnese, Ischia, Cellere e Montalto

subiron della cronaca l’assalto

 

perché da quei paesi proveniva

la gente che fu sempre molto attiva

 

nel dare cibo, notizie ed aiuto

all'imperante “Re di Montauto”,

 

il quale più di tutti danneggiato

uscì da quel processo celebrato:

 

invece di apparire “Giustiziere”

risultò solamente un masnadiere.

 

Gli storici diranno nel futuro,

con un giudizio molto più sicuro,

 

se quanto fece fu sol negativo

o s’ebbe qualche aspetto positivo

 

e se quel certo suo comportamento

fosse soltanto frutto del momento

 

in cui storicamente il brigantaggio

s’era diffuso ovunque a largo raggio.

 

A questo punto devo qui affrontare

le pagine più dure e molto amare

 

che parlan di Tiburzi ormai al traguardo,

non più prudente, abile e gagliardo.

 

In una notte piovosa, autunnale,

Tiburzi e Fioravanti in un casale

 

cercarono rifugio a Le Forane.

Per l’abbaiare insolito del cane,

                                                            

aprì la porta Franci Nazzareno,

che certamente avrebbe fatto a meno

 

di offrir la cena e l’ospitalità                                                   

a quelle torbide celebrità,

 

ma, conoscendo bene Fioravanti,

far altro non poté che dire: “Avanti!”.

 

Offrì a Luciano ed a Domenichino

ottima pastasciutta, pane e vino;

 

quest’ultimo lo bevvero davvero

in grande quantità perché sincero,

 

ma qui Tiburzi agì con imprudenza,

infatti il vino causa sonnolenza,

 

e più è buono, schietto e generoso

e più il cervello rende inoperoso.

 

Avvenne che alle tre di quella notte,

all’improvviso fossero interrotte

 

le chiacchiere festose dei briganti,

che si vantavan d’imprese galanti:

 

era il cane del Franci che abbaiava

perché qualcuno lì s’approssimava.

 

Luciano Fioravanti, in tutta fretta,

discese e superò la collinetta

 

per ritrovarsi dentro la boscaglia,

protetto dagli spari e dalla taglia

 

che appresso si portava come un peso,

che prima o poi l'avrebbe certo leso

 

(infatti in seguito ad un tradimento

sarà ammazzato per quel pagamento).

 

Tiburzi, invece, corse e fu alla porta,

con una decisione poco accorta

 

perché come bersaglio lì si espose;

un colpo col fucile in aria esplose,

 

ma fu colpito dai carabinieri,

che poi quel fatto raccontavan fieri.

 

Morì, però, Tiburzi in quell’istante                                        

o solo fu ferito, e sanguinante

                                                             

si trascinò lì attorno quel leone,

ucciso poi per “alta decisione”?

 

In quella notte buia, a Le Forane

avvennero senz’altro cose strane

 

che qui non è possibile chiarire,

e mancano le prove da fornire.

 

Il ventiquattro ottobre, a sessant’anni,

dopo una vita in fuga e pien d’affanni,

 

Tiburzi consumò così il suo dramma,

ucciso proprio dai “figli di mamma”

 

(come sempre chiamò i carabinieri,

con toni assai pacati e veritieri).

 

Saper si deve che Domenichino

mai sparò loro, pure se il mirino

 

li avesse ben centrati in testa o al petto;

però il suo dito non spostò il grilletto

 

perché quei giovani ragazzi attivi

eran fedeli, bravi e mai cattivi:

 

servivano la Patria e un ideale,

senza alcuna intenzione a far del male;

 

cattiva, invece, fu la triste sorte

che Tiburzi seguì fino alla morte.

 

La notizia volò, fece scalpore

perch’era morto il gran “Livellatore”.

 

L’indomani, il fuggiasco sì caparbio

fu trasportato e sepolto a Capalbio,

 

ma non del tutto dentro il cimitero,

poiché il provvedimento assai severo

 

fu preso d’interrarlo lì al confine,

per metà dentro e metà fuori, al fine

 

di accontentar salomonicamente                                            

le idëe contrastanti della gente.

 

“Il cimitero – dicevano in tanti –

è per gli onesti e non per i briganti”,

 

ed altri s’appellavano, ma invano,

alla bontà ed all’amor cristiano.

                                                            

Come abbiam detto, quindi, fu sepolto,

anche nell’altro regno male accolto;

 

comunque da cent’anni in terra giace,

e speriamo per lui, in eterna pace.

 

A modo suo fu re, e nel suo stemma

si legge che fu “Re della Maremma”,

 

di quella terra definita amara,

ma per noi maremmani sempre cara.        

Colonna romana, alla quale fu legato Tiburzi, già morto,
per essere fotografato da Ausonio Ulivi, fotografo di Orbetello.

  F I N E

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