Il mantello di Mastro Titta al Museo Criminologico

Viterbo STORIA
Mauro Galeotti

Volevo ricordare alcuni dei condannati a morte, che furono giustiziati a Viterbo per mano di Mastro Titta, al secolo Giovanni Battista Bugatti, il boia di Roma, il quale concluse il suo mandato sotto Pio IX.
Alcuni dei condannati erano di Viterbo, Valentano, Blera, Caprarola, Velletri, Rieti, Civitella d’Agliano.

Giancarlo Breccola racconta la curiosa storia di Cicoria, condannato a morte.

A Valentano, presso l'archivio storico, è reperibile la testimonianza della sua prima esecuzione nella località di Poggio delle Forche, scritta in prima persona: «Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità».

Francesco Pretolani impiccato e squartato il 21 Febbraio 1801 per avere rapinato e ucciso un oste con sua moglie.

Domenico Guidi impiccato il 18 Dicembre 1802 per omicidio fu la 56ª esecuzione del carnefice, che iniziò la sua attività nel 1796. Scrive Mastro Titta «Dovetti portarlo su di viva forza per la scala, mentre il mio aiutante lo sorreggeva per le gambe».

Giovan Domenico Raggi e Giuseppe Cioneo, impiccati il 5 Marzo 1803 per omicidi e rapine.

Carlo Desideri, Luigi Brugiaferro e Giovanni Mora, uccisi impiccati e squartati per rapine il 16 Ottobre 1816.

Martino Sabatini e Andrea Ridolfi, impiccati e squartati per rapine il 22 Aprile 1818.

Angelo Antonio Piccini di Blera, impiccato il 12 Dicembre 1819 per delitti e rapine e per il barbaro omicidio della signora Bonfiglioli.

Leonardo Narducci, impiccato e squartato il 26 Ottobre 1820 per omicidi e rapine.

Giuseppe Bartolini, decapitato il 30 Aprile 1822 per rapine ed omicidi.

Domenico Piccioni di Caprarola, assassino, decapitato il 24 Maggio 1823.

Lorenzo Raspante, decapitato il 6 Maggio 1826 per omicidio.

Domenico Caratelli e Giuseppe Bianchi di Velletri, decapitati per rapine il 17 Aprile 1838.

Pasquale Grespaidi di anni 24 fu "decapitato" in Viterbo il dì 30 luglio 1842 per avere ucciso un carabiniere per averli domandato il suo nome.

Dopo il 30 Luglio 1842 all’8 Ottobre 1853 non avvennero esecuzioni. Nei lunghi periodi di inattività, svolgeva il mestiere di venditore di ombrelli, sempre a Roma. Il boia viveva nella cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, nel rione Borgo, al numero civico 2 di Vicolo del Campanile.

Francesca Levante vedova Ferruccini, per omicidio: tutti e tre "decapitati" a Viterbo li 8 ottobre 1853.

Crispino Bonifazi, condannato il 25 Giugno 1855, per aver ucciso la madre e, sempre lo stesso giorno, Francesco Bertarelli e Antonio Moschini entrambi per rapina e decapitato Giovanni Cruciani di Rieti.

Giosuè Mattioli, condannato per rapine nel 1855.

Benedetto Ferri e Salvatore Tarnalli, condannati per rapina il 30 Giugno 1855.

Pietro Ciprini di Viterbo, di anni 19, per grassazione condannato a "morte" in Monte Rosi li 7 agosto 1855.

Giuseppe Bertarelli, di 22 anni e Carlo Camparini, decapitati il 23 Giugno 1858 per omicidio e rapina.

Giuseppe Lepri di Civitella d’Agliano, rapinatore condannato a morte il 17 Settembre 1859 assieme a Pietro Pompili, anche lui di Civitella, morti impenitenti.

Questi i morti ammazzati da Mastro Titta a cui successe Vincenzo Balducci, il quale a Viterbo giustiziò il condannato Salvatore Silvestri, il 17 Febbraio 1866.

Scrive Giuseppe Signorelli: «I decapitati erano accompagnati dalla Confraternita della Misericordia, che li prendeva in custodia fin dalla sera innanzi [il giorno della decapitazione], e procurava a mezzo di alcuni zelanti confortatori d’indurli a confessarsi e comunicarsi, facendo trascorrere loro l’intiera notte in orazioni. 

Avvenuta la decapitazione, le teste per un’ora rimanevano esposte al pubblico ed allora era un affollarsi intorno a quelle per bagnare nel sangue, che ne sgorgava, fazzoletti, pezze ecc. che dovevano essere un preservativo contra la morte violenta!

Venivano poi i cadaveri processionalmente condotti a seppellire nella chiesa di S. M. di Valverde [è la chiesa fuori Porta Faul sulla destra, per intenderci dove oggi è il gommista ndd] detta volgarmente la chiesa dei giustiziati.

La Chiesa di santa Maria di Valverde o dei giustiziati nel 1973 circa, in primo piano il ponte sul Torrente Urcionio, ormai demolito da anni (Archivio Mauro Galeotti)

Se poi qualcuno moriva impenitente, la compagnia della Misericordia lo abbandonava, e la polizia prendeva cura che i resti mortali fossero sepolti nel cortile delle carceri».

Prima dell’esecuzione capitale venivano raccolte dalla Confraternita somme di danaro che servivano per celebrare le messe in suffragio dei condannati ed i vestiti di quest’ultimi venivano presi dalla Confraternita medesima.

Una curiosità.

Nel 1857 fu tanto l’entusiasmo, per la venuta del pontefice Pio IX, che addirittura qualcuno propose di cambiare il nome di Piazza della Rocca in Piazza Mastai, cognome del papa.

Anzi, i residenti chiesero che sulla piazza stessa venissero abolite le esecuzioni capitali. 

Con forza lo chiese anche l’oste che aveva l'osteria sulla strada della Palazzina, oggi Via della Palazzina, il quale era costretto ad ospitare il boia con evidente danno per la sua attività.

Ancora una nota di chi vide una decapitazione.

Si tratta di Charles Dickens durante il viaggio che compì in Italia fra il luglio 1844 ed il giugno del 1845. Nelle nota è citata anche Viterbo.

Sabato 8 marzo 1845, mentre era di passaggio a Roma, assistette ad una esecuzione in via de' Cerchi effettuata da Mastro Titta, che commentò nel suo libro Pictures of Italy ("Lettere dall'Italia", 1846).

Il giustiziato era Giovanni Vagnarelli del fu Agostino da Gubbio, di anni 26, coniugato, campagnolo, per grassazione ed omicidio in persona di Anna Cotten Bavarese, era stato condannato "al taglio della testa"  appunto l'8 marzo 1845 in via de’ Cerchi.

Un sabato mattina [era l'8 marzo] qui un uomo venne decapitato. Nove o dieci mesi prima, aveva rapinato per strada una contessa bavarese diretta in pellegrinaggio a Roma, da sola e a piedi, ovviamente, mentre compiva quell'atto pietoso, si dice, per la quarta volta.

La vide cambiare una moneta d'oro a Viterbo, dove egli viveva; la seguì; le offrì la propria compagnia lungo il viaggio per quaranta miglia o più, con l'infido pretesto di proteggerla; la assalì, portando a compimento il suo inesorabile piano nella campagna, a brevissima distanza da Roma, presso ciò che viene denominata (senza esserlo) la Tomba di Nerone; la derubò; e la percosse a morte con lo stesso suo bastone da pellegrino. Era sposato da poco, e regalò alcuni dei beni della vittima alla moglie, dicendole che li aveva comprati ad una fiera. Ella, tuttavia, che aveva visto la contessa-pellegrina attraversare la loro città, riconobbe alcune chincaglierie che le appartenevano. Suo marito allora le raccontò ciò che aveva commesso. Ella, in confessione, lo riferì ad un sacerdote; e l'uomo fu catturato, entro quattro giorni dopo aver commesso il crimine....

Dopo un breve lasso di tempo, alcuni monaci dalla detta chiesa furono visti avvicinarsi al patibolo; e sopra le loro teste, avanzando lentamente e tristemente, l'effige di Cristo in croce, bardato di nero. Questa fu trasportata attorno alla base del patibolo, fin sul davanti, e girata verso il criminale affinché potesse vederla fino all'ultimo.

Era a malapena giunta a destinazione, quando costui apparve sulla sommità del patibolo, scalzo; le mani legate; e col collo della camicia tagliati fin quasi alle spalle. Un giovane uomo, circa ventisei anni, di robusta costituzione, e ben proporzionato. Pallido il viso; baffetti scuri e capelli bruni. Apparentemente, aveva rifiutato di confessarsi senza prima fargli incontrare la moglie; così era stata inviata una scorta a prenderla, ciò che aveva cagionato il ritardo.

Si inginocchiò subito, sotto la lama. Il collo, posizionato in un foro, realizzato all'uopo in un ceppo orizzontale, fu serrato da un simile ceppo situato superiormente; proprio come in una gogna. Subito sotto di lui era una borsa di cuoio. E in questa la sua testa rotolò all'istante. Il boia la teneva per i capelli, camminando tutt'intorno al patibolo, mostrandola alla gente, prima ancora di potersi render conto che, con un secco rumore, la lama era pesantemente scesa.

Quando ebbe fatto il giro dei quattro lati del patibolo, fu fissata in cima a un palo sul davanti, una piccola chiazza bianca e nera, che la lunga via poteva scrutare, e su cui le mosche potevano posarsi. Gli occhi erano rivolti in alto, come se avesse distolto lo sguardo della borsa di cuoio, e avesse guardato verso il crocifisso.

Ogni colore e sfumatura vitale l'aveva, in quel momento, abbandonato. Era grigia, fredda, livida, cerea. Così era anche il corpo.... Il corpo fu trasportato via a tempo debito, fu ripulita la lama, smontato il patibolo, e smantellato l'intero odioso apparato. Il boia: un fuorilegge EX OFFICIO (quale ironia sulla Giustizia!) che per la vita non osa traversare il Ponte di S.Angelo se non per svolgere il proprio lavoro: si ritirò nella sua tana, e lo spettacolo poté dirsi concluso.…”. 

A questo punto mi piace riportare un'altra curiosità quella di un certo Cicoria che pronunciò una frase rimasta sulla bocca del popolo che la passò da bocca in bocca per arrivare fino a noi.

Ma do la penna a Giancarlo Breccola che la narra in maniera davvero esemplare.

 

Giancarlo Breccola

 

Esemplare è l’aneddoto che, in diversi centri del viterbese, si attribuisce ad un condannato a morte, certo Cicoria, conosciuto a Montefiascone come Pietro Cicoria e a Bolsena come Peppe Cicoria. A Viterbo ritengono che l’esecuzione sia avvenuta in piazza della Rocca; a Montefiascone, invece, nello spiazzo antistante la vecchia stazione di Posta.

Questa è la versione viterbese raccontata da don Salvatore del Ciuco: “Quando in carcere il giorno prima della condanna, gli chiesero quale fosse il suo ultimo desiderio, anche lui, come un altro condannato viterbese, certo Camicia, chiese un bel piatto di maccheroni e se lo divorò tranquillo e contento.

Mentre lo conducevano al patibolo approntato a piazza della Rocca, vedendo tanta gente che si affrettava per non perdere lo spettacolo disse: “Non correte, prendetevela con comodo, tanto se non arrivo io la festa non comincia”. Una volta salito sul palco, noncurante delle raccomandazioni del frate che voleva ben prepararlo alla morte, dichiarò: “’Na fresca così non m’era mai successa”. Poi, accorgendosi che cominciava a piovere, rivolgendosi al boia esclamò: “Aho, sbrighete a tajamme ‘sta capoccia, se no pijamo pure l’acqua”.

Un’altra variante della storia è quella che vuole un certo Cencio Cicoria condannato alla pena capitale, il 27 gennaio 1863, per aver rubato 8 galline e un galletto a don Pio Falcioni. Il birbante, per sua disgrazia, era andato a confessare il peccato proprio allo stesso prete che, violando il segreto confessionale, lo denunciò.

Dopo 33 giorni dal misfatto fu giustiziato: “Questa è la verità sul poveretto / lasciata ai posteri in memoria / che all’ultimo fiato immortalò ‘l su’ detto / Eccoci qua! Disse Cicoria / Un affare così non m’era capitato mae / e così finiscono le mi giorne e le mi guae!”.

Verso il 1950 Andrea Zerbini di Montefiascone ed Alessandro Vismara di Viterbo discussero su un quotidiano locale la storica frase di Cicoria, senza comunque giungere a nessuna conclusione. Secondo Zerbini, Cicoria avrebbe detto: “Eccoci qua, ‘na fregna così non m’era mai capitata”. Secondo Vismara, invece: “Eccoci qua, ‘na fregna così non me capiterà più”.

In realtà, dal taccuino di Mastro Titta, al secolo Giovan Battista Bugatti, ove il boia aveva diligentemente annotato le 514 esecuzioni effettuate a Roma ed in tutto il territorio dello Stato pontificio dal 22 marzo 1796 al 17 agosto 1864 - poi aggiornato fino al 1870 dal successore - si evince che l’unico Cicoria giustiziato nell’Ottocento fu tale Cicoria Arberio (o Alberto o Arberto) di Città di Castello, condannato all’ultimo supplizio il 26 giugno 1855 per ladrocinio e omicidio; nella nota, tuttavia, non vengono precisati né il luogo né le modalità dell’esecuzione. 

 

 

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