La lunetta in legno, ricavata nel 1839 dalla porta settecentesca a tutta altezza, la trovo in loco fino al 1890 circa, come risulta dalla foto. Poi, resta visibile, fino a circa il 1910, solo la traversa posta tra la lunetta e le ante in legno. Sulla destra è il muro di una proprietà privata a sinistra la torre distrutta dai bombardamenti del 1944 e nella porta sottostante aprirà lo "Stabilimento fotografico Sorrini"

"Che detto mastro Francesco sia obbligato fare la Porta di legno per porla nella Porta di S. Sisto..."

Mauro Galeotti dal libro "L'illustrissima Città di Viterbo", Viterbo 2002

Porta di san Sisto - Porta Romana

Porta di san Sisto si trova sul punto più alto della cinta muraria della città, è infatti a quota 354,60 metri sul livello del mare.

E’ aperta nel primo tratto di mura costruite nel 1095. Infatti, in questa parte la città era facilmente vulnerabile perché non aveva difese naturali.

L’antica Porta di san Sisto è quella che oggi è aperta al solo transito pedonale, sul lato destro di chi guarda Porta Romana.

Avanti a Porta di san Sisto era una petraia. Scrive Pinzi, che si estendeva fino a Gradi e che degradava verso la vallata di sant’Andrea, «la rupe ora più non esiste, perché rosa e squarciata a poco a poco dalla piccozza dei tagliatori di pietra» era ubicata nella Contrada Citerno che andava da Porta di san Sisto alla Domus Dei.

In un elenco del 1215 delle porte cittadine è citata la porta ubicata nel Vico Quinzano.

Il Vico Quinzano era all’esterno delle mura che vanno da Porta san Sisto a Porta san Leonardo, viene nominato nel 789 «in Casale Quintiano e in vici Quintiani in finibus Castri Viterbii», nell’805, nel 1090 è detto «de Quintiano», nel 1179 - 1203 «Quinzani» e nel 1226 «in hora Quinzani, juxta vias et Ecclesiam Sancti Sixti».

Giuseppe Signorelli afferma che «il vocabolo Quinzano fu posteriormente storpiato in quello di Pinzano e poi di Monte Pizzo, attualmente [1914] adottato a designare il colle che domina la sottostante valle, che fu nel Medioevo chiamata Contrada Pila, vocabolo adoprato promiscuamente a quello di Quinzano e Pinzano […], mentre il colle più verso il monte si chiamava il poggio dell’Aiella e più recentemente Iella». Scrive Pinzi che «Il Poggio della Jella era quella collina all’est di Viterbo, che poi fu detta il Barco», afferma che il poggio è già citato in un documento del 1546.

Il 1247 fu un anno di sofferenza e carestia. Il cronista Niccolò della Tuccia scrive:

«In Viterbo si moriva di fame e si trovavano putti e putte morte nelle Chiese, e quelli [che] uscivano fora delle porte, erano presi da nemici e posti in lochi che non facessero rumore e quando l’andavano a vedere li trovavano morti di fame […].

Rimase sì poca gente in Viterbo che niun modo vedevano poterlo guardare da nemici, perché li giovani eran fuggiti per la fame […e] quei pochi che eran rimasti murorno tutte le porte di Viterbo, salvo quella di S. Sisto e la porta verso S. Maria Madalena […] perché Viterbo non aveva tanti omini che lo potessero guardare».

L’altro cronista, Francesco d’Andrea, fa risalire la spiacevole vicenda al Gennaio di quell’anno affermando anche lui che, vista la scarsezza degli uomini a Viterbo, si murarono le porte meno le due descritte «una a levante, l’altra a ponente».

Nello Statuto di Viterbo del 1251, ed anche prima del 1237, la città fu divisa per contrade, a porta S. Sixti spettavano le chiese di san Sisto, di san Matteo dell’Abate, di san Niccolò delle Vascelle, di san Giovanni in Zoccoli, di san Simeone, di san Biagio, di san Martino, di san Giacomo e di santa Croce dei Mercanti.

Nel 1328 l’autorità cittadina dispose che alla guardia della porta vi fossero tredici soldati, un numero considerevole se rapportato con quelli di guardia alle altre porte.

Parla Niccolò della Tuccia:

«A 18 maggio [1454] furno giustiziati dui fratelli carnali [Niccola e Giovanni Antonio] da Valmontone. Si diceva fossero stati con Palemone alla morte di Princivalle [Gatti, podestà di Celleno dal 1432 al 1440 e priore di Viterbo dal 1435 al 1448]. L’uno fu tenagliato, l’altro strascinato per la terra, e poi squartati [presso la Valle di Faul], e messi li quarti e la testa sotto la porta di S. Sisto e di S. Lucia» per soddisfare la fazione favorevole a Princivalle Gatti.

Il 12 Maggio 1458 entrò da Porta di san Sisto alle ore 22 Niccolò, nipote del cardinale di Fermo, commissario del Collegio e Senato in san Francesco. Giovedì 21 Febbraio 1460 «demmo in cottimo a mastro Cecco da Mugnano muratore a fare il muro per metter la porta caditora alla porta di S. Sisto con un arco per più robustezza. Costò a tutte sue spese ducati ventotto e mezzo d’oro. E la manifattura di detta caditora di legname ducati sei d’oro a ferro e tavole del Comune».

La caditora non era niente altro che la saracinesca.

«Nell’anno 1462, a 17 di maggio [Giuseppe Signorelli scrive 7], papa Pio [II, Enea Silvio Piccolomini] fu portato da Roma, ed entrò in Viterbo il venerdì venendo da Soriano. Entrò la porta di S. Sisto con nove cardinali», scrive Niccolò della Tuccia.

Il papa malato di gotta andò a far visita al Duomo e alloggiò presso la Rocca Albornoz. Era venuto per cercare refrigerio nelle nostre acque termali ed era solito dire che era attratto «dall’amenità della città in cui quasi ogni casa aveva fonti con acqua perenne e giardini».

Si sentì la necessità, nel 1465, di rendere più agevole e rettilinea la strada che dal Macello maggiore, per san Pietro dell’Olmo, raggiungeva Porta di san Sisto passando da Piazza Fontana Grande. Allora ne assunse l’impegno il rettore del Patrimonio Niccolò Perotti (1430 - 1480) da Sassoferrato. Poi un importante evento animò la porta, infatti, il 10 Gennaio 1469, giunse a Viterbo l’imperatore Federico III e fu accolto dai Viterbesi, appunto, a Porta di san Sisto dove ricevette le solite simboliche chiavi della città.

La porta era stata ornata di drappi e panni a più colori come era uso. L’imperatore vestiva di gramaglia ed era accompagnato dai cardinali Rodrigo Borgia e Angelo Capranica. Percorse le vie della città, coperto da un baldacchino sostenuto da dieci cittadini, fino alla Chiesa di santa Croce dei Mercanti, altri dieci lo sostennero fino alla Chiesa di san Matteo in Sonsa e altri dieci sino alla Chiesa di san Francesco per raggiungere il Palazzo di san Francesco ove fu ospitato dal Perotti, a spese del papa. L’11 visitò il corpo di santa Rosa e fece liberare alcuni carcerati rei di modeste colpe.

Una curiosa notizia ce la racconta il cronista della Tuccia, infatti, pare che il bel cavallo dell’imperatore dal pelame perlaceo, forse infastidito dalla folla, facesse resistenza al sovrano nell’entrare sotto il baldacchino, ci fu quindi un po’ di parapiglia, ma ad un certo punto l’animale si tranquillizzò e docilmente rispose ai comandi del padrone.

Nel Settembre 1472, per il giorno della Madonna, di martedì, entrò da Porta di san Sisto all’ora di pranzo messer Pietro cardinale di san Sisto accompagnato dal cardinale di Teano, Niccolò Forteguerri. L’accoglienza, da parte dei Viterbesi, fu mesta poiché l’ospite era ammalato. Andò ad alloggiare al Palazzo papale.

L’anno seguente i Priori ordinarono che fossero eletti dieci cittadini per porta ed essendo quattro le porte, san Lorenzo, san Pietro, san Sisto e san Matteo, in tutto erano quaranta persone.

Un salto di vent’anni e la parola ora va a Francesco Sacchi, avvocato della città, in occasione dell’ingresso in città di papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, «Ricordo come a dì 24 di 8bre 1493, di lunedì alle 23 hore [Pinzi scrive alle ore 5 pomeridiane] la Santità di N.Signore papa Alexandro 6° entrò in Viterbo dalla porta di S. Sisto, e venne da Nepi.

Fu fatto quanto honore a Sua Santità fosse possibile, et alloggiò al vescovato et stette in Viterbo 10 dì, e poi andò a Toscanella et altri lochi circostanti. Havea seco 18 cardinali, e quasi tutta la corte.

Io Francesco Sacchi ero avvocato della Comunità di Viterbo, e nella visita li feci l’oratione con molta attenzione di Sua Santità e de Cardinali e circostanti prelati e cittadini viterbesi con molta laude e satisfatione di ciascuno et utile della Città nostra, che per mio persuadere e supplicare hebbe quello che volse».

Il testo l’ho tratto dal libro di Giuseppe Lombardi, sui Ricordi di Casa Sacchi. 

Il pontefice partì da Viterbo diretto a Tuscania e luoghi limitrofi. Vi ritornò il 6 Dicembre, di venerdì, per ripararsi dalle incessanti piogge che avevano colpito la Tuscia. Non gli fu fatta una adeguata cerimonia di accoglienza per il cattivo tempo e alloggiò al Palazzo papale dove restò per dieci giorni, tanto durò il maltempo.

Nell’Autunno del 1513 doveva far visita alla città papa Leone X, Giovanni de’ Medici, alcuni rivoltosi animarono una sommossa, forse iniziata dalla fazione Maganzese senza chiari motivi oppure, come afferma Giuseppe Signorelli, «forse per una dimostrazione di forza o di prepotenza», ed occuparono Porta di san Sisto a mano armata con l’intenzione di non far entrare in città il papa.

I facinorosi pretendevano loro stessi di decidere se tenere aperta o chiusa la porta e urlavano minacce di morte contro il vescovo di Famagosta. Il papa, avuto notizia dei fatti, inviò un commissario, nella persona del fiorentino Giovanni Degli Albizzi con l’intenzione di punire i responsabili. I ribelli furono dispersi e due di loro furono impiccati. Ma il pontefice comunque, per precauzione, non venne più a Viterbo, neppure quando nel Gennaio del 1514 era a Vetralla, infatti, se ne andò verso Tuscania per raggiungere Roma. Ma la diplomazia viterbese si mise subito al lavoro e solo il 5 Ottobre del 1515, Leone X entrò in Viterbo seguito da due cardinali; alloggiò alla Rocca.

Francesco Pietrini afferma che il papa entrò la prima volta il 6 Settembre 1514, poi fu ancora presente per due mesi dall’Ottobre al Novembre del 1515, con tutta la corte.

Un altro importante pontefice arrivò a Viterbo, ne scrive la memoria il medico Giacomo Sacchi, si trattò di papa Paolo III, Alessandro Farnese:

«A dì 16 septembre del 1536. Ricordo come a decto dì venne a Viterbo papa Paulo III nostro ciptadino et mio padrone […] intrò in Viterbo dalla porta di San Sixto […] io come suo medico et familiare sempre li fui appresso per quattro giorni che si fermò in Viterbo». 

Il papa con la corte prese dimora nel Palazzo papale per trascorrere le ferie autunnali. A Porta di san Sisto il popolo festante lo accolse al grido:

«Gigli, gigli, Farnese, Farnese».

Il cardinale Reginaldo Pole, famoso ecclesiastico inglese, governatore di Viterbo, il 14 Settembre 1541, accolto a Porta di san Sisto dalle autorità e dai cittadini, entrò in città. Fu elevato alla porpora cardinalizia da papa Paolo III nel 1536 e fu legato pontificio al Concilio di Trento.

Giunta notizia in città che il cardinale Alessandro Farnese, figlio del duca Pier Luigi, era stato nominato legato del Patrimonio, i priori decisero di festeggiarlo perché «nobilissimo, favoritissimo, grandissimo et della città amorevolissimo cittadino». Inoltre, furono organizzati «segni notabili d’allegrezza con fuochi [d’artificio], razzi, lumi, [suono di] campane et simili cose». Il consiglio volle che «sopra la Porta di S. Sisto si faccia una bellissima arme indorata di sua Signoria Illustrissima et Reverendissima: et si orni la Porta di panni».

Il cardinale, proveniente a cavallo da Caprarola, la mattina del 30 Giugno 1565 fece il solenne ingresso da Porta di san Sisto.

Fu ricevuto fuori dalla porta dai priori e dai primi cittadini e dal popolo. Senza scendere da cavallo il cardinale baciò la croce che gli porse il vescovo e ricevette in omaggio le chiavi della città.

Un baldacchino di broccato d’oro coprì dal sole il porporato che si avviò verso il Duomo. Ma ecco cosa riferisce Giacomo Sacchi:

«Alla porta di San Sixto fu fatto un portone a guisa d’arco con una iscriptione di lettere grosse, quale iscriptione feci io, che diceva: Magno Alexandro card. Farnesio Viterbien. ad tranquillitatem salutemq. publicam legato perpetuo».

E ancora continua il Sacchi rammaricato, «io havevo trovato belle inventioni per la sua entrata, ma Sua Signoria Illustrissima non volse per non dar spesa alla Comunità».

Lo storico Francesco Cristofori, riprendendolo dal Bussi, riporta il testo di questa epigrafe murata sulla Porta di san Sisto:

«Alexandro Farnesio card. / ampliss. leg. perpet. pp. / quod provinciam summa tranquillitate constituerit / et Viterb. quotidie augeat / atque ornet / S.C.».

In merito al citato stemma di Alessandro Farnese da collocare sopra alla porta, nel 1566 si fa stimare l’installazione dello stesso dai mastri Giorgio e Giovanni Angelo i quali stabilirono che si pagassero venti scudi, dati parte in grano e parte in denari.

Poiché a qualche cittadino il pagamento era sembrato eccessivo, i priori fecero sistemare di nuovo la collocazione di quello stemma. Nel 1566 fu abbattuta una parte della porta per consentire l’ingresso in città del blocco di peperino necessario per la costruzione della pila maggiore della Fontana di piazza della Rocca e dieci anni dopo Carlo Montigli, nominato vescovo di Viterbo il 28 Marzo 1576, fece il suo solenne ingresso da Porta di san Sisto, dopo aver visitato ed essersi riposato nel vicino Convento di Gradi.

Nel Luglio 1579 è la nota per i priori:

«Il Cancello for de la Porta di S. Sisto si è levato per usura dal vicelegato dal nostro portinaro si venderno quattro legni grossi a Lucrezia di Bossi bachiarella per iulij 12 stimati da m° […] forse dati per elemosina per le messe di m° Bussotto e m° Mariano Coco che si trova ceco nel nostro hospedale per condursi a casa sua».

Di lì a pochi mesi, il 12 Novembre 1579, per sospetto della peste si ordina:

«Che domani si serrino le porte de la Città eccetto, le due principali […] et alla custodia […] vi habbino a’ stare di continuo dui cittadini […] contribuendosi fra di loro l’hore, et che nessuno sia esente per qual si voglia privilegio, et non habbino premio alcuno, ma si comandi che tocchi a’ tutti e giri».

I deputati alla porta erano Bussotto Bussi, Francesco Tignosini, Valerio Almadiani, Nicola Tignosini, Marc’Antonio Fiorenzoli, Cesare Pollastri, Anselmo Cocco, Nino Nini, Cesare Cordelli con ogni autorità.

Quest’ultimo, il 7 Dicembre di quell’anno, venne giudicato «troppo modesto et non rigoroso» all’incarico datogli e fu quindi sostituito.

L’8 Maggio 1585 si ordina «Che quanto prima si faccino dipingere le armi del nuovo Pontefice Sisto quinto […] secondo il solito» e il 28 Dicembre si propone di «ridurre in bella forma» la porta. Il giorno dopo furono eletti, per il restauro della porta, i mastri Giovanni Lorenzo Paoloni, Valerio Bussi, Francesco Monaldi e Marc’Antonio Fiorenzoli.

Il 18 Novembre 1611 si lamentò il pericolo che poteva causare «dalla parte di fuori una muraglia dove sono dipinte l’armi» dei Superiori, per la possibile caduta di massi che erano mal murati. Per tale necessità si ravvisò l’opportunità di «scaricarla» e di rifarla a nuovo, anche perché ormai troppo antica, di limitate dimensioni e con un’entrata poco regale. Era l’occasione perché «si rifaccia ancora la medesima porta più grande, più nobile e più magnifica, e si allarghi» e perché fosse realizzata, in maniera più diritta, la via che dalla porta conduceva alla casa dei signori Spinelli, proponendo anche di innalzare una fonte in mezzo alla piazza, davanti alla Chiesa di san Sisto.

Per i priori che andranno ad occupare tale carica, trovo scritto nel Gennaio, Febbraio e Marzo 1613 «Recordo che facciate pagare Scudi 106 per far accomodare la porta Romana». Porta di san Sisto veniva anche chiamata romana sin dalla metà del Quattrocento, ovviamente perché la strada che da essa esce conduce a Roma.

Nella seduta del Consiglio generale del 21 Novembre 1621, ritorna in discussione il pericolo di crollo delle mura poste sopra alla porta, tanto che si afferma:

«La porta di S. Sisto, come le signorie loro sanno, ha dalla parte di fuori una muraglia dove sono dipinte le armi dei SS Superiori che per essere molto debole minaccia evidente rovina con soprastante pericolo di chi vi passa e perciò sarà necessario di scaricarla e di fare anco la medesima porta, la quale oltre a questo ha bisogno di necessaria restauratione per esser molto antica, piccola, con un’entrata poco civile, e senza proportione alcuna, seguendovi immediatamente ancora la strada fino alla Casa dei SS. Spinelli tanto stretta, et angusta, che si rende perciò, come si vede, molto difficultoso il viaggio per le carrozze tanto della Città, quanto de’ forastieri e per tutti quelli, che nell’istesso luogo passano con gran scomodo loro e con poca convenienza della medesima Città, si che rifacendosi l’istessa porta di forma e proportione convenevole, et allargandosi e riducendosi a’ drittura la detta strada oltre alla pubblica sodisfatione e commodità nostra e de’ forastieri, ne risulterà ancora il decoro e la magnificenza della medesima Città essendo la porta e strada (come sanno) principalissime, dove fa capo tutto il mondo per il continuo passaggio della strada Romana, massimamente con l’occasione del vicino Anno Santo. Perciò si propone faccia ogni spesa necessaria».

Alla votazione della proposta, con un preventivo di spesa di duemila scudi, furono favorevoli in gran numero.

Responsabili dell’opera furono prima il cardinale Alessandro Cesarini e poi il cardinale Francesco Maria Brancaccio il quale, al cospetto del luogo ove era aperta Porta di san Sisto, decise che la nuova e più ampia porta si aprisse sul fianco sinistro di chi guarda l’antica. Ma i lavori ebbero inizio, nel 1641, assai tardi.

Il 30 Luglio 1624 la Congregazione di Sanità prese provvedimenti per la peste e ordinò «che per la guardia» alla porta vi dovevano stare di continuo due cittadini, ed ordinò la costruzione di uno steccato fuori della porta, da tenere sempre chiuso e da aprire solo quando chi voleva entrare dimostrava la «sanità corporale». Altra disposizione della Congregazione fu del 12 Giugno 1630 che, sempre per timore del contagio, ordinò l’erezione di uno steccato «fuori del portone di Gradi», ponendovi a guardia, in continuazione, due soldati. Il 1° Luglio di quell’anno, inoltre, fu venduto un cavallo confiscato per acquistare le tende per la porta, al fine di riparare dal sole i portinai e si ordinò di fare il cancello per la porta dando «facultà di farli fare al sig. Pierfrancesco Bussi et al sig. Domenico Sacchi».

Sempre la Congregazione, il 16 Maggio 1633, per prevenire il contagio della peste, ordinò che all’Avemaria fosse chiusa la porta e che non si aprisse fino all’alba, inoltre, proibì l’ingresso agli «infermi di qualsivoglia sorte»; per i trasgressori fu ordinato di piantare una forca per l’impiccagione presso la porta.

Il 9 Settembre 1633 la Congregazione stabilì, sempre per evitare il contagio, che le chiavi della porta fossero in possesso, di giorno e di notte, ai deputati che erano obbligati a dormire nella casa, prossima alla porta, pronti ad «aprire alli corrieri che passano».

Il 19 Giugno 1636, (per Francesco Pietrini è il 12 Giugno), il cardinale Alessandro dei Duchi Cesarini, romano, nominato vescovo della città, alle ore 22, entrò in Viterbo da Porta di san Sisto, accolto dai conservatori, dal popolo e dall’esercito. Raggiunse la Chiesa di san Lorenzo e il Palazzo vescovile, sua nuova dimora.

Nel Trimestre Aprile, Maggio e Giugno 1637, i priori uscenti per i priori da nominare, ricordano:

«Si è fatto anco alzare il muro che trameza fra la vigna di Federico Verreschi e il Barbacane del Signor Tomasso Malvicini, acciò la strada resti spianata, le Signorie Vostre ristaranno servite di far riempire et aggiustare la forma della vigna del Signor Paolo Musacchi et assicurare tutta la strada dal fosso di Rianese fino a la porta di S. Sisto, che importa troppo per esser frequentata da tutta la città».

Nel 1638 i priori fecero domanda per ottenere la licenza a spendere danaro per «aggrandire la porta per la quale si viene da Roma». Il 1° Luglio 1639 venne pubblicato un bando per la costruzione della «porte nove Civitatis S. Sixti» e il 4 Luglio furono già prodotte alcune offerte.

«Offerta fatta da me Bernardino Parenti scarpellino all’opra di scarpello della porta di S. Sisto dell’Ill/ma Communità di Viterbo.

In primo prometto et obligo di fare la pietra piana, ben fatta, e condizionata a’ scudi quattro il palmo, e la pietra scorniciata a’ scudi nove e mezo il palmo cioè il detto lavoro si intenda a’ misura in pelle, e l’intaglio a’ stima, e lascio diece per cento. Et havendo a’ seguire il disegno fatto da me Bernardino per facilitare la spesa di muratori, mi obligo di fare a stucco con le tre armi una di sua Santità, e due delli Em/mi Sig. Cardinali. La grande alta palmi 10 e le due palmi 6 e mi obligo di farlo per scudi 670».

L’altro partecipante alla gara d’appalto scrive:

«Io Antonio Covati Scalpellino in quanto al lavoro della porta scorniciato e pieno intaglio di tutto quello che sarà in disegno mi contento in tutto scudi seicento cinquanta, e fare l'opera bene a’ giudizio di valent’huomini».

Nel trimestre Luglio Agosto e Settembre 1639 i priori uscenti ai successori «è stato ordinato che si faccia la porta nova della Città a S. Sisto è stato aggiustato il desegnio e publicato al banno per ricevere l’offerte procurano il proseguire l'opera. […] è stato riferito che la muraglia della città fori del Crichio [Gabbia del Cricco] verso arcione [Torrente Urcionio] minaccia rovina e bene provedere».

L’anno seguente «M.ro Andrea della Riccia muratore [in data 8 Maggio 1640] si obliga di mettere sù la porta di S. Sisto dell’Ill/ma Città di Viterbo conforme i capitoli e prezzo qui sotto, prima per mettitura di conci a’ giulij cinque la carrettata da misurarsi in terra.

Item si obliga di fare lo straccio di detta porta dove vanno li conci, gratis.

Item si obliga scaricare tutte le case che si doveranno levare per la vista e servizio di detta porta a scudi cinque la canna.

Item si obliga di fare il muro dove bisognerà per la detta porta a’ scudi trentacinque la canna.

Item per cavatura di fondamenti similmente di detta porta, si obliga di farlo gratis.

Item che la detta Ill/ma Communità li debba dare tutto il legname che bisognerà per mettere detta porta e per non sapere lui scrivere prega me Cesare Prosperi facesse la presente di suo ordine si come ho fatto. [Firmato]

Adi 8 Maggio 1640. Polita e lustra che si deve fare alla porta di S. Sisto per la detta porta et adornamento. In prima mi obligo di mettere la detta porta et adornamento tante colonne quanto altri lavori che sono nel disegno per prezzo di scudi 72 e mezzo la carrettata stuccata qualsivoglia congiuntura che potesse nascere in detta opera fondamenti per opera del detto muratore gratis cioè la cavatura.

Et perché si deve fare lo straccio della detta porta, e suo adornamento mi obligo anco detta scarcatura farla gratis. Muro che si deve fare per la fattura e cavatura scudi 40 la canna.

Et altri scarchi che si faranno quando saranno imposti a scudi 9 la canna.

E li detti sassi qualunque si deve livellare, o aggrappare la detta manifattura si deve fare alle spese del sopradetto m.tro Giovanni Antonio senza l’assistenza delli scalpellini e nascendovi difficultà si deve chiamare due homini periti. 

Io Giovanni Antonio mi obligo et affermo quanto di sopra».

Il 30 Settembre 1640 «la fabrica della porta nuova resta imperfetta con gran pericolo che varie malle trattati i conci per mancamento di monete e fero cosa necessarissima procurare tirarla avante e perché questa e volontà dell’Em.mo Brancacci e per essere splendore della città e per fuggire i pericoli di detti conci», così è riferito ai priori nei loro ricordi.

Nel 1641, il 23 Aprile, finalmente si pose mano ai lavori di rifacimento della porta. Scalpellino fu tal mastro Bernardino Parenti, o Parenzo, di Bagnaia che realizzò anche il disegno. Sebbene tutto sembrava aver avuto un buon inizio, ad un certo punto vennero a mancare i fondi, così i lavori furono eseguiti a più riprese e notevole fu il tempo impiegato per il completamento della porta. Lo scalpellino Bernardino Parenti dovette soffrire un po’ per prendere il suo compenso, infatti, esiste una sua lettera diretta al papa nella quale lamenta di non essere stato pagato e, nonostante ciò, nel 1672, la Comunità era debitrice verso di lui di duecento scudi.

I conservatori in data 24 Settembre 1642 ordinano «Che si spiani e levi il terrapieno fuori della porta di S. Sisto vicino alle mura della Città et all’horto delli frati delle fortezze». Ciò per le necessarie precauzioni in quanto era scoppiata la guerra contro Castro.

Nel trimestre Aprile Maggio e Giugno 1643 così i Ricordi dei priori: «La Nova porta di S. Sisto resta perfetta et il danaro se lo godono li scarpellini et altri per le pietre vadano a male».

Il 5 Dicembre del 1649 in Consiglio generale si dichiara: «E’ stata fabricata la Porta nuova della Città a’ S. Sisto con licenza di questo Ill/mo Consiglio e col consenso della S. Congregazione […] e poichè si deve aprire et indrizzarvi la strada nuova [la Cimina], che deve farsi in occasione del prossimo anno santo, conforme al Breve ancora di N. Sig.re essendo congionte alla nuova Porta alcune case del capitolo di S. Sisto che rendono quindici scudi l’anno et avendo l’Em/mo sig. Card. Brancacci aggiudicato che si cedino le case per lo scarco pagandosi così dalla Communità scudi quindici annui mediante il beneplacito Apostolico, se ne da parte alla SS.VV. acciocchè preso quello che spetta alla medesima Communità possono prestare ogni consenso necessario, e andrà per la spesa della Porta nuova».

Da un opuscolo edito dall’avvocato Giuseppe Oddi, già segretario del Comune, trovo scritto:

«Chiusa l’antica porta S. Sisto presso il campanile, ed apertasi la nuova, ora intitolata Romana, nel 1649 fu affidato il lavoro di tutte le decorazioni esterne allo scalpellino Paolo Pieruzzi, sopra disegno di Francesco Majolino: gli stemmi furono lavorati a undici scudi l’uno da certo Monsù Natale che doveva essere francese».

Il 24 Agosto 1650 i conservatori e il governatore, in accordo, approvarono l’apertura della porta nuova e la relativa demolizione delle case che ne ostruivano l’ingresso. A convalidare la demolizione della case era anche un Breve del 25 Febbraio 1650 di papa Innocenzo X.

Nel trimestre Aprile Maggio Giugno 1651 leggo nei Ricordi dei priori:

«E’ caduto il ponte tra la porta di S. Sisto e Gradi et haverà bisogno d'accomodamento, e perché si pretende che sia stato difetto del padrone della nova vigna fatta di sotto, e stato erbato, potranno cadere e prevedere conforme la giustizia. […].

Si deve aprire la porta nova di S. Sisto, essendo stato dato lo scarco a Mastro Lorenzino muratore con obligo di fare a sue spese la porta nova di legno ormo di pagare alla Communità scudi settanta, per farla a spese di quella, e perché detto Lorenzino ha portato e porta via tutto lo scarco, e se potrebbe trovar difficultà nel pagamento di scudi settanta, è bene di provedere».

In merito al ponte fuori della porta, lo Statuto del 1251 puniva chi vi deponeva le immondizie. 

Feliciano Bussi (1742) ci dice che il ponte «resta non molti passi fuori della stessa porta di S. Sisto, e chiamasi il Ponte di Gradi, per essere vicino alla Chiesa di tal nome, essendo il medesimo del tutto in piano, e molto comodo per quelli, che vogliono passeggiare, e trattenersi all’aria della campagna fuori di tal porta. Lo stesso fu fabbricato in tempo del governo di Monsignor Giorgio Spinola, poi degnissimo Cardinale».

Cesare Pinzi nel 1887 scrive che era «un ponte con sedili per aggio del pubblico, dei quali forse è rimasta qualche traccia in quei due montatoj, esistenti a destra e a sinistra della imboccatura della strada Romana».

Così nel 1652 erano quasi giunti al termine i lavori alla nuova Porta di san Sisto, detta Romana. L’apertura fu presenziata dal cardinale Brancaccio. L’antica Porta di san Sisto venne murata, rimase in questo stato fino al secondo dopo guerra, quando fu riaperta per utilizzarla come passaggio pedonale.

Oggi la porta, che conserva ancora la scanalatura della saracinesca ed i fori che tenevano la porta lignea, si presenta con il piano di scorrimento più elevato di quando era in funzione.

Nel trimestre Aprile, Maggio e Giugno 1653 così si esprimono i priori ai loro successori ai quali ricordano che «Si è fatta aprire la nuova porta Romana, e si è messa sopra la porta l'Arme di Nostro Signore Papa Innocentio, si doveranno far metter sù le altre Armi conformemente al disegno presentato».

Nel Consiglio tenuto l’8 Ottobre 1653, il governatore ed i conservatori, col consenso e autorizzazione del cardinale Brancaccio, vescovo di Viterbo, procedettero all’approvazione dell’iscrizione da apporre sulla nuova porta, nella quale lo stesso papa Innocenzo X, si dice, facesse correzioni di proprio pugno. L’iscrizione presentata dal magistrato del Comune era:

Innocentio X Pamphilio Rom. pont. max. / pastori vigilantissimo / patrique optime sanctiss. benemerenti / urbem hanc pacificis ac faustissimis / auspiciis advenienti / S.P.Q.V. / exoptata tanti principis presentia exhilaratus / summaeque beneficentiae suae memor / viam portamque Innocentiam / grati animi argumentum / extruxit, aperuit, dicavit / an. D. MDCLIII.

L’altra iscrizione che Giuseppe Signorelli chiamò la castigata e della quale ho trovato memoria nell’Archivio storico del Comune, è del tenore:

Innocentio X Pamphilio Romano pont. max. / patri optimo pastori orbis vigilantissimo / urbem hanc faustis auspicijs ingredienti / S.P.Q.V. / exoptata principis praesentia exultans / ac magnorum memor beneficiorum / viam portamque Pamphiliam / grati animi monumentum / aperuit, extruxit, dicavit An. D. MDCLIII.

Nove giorni dopo, il 17 Ottobre, papa Innocenzo X, Giovanni Battista Pamphili, arrivò alle ore 15 a Viterbo, da San Martino al Cimino, ed entrò trionfalmente per la «Porta Pamphilia» salutato dai conservatori, che gli consegnarono su un piatto d’argento le tradizionali chiavi della città.

Tra una folta ala di popolo si incamminò per raggiungere il Duomo.

Il 26 Febbraio 1654 i conservatori elessero deputati, per il lavoro alla porta, Francesco Poggi e Francesco Maiolino, inoltre, trovo scritto nelle Riforme:

«appaltarunt laborerius lapidum Porte nove Civitatis nuncupatas Pamphilia Paulo Pierutio lapicide vis. pr.nti iuxta formas designi a’ detto D. Maiolino fuit et tibi tradit. Hunc autem appaltu. fecerunt pro pretiis et cum partis infrascriptis: lo scorniciato in pelle a’ scudi otto il palmo. Il liscio in pelle a’ scudi quattro il palmo, la tavola di tevertino, liscia dove deve andare l’iscrizzione ben polita et arotata a’ scudi otto il palmo in pelle, qual tavola dovrà condursi alla Porta suddetta a’ spese dell’Ill/ma Communità. Le lettere dell’iscrizzione, che devono farsi in detta tavola di tevertino per scudi diece in tutto. Le due palle con le lettere faul con li suoi piedi conforme al disegno suddetto scudi cinque.

I livelli da impiombature de’ gangani cioè li fori da impiombare tanto nelle Armi, quanto nè i pilastri, palle et altri luoghi, che bisognaranno scudi cinque per foro, o buscio. Con patto che si debbano misurare le pietre che sono abbozzate, quali se li debbano pagare per la metà; e che detto Paolo [Pieruzzi] debba tenere di continuo a’ lavorare tre scalpellini almeno.

Item accessit opus infrascriptus armorum Monsu Natalis cum d. Paulo facien. pro pretiis infrascriptis. Le cinque Armi diverse da farsi di nuovo da Monsu Natale p.nte, si come promette, di peperino conforme alle due, che dovrà mettere in opra assieme con dette cinque, e conforme al disegno predetto per prezzo di scudi undici l’una, ma le due già fatte se li debbano pagare per due terzi delle cinque suddette.

Che detti Paolo, e Monsu Natale siano obbligati di modernare l’Arme di N.S. che vi è hoggi sopra la medesima Porta conforme le sarà ordinato dalli sigg. Deputati e le si debba pagare perciò quello che detti sigg. ordinaranno.

Che a detti scalpellini si debbano pagare di mano in mano che lavoraranno i suddetti prezzi e quando haveranno gli ordini de’ sigg. Deputati, o’ di uno di essi perché così è».

La Congregazione di Sanità stabilì nella riunione del 29 Maggio 1656 «Che si serrino per hora quattro Porte cioè S. Pietro, Ascarano, faule, e S. Matteo, et alle due porte che restano aperte [Fiorentina e Romana], vi si mettino le guardie, con dui Cittadini per Porta, e per due giorni seguenti ci si mettino i soldati Corsi e poi i soldati della Città […]. Che si rivedino le muraglie della Città e si faccino accomodare i luoghi per li quali si puole entrare et uscire».

Tutto questo movimento fu dovuto al fatto che la peste incombeva nei luoghi limitrofi, perciò le autorità cittadine cercarono subito di prevenire qualsiasi possibilità di contagio. Inoltre, la stessa Congregazione di Sanità, il 31 Maggio 1656 provvide, per maggiore sicurezza, a «Che si faccino li Cancelli alle due Porte di S. Lucia e di S. Sisto con l’assistenza del sig. cap. Caprini per la Porta di S. Sisto e del sig. Ignatio Bruni per la Porta di S. Lucia, chiamando l’operari necessari per lavorare […].

Che li sopradetti deputati [alle porte] et altri come sopra stiano sempre dentro li Cancelli, e venendo viandanti passeggieri, et altri forastie

ri, così a’ piedi, come a cavallo per entrare in Viterbo, i Deputati alle Porte, i soldati che stanno in guardia, e tutti gli altri, i quali hanno l’incumbenza, non li lascino entrare nelli Cancelli, ne si avvicinino a’ quelli, e ne meno vi trattino, ma li faccino stare lontani, et alla larga da’ Cancelli almeno venti passi, mettendosi perciò un legno, o’ altro contrassegno a’ parte per detto spatio, senza che si trasgredisca quanto [detto] sotto gravissime pene ad arbitrio e tanto alli detti Deputati, soldati, o’ altri, che si truoveranno colpevoli, quanto alli forastieri e passeggieri stessi.

Item Che di lontano li predetti viandanti, passeggieri e forastieri che interrogati dalli Deputati, o’ dalle Guardie, se hanno fedi, e bollettini di Sanità e non havendoli con le voci e con le minaccie si caccino via, e non si dia loro alcun ricetto.

Item se risponderanno di havere la detta fede non sia alcuno che vada a pigliarla, ne trattare con quelli, ma standosene dentro alli Cancelli delle Porte, faccino che i viandanti, e passeggieri stessi senza moversi dal posto designato, gettino la bolletta o fede in terra, e con una canna lunga, o’ altra hasta, con uncinetto, ordegno, o’ altro da poterla raccogliere, e pigliare e farla cadere in un vaso di aceto, o’ altro, le faccino spurgare da ogni sospetto, e passatele per il fuoco si restituischino al passeggiero, avvertendo che le medesime bollette siano vere, e reali con le conferme luogo per luogo, dove saranno passati e non ammettino, ne introduchino forastieri, se non con bolletta da viaggiare».

Nella riunione del 4 Novembre 1656 la Congregazione di Sanità stabilì:

«Che si serrino le Porte di S. Lucia e di S. Sisto e si tenghino aperte quelle di S. Matteo e di faule, mettendovi per Deputati il sig. Magoldi a S. Matteo et il sig. Porticelli a faule con ordine che non lascino entrar forastiero alcuno».

Sempre nel 1656 si ordinò che le persone «con le bollette da viaggiare, et i forastieri entrino solamente dalla Porta di S. Sisto e non altrove, tanto robbe, quanto persone. Che la Porta di faule restando aperta fino a nuova provissione, non lascino i Deputati di essa entrare per quella, ne robbe, ne persone forastiere, ma solamente quelli della Città».

Nella seduta del 14 dello stesso mese, la Congregazione ordinò «Che si serri la Porta di faule et a’ S. Lucia si mandi il sig. Verreschi per Deputato rimovendone il sig. Porticelli [...]. Che vada per Deputato alla Porta di S. Sisto il sig. Cap. Mancini».

Il vescovo Stefano Brancaccio, nipote del precedente vescovo Francesco Maria Brancaccio, il 22 Dicembre 1681 entrò in città oltrepassando Porta Romana ornata per l’occasione con un arco trionfale abbellito da statue. Sopra alla porta era stato innalzato lo stemma del vescovo sorretto da due figure femminili che rappresentavano la Gloria e la Fama.

Una iscrizione riferiva:

«Stephano S.R.E. card. Brancac-cio facto huiusce civitatis antistiti, sub cuius vigilantissimi leonis custodia de justitia forti, dulcedo clementie semper emanat; in eius reditu ob adepta purpuram gratulans, et maiora virtute premia auspicans posuit S.P.Q.V.».

Sui lati della porta più in basso erano invece le figure che rappresentavano la Religione a destra, col motto Hinc omnia, e a sinistra la Pace, con il motto Venit in pace. Sull’arco trionfale erano poi altre figure che rappresentavano la Vittoria alata con in mano il lauro ed i fiori.

Questo è il contratto stilato dai conservatori del popolo con lo scultore Domenico Duranti il 2 Agosto 1704 per ultimare Porta Romana «più riccamente decorata» in base al disegno eseguito dal pittore viterbese Giovan Francesco Romanelli, lo leggo dalle Riforme.

«Gli ill.mi signori capitano Giuseppe Franceschini, Giovan Battista Petrucci e Domenico Bonelli, conservatori del Popolo dell’ill.ma Città di Viterbo danno e concedono a mastro Domenico Duranti il lavoro consistente in terminare e perfettionare la Porta Romana detta di S. Sisto in conformità del disegno fatto dalla bo. (buona) mem(oria) del sig. Francesco Romanelli, del qual disegno detto Duranti si dichiara haver piena notizia et haverne copia appresso di se dell’originale che si conserva in Segreteria et in vigore anche dell’autorità e decreto fatto da Mons. Ill/mo e Rev/mo Gov/re con infrascritti capitoli, cioè:

Che detto mastro Domenico Duranti scultore debba terminare e perfettionare la porta di S. Sisto nel termine di tre mesi da principiare in questo dì 2 agosto e terminare come segue.

Che debba fare li due piedistalli che fanno ala alli pilastri con sopra le sue basi e palle con le lettere F.A.V.L. e con le sue cornici risaltate sopra il pilastro e con i suoi specchi ornati come nel disegno lettera A.

Che debba fare li due pilastri a termine scannellati con la sua base e dietro farvi li contrapilastri risaltati nel modo che sono nel disegno lettera B.

Che debba fare il cornicione rilevato da un pilastro all’altro e risaltato per tutti li due contrapilastri come si dimostra nel disegno lettera C.

Che debba fare sopra li cornicioni la fascia da principiare dal torrone [torrione a sinistra] e continuarla sino al vivo del muro sopra l’orto del marchese Maidalchini come al disegno lettera D.

Che sopra le dette fascie debba farvi i suoi merli tutti di pietra concia come nel disegno lettera E.

Che debba fare l’Arma di Mons. Rev/mo Albergotti Gov/re d’altezza di palmi 8 larga 5 e mezzo in circa, con il cappello, fiocchi e cordellami da collocarsi sopra il pilastro dove sono li specchi come al disegno lettera F.

Che parimente debba fare l’Arma dell’Ill/ma Communità con la sua corona della medesima altezza e larghezza di quella di Mons. Gov/re da collocarsi nell’altro lato a mano sinistra e per prezzo di detta arma della Communità li si debba dare scudi dieci oltre l’infrascritto prezzo.

Che l’Arma della Santa memoria d’Innocenzo X/mo Pamfilio debba posare sopra la fascia segnata D, sotto detta Arma debba farvi il zoccolo alto palmi tre.

Che dette armi debbino esser ben fermate con le sue catene di ferro e posarle come si è detto sopra.

Che nello specchio vi debba intagliare le lettere che li saranno consegnate per l’iscrizzione con la sua vernice negra.

Che debba indorare di nuovo il nome di Gesù e sotto d’esso debba intagliarvi le parole: “Omne genuflectatur” con la vernice negra come nel cartellone.

Che tutti li suddetti lavori debbino esser di pietra peperina di buona qualità.

Che debba accrescere quel muro che occorrerà dal vivo del torrone sino al muro dove sotto è l’orto del sig. marchese Maidalchini [oggi è Via Capocci e oltre questa è la proprietà della famiglia de Gentili] e debba far murare tutte le buche et altro che possa occorrere in detto muro e debba gittare a terra l’arco antico che sta sopra la porta vecchia.

Che debba levare tutte le Armi vecchie che sono dietro la porta per poi portarle e conservarle nel cortile del Palazzo [del Comune].

Che debba arricciare et incollare tutto il muro della fascia segnata D sino a terra e sopra d’esso farvi le sue righe a mattoni di graffito e cortina e debba anche riempire con detta cortina tutti li vani che sono tramezzati nella facciata così nell’ordine di sotto come in quello di sopra. E perché nell’ordine di sotto fu dato il colore di travertino in occasione dell’ingresso del cardinale che fece la chiara memoria dell’Em/mo Stefano Brancacci, debba detto Duranti far levare con la martellina o altro istromento tutto detto colore acciò segua uno stesso ordine di peperino nel miglior modo che si potrà.

Che debba far fermare i conci con le sue grappe di ferro dove occorreranno e quelle ben impiombare.

Che detti lavori debbino esser fatti et ad uso d’arte altrimenti sia in arbitrio dell’Ill/ma Communità farla rifare a tutte spese di detto Duranti perché così convengono per patto espresso.

Che detta Communità non debba pensare a cose alcune per porto di pietra, ferri o qualsivoglia altra cosa, ma solo debba dare a detto Duranti la calce che occorrerà per detta fabrica e scudi centocinquantacinque da pagarsi cioè scudi cinquanta nella stipulazione dell’istromento e li restanti scudi centocinque pagarli di mano in mano che detto Duranti farà li lavori con patto espresso che debbino restare in mano della Communità terminato il lavoro, scudi venticinque, e questi da pagarlisi doppo che sarà riconosciuto che habbia adempito tutto il suo obligo perché così convengono per patto espresso e non altrimenti».

I disegni dei progetti di Porta Romana li trovò, alla fine dell’800, negli archivi comunali lo storico Andrea Scriattoli che li ricopiò e riportò sul suo splendido libro Viterbo nei suoi monumenti del 1915 - 1920. Oggi sono scomparsi.

Nel 1705 fu innalzata, sulla sommità della porta, la statua raffigurante santa Rosa con in mano la croce, poggiata su un piedistallo a cubo, con su inciso Diva Rosa, probabile opera dello stesso scultore Domenico Duranti.

Dello stesso anno è l’epigrafe le cui lettere furono verniciate di nero:

Portam hanc / Innocentio X urbem ingressuro / primum reseratam / Clemente XI foeliciter regnante / Andrea card. de S. Cruce antistite / Marcellino Albergotto / Patrimonii provinciam gubernante / hoc ampliori quem vides ornatu / decorari curavit / anno Domini MDCCV / S.P.Q.V.

Ossia: Questa porta, già aperta per l’ingresso di Innocenzo X, il Municipio di Viterbo, regnando Clemente XI, essendo vescovo Andrea cardinale di Santa Croce e Marcellino Albergotti governatore della provincia del Patrimonio, curò che fosse più riccamente decorata nel 1705.

Nel Febbraio del 1707 si ritenne necessario realizzare un tetto perché proteggesse dal sole e dalle intemperie la Macchina di santa Rosa che «è solita farsi ogni anno». Furono previsti venti scudi di spesa.

Nel Consiglio generale del 25 Novembre 1707 leggo che fu incaricato il falegname Francesco Minestroni, o Minestrone, di Vetralla a realizzare le ante in legno della porta, su disegno eseguito dal Carretti.

«Essendo che l’alluvione delli 26 ottobre 1706 oltre che haver atterrato in Faule parte di quelle mura castellane ruinasse a’ fatto le porte di legno della città, onde necessità dovessero farsi dette porte di nuovo paresse bene a’ Mon. Ill/mo Rev/mo Governatore come all’Ill/mi Rev/mi Conservatori giachè doveva farsi una porta di nuovo che questa si facesse per la Porta di S. Sisto [o meglio Romana], e che fosse ornatamente fatta per esser Porta Principale della Città e Romana, e che si adattasse per porta di Faule la detta Porta Vecchia di S. Sisto, et havendo fatte più, e diverse per ritrovare falegname che fosse esperto nell’arte sua, facesse una Porta nobile per S. Sisto foderata di noce, et essendosi offerto mastro Francesco Minestroni da Vetralla di fare la detta Porta a’ tenore del disegno fatto dal Carretti per scudi cinquant’otto, e volendo gl’Ill/mi […] Conservatori del Popolo della Ill/ma Città di Viterbo, […] dare, alla detta resoluzione, danno e concedono la fattura di detta Porta al suddetto mastro Francesco Minestroni cogl’infrascritti patti e condizioni cioè:

Che detto mastro Francesco sia obbligato fare la Porta di legno per porla nella Porta di S. Sisto, cioè con i fusti di essa Porta di lunghezza di quanto è la medesima e grossezza d’oncie cinque qual fusto debba essere senza alcuna insitatura, e di castagno buono, e ben stagionato et impirato da riconoscersi da chi ordineranno detti Ill/mi Sigg. Conservatori. Di più che sia obligato foderare detto fusto di legname di noce ben stagionato unito, e ben eguagliato, e ripulito, e detta fodera debba essere di grossezza d’oncie due.

Che debba fare le faccie sopra detta fodera riquadrature e scorniciature parimenti di legno di noce ben stagionato come sopra e la riquadratura e dette facce debbino esser grosse oncie tre e larghe un palmo, et oncie cinque con scorniciature conformemente al disegno.

Che debba in detta Porta farvi gl’intagli di legname di noce ben stagionato, cioè nel tondo o lunetta due mascheroni di leoni e nello specchio sotto detto tondo vi debba porre a’ man destra l’arme di Mons. Ill/mo Ecc/mo et a man sinistra nello specchio l’arme dell’Ill/ma Città di Viterbo.

Che nelli specchi di sotto parimente d’intaglio vi debba detto Minestroni fare parimente di noce una mezza Palla grande con le lettere F.A.V.L., e farci anche lo sportello di proporzionata misura, e detti intagli debbono essere ben fatti e politi a’ tenore del disegno del modello che li verrà consegnato dall’architetto.

Che detto Francesco sia tenuto a’ cosa alcuna per li ferrami, che occorreranno per detta Porta, ma solo a tutti i legnami.

Che detto mastro Francesco debba porre in opera tutti li chiodi che li saranno consegnati per inchiodar detta Porta, con ribatterli, come anche debba inchiodare la Bandella et ogn’altra cosa che occorresse.

Che tutti detti lavori debbono esser fatti ad uso d’arte, ben politi e mancando in tutto o in parte sia conto all’Ill/ma Comm/tà di farli fare a sue spese senza altra intimazione perché così convengono per patto espresso.

Che sia all’intaglio come a detta Porta debba dare la vernice che li sarà consegnata per parte dell’Ill/ma Communità.

Che l’Ill/ma Communità per fattura e legname di detta Porta, et intagli sia obligata darli scudi cinquant’otto con pagarli nelli infrascritti modi, cioè di parte scudi venticinque e li restanti scudi trentadue pagarli: et scudi undici quando haverà portato tutto il legname in Viterbo, et haverà atterrato il lavoro in Viterbo, e li scudi undici quando haverà finito il lavoro e li restanti scudi undici quando haverà posto in opera il lavoro et inverniciata detta Porta.

Che per maggior sicurezza dell’Illustrissima Comunità presente e personalmente costituito il detto Nicola del Carretto figlio di detto Francesco Bassano del Carretto Romano, quale spontaneamente promette, e si obliga, accede e fa la sicurtà a detto Minestroni obbligandosi principalmente come Principale et in solidum».

Come promesso in data 25 Novembre 1707 i conservatori del popolo provvedono ai ferri occorrenti alla porta, infatti quest’ultimi «concedono a mastro Domenico Costantini qui presente la fattura de’ chiodi et ogn’altro ferramento che possa occorrere per la nuova Porta di S. Sisto, quali chiodi debbino esser fatti a punta di diamanti e secondo il modello fatto di legno dal medesimo et a me segretario consegnato con gl’infrascritti patti e condizioni.

Che detto mastro Domenico sia obligato fare quella quantità di chiodi che occorreranno ben fatti, ben forbiti et ad uso d’arte, tutti d’un pezzo e di giusta lunghezza, e che debba ogni chiodo pesare oncie dieci in circa, e non più.

Che debba fare tutti li chiodi che occorreranno per le Bandelle, sì della Porta come dello sportello, ed ogn’altra cosa che potesse occorrere di lavoro di ferro, il tutto ben fatto et ad uso d’arte non compresovi però in detto lavoro le serrature che potessero occorrere per detta Porta e Sportello.

Che volendo l’Ill/ma Communità far dare la vernice alli chiodi, che sono fatti a’ punta di diamante.

Che debba la medesima darli a sue spese la vernice, e detto mastro porla in opera senza altro pagamento perché così per la vernice.

Che per fattura di detti chiodi compresovi però che debba mettervi detto mastro sia l’Ill/ma Communità obligata pagarli, cioè i chiodi a punta di diamante a denari sei e mezzo latt.a e li chiodi per le Bandelle a raggione di denari sei latt.a et occorrendo bandella sì per la Porta, come per lo sportello et ogn’altro ferrame lavorato che potesse occorrere parimente a denari sei latt.a.

Che li si debba pagare per quello di detti chiodi adesso scudi quindici acciò possa far provvista di ferro e di carboni e li rimanenti denari secondo il lavoro che haverà fatto, con questo però sempre debbino restare in mano dell’Ill/ma dep. della Communità scudi dieci da pagarseli subito che haverà terminati li detti lavori perché così è.

Che mancando detto mastro di fare o in parte o in tutto a’ detti lavori possa la detta Ill/ma Communità far fare tutto quello che mancasse a spese danni et interesse di detto mastro perché così convengono per patto espresso».

Nel primo trimestre del 1708 leggo nei Ricordi dei priori:

«La Porta di S. Sisto ritrovandosi in poco buono stato per l’antichità fu risoluto che si rinovasse servirsi di questa per la Porta di faule et in questa di S. Sisto porsi la porta nova che gia è stata stabilita da farsi da M° Francesco Minestroni come migliore offerente, […] La chiodatura e ferramenti sono stati stabiliti con M° Domenico Costantini». 

Nel 1727, per la venuta di papa Benedetto XIII, l’8 Novembre, fu apposta e poi tolta l’epigrafe, così riportata da Francesco Cristofori:

«Benedicto XIII / ordinis praedicatorum / pont. opt. max. / qui / canonicis cathedralis sacris infulis insignitis / Senatuque Viterbiensi / aureis indumentis decorato / ut suam hanc / Patrimonij metropolim / clarioribus honoribus auctam / sublimioribus cumularet beneficiis / pontificiam huc transferens majestatem / coeli gratias undique impertitur / S.P.Q.V. / procedens in Genua / venerabundus posuit».

Ma brutti momenti stavano arrivando per la storia della porta.

Nel 1798 il generale francese François - Etienne Kellermann con le sue truppe si schierò davanti a Porta Romana per entrare in città e sottometterla vista la resistenza che la medesima aveva opposto al giacobinismo.

La scena è ben rappresentata in una stampa di quel tempo dove si vede l’attacco alla porta con i cannoni da parte dei Francesi, sul basso della incisione è scritto:

La città di Viterbo per intercessione di Maria SS.ma e S. Michele Arcangelo e S. Rosa liberata dalla forza / francese in tre diversi attacchi il di 27 9mbre 1798 e il di 17 Xmbre 1798, e il di 4 agosto 1799.

Esiste un’altra stampa, in memoria dell’avvenimento, incisa da Luigi Cunego su disegno di Pietro Papini, viterbese (1753 - 1839) e raffigura santa Rosa che ha sotto i piedi un soldato francese, una iscrizione riferisce:

Pro infractis pluries adversus Civitatem Civesque suos Gallorum conatibus. An. 1799.

E’ interessante rilevare dalla medesima stampa, che sopra alla porta campeggia lo stemma del cardinale Santa Croce, o Santacroce, ormai non più in loco, al posto del quale è rimasto un gancio biforcuto in ferro.

I Viterbesi, al cannoneggiamento del generale, rispondevano con due spingarde collocate sulla torre-campanile della Chiesa di san Sisto (foto 91) e con soldati appostati sulle mura che colpivano il nemico con lo sparo dei fucili.

Negli avamposti presso Gradi i soldati erano al comando di Vincenzo Dominioni, questi abitava in Vicolo Centofanti n°14 nella Parrocchia di santa Maria Nova. Sulle torri di san Sisto e delle Fortezze furono appostati Angelo Dominioni, Giuliano Quatrini, Francesco Petri e Giuseppe Pinzi. Scrive Giuseppe Signorelli:

«migliaia di Viterbesi decisi a resistere a oltranza, al riparo delle mura, intrepidi si succedevano gli uni agli altri per ribattere il nemico».

Una vera e propria dimostrazione di unione per il conseguimento del bene comune, ma i Viterbesi non erano soli! Una radicata tradizione locale vuole, infatti, che durante il cannoneggiamento santa Rosa da Viterbo con un prodigio rendesse innocue le palle di cannone lanciate dai Francesi, oggi quelle palle sono ancora conservate nella casa della Santa.

Non va dimenticato un altro simile intervento divino accaduto poco meno di centocinquanta anni dopo, durante i bombardamenti aerei del 1944, che colpirono inesorabilmente la zona di Porta Romana. Miracolosamente la porta e la statua di santa Rosa rimasero in piedi nonostante l’obbiettivo da colpire fosse la porta stessa per ostacolare il passaggio del nemico.

Per i moti del 1831 il generale Galassi incaricò gli architetti Tommaso Giusti († 1848) e Francesco Lucchi (1779 - 1853) di mettere la città «al coperto da ogni sorpresa» e, per Porta Romana, fu prevista la costruzione di una trincea con avanti una controfossa, armata internamente con legname fermato da pali di legno piantati in terra, con relativa feritoria. 

Il lavoro fu eseguito da Giacomo Zei. Inoltre, fu «tagliata in mezzo la trincera per formare il boccaporto del cannone, ricoperto di zolle di erba bagnate, e battute con maglio, fatto il taglio dentro la trincea inclinato, e fissato li tavoloni per la piatta forma, preparato lo sterro, e due botti per chiudere il passo».

In una Relazione della condotta della Città di Viterbo del 4 Aprile 1831 leggo, sempre coll’intento di difendere la porta:

«Altra trincea fù pur formata alla Porta Romana suscettibile di un cannone, ed un corpo di fucilieri. Si formarono cavalli di frisia per impedire l’accesso della cavalleria, le quattro altre Porte della Città furono chiuse e barricate, furono troncate alcune strade suburbane per le quali poteva l’inimico passare inoffeso per dirigersi sopra Roma, furono con griglie di ferro garantite da ogni clandestina invasione le aperture dei grandi alvei nelle mura castellane e queste in varj punti furono munite di opportune feritoje pe’ nostri bersaglieri».

Le ante in legno della porta, dopo una perizia del 1° Aprile 1839, eseguita dall’architetto comunitativo Francesco Lucchi, furono rifatte in quell’anno, in castagno, dal falegname Leonardo Pizzini, il quale cercò di recuperare i vecchi settecenteschi legni di noce. In quell’occasione fu anche eseguito il nuovo sportello, un po’ più ampio del precedente, per un uso più agevole al transito delle persone e «siccome le due partite del fusto [delle ante di legno] nello stare aperte sorpassano la grossezza del muro [che le protegge], e soffrono moltissimo dell’acqua saranno in sommità munite di foderature di latta a tutta grossezza».

La porta fu, poi, verniciata ad olio cotto color bronzeo, la vernice era composta di biacca senza mistura. Era raccomandata anche la verniciatura delle teste dei chiodi perché non arrugginissero.

Una nuova verniciatura, in color verde, venne effettuata nel 1960, quando fu consolidata la porta, sostituendo parte del legname fradicio.

La lunetta in legno, ricavata nel 1839 dalla porta settecentesca a tutta altezza, la trovo in loco fino al 1890 circa, come risulta dalle foto che ho anche pubblicato nei miei libri. Poi, resta visibile, fino a circa il 1910, solo la traversa posta tra la lunetta e le ante in legno.

Nel 1845 fu realizzata presso la porta, ad opera di Giacomo Zei, una piccola costruzione rotonda per ospitare la ricevitoria dell’appalto del Dazio Consumo e nell’adunanza consigliare del 9 Maggio 1854 fu stabilito di aiutare quei muratori che nell’Inverno si erano trovati senza lavoro, impiegandoli al restauro delle mura castellane diroccate in più parti.

L’11 Ottobre 1860 i Francesi, entrando da Porta Romana, occuparono Viterbo, per ristabilire il dominio clericale. A Piazza del Comune fu calato lo stemma reale dei Savoia, al che contestarono i Viterbesi assieme ad Alessandro Polidori, presidente della Commissione municipale, al grido «Viva Vittorio Emanuele II re d'Italia».

Riferisce Francesco Cristofori che, nella parte interna di Porta Romana, in un graffito già abbastanza, deteriorato nel 1887, vi erano raffigurati: i martiri san Valentino ed Ilario, decapitati il 3 Novembre 306; san Lorenzo e papa Sisto II. Oggi non se ne ha più traccia.

Dopo i bombardamenti aerei del 1944 che, come ho scritto, hanno distrutto la torre presso la porta e parte delle mura da Porta Romana a Porta san Leonardo, alcuni restauri e ricostruzioni sono stati eseguiti a cura del Genio civile nel 1946, nel 1948 e ancora nel 1953.

Nel mese di Novembre del 1975 venne disposto il restauro delle ante in legno che vennero tolte dai cardini, infatti, erano assai mal ridotte e potevano lasciar cadere qualche loro parte. La porta in muratura, invece, fu chiusa alla fine di Aprile 1978, perché pericolante.

E’ stata restaurata a cura del Comune, per consolidamento, a partire dal 1980 ed i lavori sono durati per qualche anno.

La porta oggi si presenta con gli stemmi, a sinistra di chi guarda, di papa Clemente XI (1701 - 1721) e a destra di papa Innocenzo X (1644 - 1655), una fila di dieci merli alla ghibellina sono a difesa della porta. Ai lati, in basso, sono altri due stemmi a destra del Comune di Viterbo e a sinistra del governatore Marcellino Albergotti

Sotto l’epigrafe, al centro, in un riquadro in peperino, è il simbolo di san Bernardino IHS nel sole e sulla chiave dell’arco Omne / genu / fle / cta / tur. Il riquadro col nome di Gesù in origine fu verniciato in oro e lo trovo in loco fino a poco prima della fine dell’800, poi non esiste più, venne inserito di nuovo nei primi anni ‘30. La scritta Omne genuflectatur in origine era verniciata di nero.

Poco avanti a Porta di san Sisto era un tempo l’Ospedale di san Sisto.

 

 

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